Capitolo 26
La tenue luce del mattino illuminava tutta la Radura. In lontananza si potevano scorgere alcuni ragazzi che passeggiavano per raggiungere il loro posto di lavoro. Ad una prima occhiata sembrava una mattinata come tante. Alcuni di loro si voltarono distrattamente verso la Porta, quando i loro occhi incrociarono le figure dei tre ragazzi rimasti chiusi dentro al Labirinto, si bloccarono di colpo con il volto paonazzo come se avessero visto un fantasma.
Eravamo vivi. Incredibilmente vivi.
Fui investita da un'ondata di sollievo, la mia mente andó dall'intenzione di correre verso gli altri ragazzi a quella di sprofondare nel materasso per via della stanchezza, realizzando il fatto di non aver chiuso occhio per davvero se non per un piccolo pisolino visto che avevo il terrore che un altro Dolente potesse spuntare fuori dalla Scarpata.
Non ero mai stata cosí contenta di vedere quel luogo, finalmente potevo lasciarmi alle spalle quella nottata tremenda.
Anche i due Velocisti erano contenti di essere di nuovo a "casa" e al "sicuro", sempre se la Radura si potesse ritenere tale.
Non feci in tempo a registrare ogni singolo particolare della Radura che una testolina dai lunghi capelli biondi mi stritoló in un abbraccio piangendo contro la mia maglietta sudicia.
L'impatto mi fece spostare il peso sulla caviglia malandata e quindi mugugnai dal dolore mordendomi il labbro inferiore -ormai torturato e screpolato piú che mai- per trattenere un'imprecazione.
Rimasi un po' sorpresa da quel gesto inaspettato, come una cascata che si gettava dal precipizio per alimentare il fiume, venni inondata dalle mie emozioni.
Strinsi a me Beatrice affondando la faccia sull'incavo del suo collo e ignorando il punto dolente, per quanto mi fu possibile.
Diversi pensieri mi riempirono la mente, una morsa di ferro si attorciglió attorno al mio cuore come un serpente che avvolgeva la sua preda, alla sola consapevolezza che l'avrei potuta perdere. Beatrice era una parte importante di me, eravamo talmente in sintonia da sembrare un sola persona. Era spuntata fuori dalla Scatola da meno di tre giorni; tolte le diverse ore in cui ero a lavoro il tempo che avevo trascorso con lei era decisamente minore. Eppure mi trasmetteva tutto questo in una sola volta.
Lacrime calde sfuggirono dal mio controllo bagnandomi le guance. In altre situazioni non mi sarebbe piaciuto sfogare il mio stato d'animo perché temevo il parere altrui non volendo essere etichettata "debole" ma in quel momento c'ero solo io e Beatrice.
Non avevamo bisogno di parole per dirci quando fosse stata orribile quella notte. Le lacrime narravano come l'avessimo vissuta: io fuggendo e lei pregando che il giorno dopo mi avrebbe rivista, con il cuore a pezzi per essersene stata con le mani in mano. I singhiozzi che scuotevano violentemente i nostri corpi, accompagnavano il racconto liberando nell'aria le nostre preoccupazioni, le nostre paure riguardo alle infinite ore appena passate.
Sentii i passi veloci di un ragazzo e la sua voce familiare avvicinarsi sempre piú. Sapevo benissimo chi fosse ma preferivo mantenere il viso coperto dalla spalla della bionda.
Non seppi per quanto tempo avessi pianto ma quando finii la mia riserva di acqua salata, lasciai andare il corpo di Beatrice.
Ci staccammo pulendoci con il polso o il palmo della mano le lacrime che avevamo versato incessantemente. I nostri corpi di tanto in tanto vennero scossi da dei singhiozzi che minacciavano una ricaduta. Le nostre guance bagnate erano divenute appiccicose per via del pianto mentre gli occhi arrossati e gonfi.
Spostai lo sguardo un po' appannato dalle lacrime ai tre ragazzi.
Newt aveva delle profonde occhiaie e i capelli sembravano dotati di vita propria dato che erano sparati in ogni direzione. I suoi occhi, nonostante l'aspetto trasandato, erano pieni di gioia. Di sicuro, come gli altri, non si sarebbe mai aspettato di trovarci a percorrere il corridoio principale. Non potevo biasimarlo infondo noi eravamo riusciti a fare una cosa in cui nessuno ne era stato capace.
Sentivo l'istinto di precipitarmi tra le sue braccia, riempirgli le guance di baci e sussurrargli nell'orecchio quanto mi fosse mancato e quanta paura avessi provato se non lo avessi piú rivisto. Mossi un passo nella sua direzione intenzionata a rendere veri i miei desideri ma, come uno schiaffo, mi tornarono in mente quando lo vidi sorridente con mia sorella e quando la sera prima la bloccó prendendole il polso. Ció mi trattenne dal compiere quel gesto convinta che se lo avessi fatto non gli sarebbe gradito visto che non ricambiava i miei sentimenti.
Perció mi limitai ad osservarlo mentre parlava coi due Velocisti.
Di tanto in tanto distoglievo lo sguardo trovando piú interessanti le mie scarpe quando lui tentava di allacciarlo al mio o quando la sua attenzione era rivolta a me.
"Dov'é Alby?" chiese il biondo non trovando con gli occhi il ragazzo di colore.
"Legato all'edera." gli rispose semplicemente Thomas.
Newt corrugó le sopracciglia -cosa che fece schizzare la mia temperatura corporea- non capendo ció che volesse dire il moro. Posó gli occhi in ogni punto delle due pareti e quando scorse il primo in comando, finalmente capí.
Chiamó due ragazzi, molto probabilmente erano Medicali, che si avvicinarono correndo. Dopo essere stati informati della situazione, si arrampicarono, sciolsero il corpo dai rampicanti e lo adagiarono sul pavimento.
Alby era ancora privo di sensi, mi augurai che mentre ero intenta nel fuggire dai quattro Dolenti fosse rinvenuto e che ora stesse semplicemente riposando.
I due Radurai controllarono il suo battito e affermarono che fosse ancora vivo e che si sarebbe rimesso in fretta, notizia che fece sentire il cuore piú leggero a tutti.
Avevo ancora la mente affollata dai pensieri e mia sorella non sembrava intenzionata a mollarmi il braccio, il cui contatto mi fu gradito.
Appena superai la Porta venimmo accolti da una folla esultante di ragazzi. Senza troppi convenevoli, dei Medicali ci presero per un braccio e ci condussero all'interno del Casolare.
La presa di mia sorella si allentó e la vidi dirigersi da un'altra parte sparendo tra la folla magari guidata dal pensiero di stare un po' sola.
Nel giro di pochi secondi mi trovai seduta sul materasso, avevo ottenuto nuovi cerotti e fasciature sulle braccia.
Il ragazzo che mi stava curando era basso, aveva i capelli neri un po' ingrigiti e scoprii si chiamasse Clint ovvero la "spalla" di Jeff. La prima volta che lo vidi era quando Ben, il Velocista punto e poi esiliato, era collassato al suolo.
Mi immaginai i due Radurai lavorare insieme e non potei fare a meno di credere che fossero una bella squadra.
Dopo che Clint mi mise l'ultimo cerotto, si dedicó alla caviglia destra. Non aveva un bell'aspetto, un grosso livido violaceo occupava una bella porzione del dorso del piede. L'articolazione, messa a confronto con quella sinistra, era gonfia.
La alzó e pazientemente piegó il mio piede in avanti e poi indietro, infine a destra e a sinistra. Quei gesti peró non furono ben apprezzati dalla mia caviglia la quale per ripicca sprigionó una fitta che si diffuse per tutto il mio arto.
"Non hai niente di rotto, tieni la caviglia dritta e nel giro di qualche settimana si sistemerà." mi informò porgendomi del ghiaccio per attenuare il gonfiore.
Scesi dal letto e zoppicando mi diressi in camera. Ad ogni singolo scalino mi sembrava di avere un enorme pezzo di piombo al posto del piede. Dopo diverse imprecazioni giunsi nella mia stanza avente un aspetto completamente diverso da come lo ricordavo. I due letti erano rifatti, i due scatoloni che erano sotto alla finestra -la quale stranamente era pulita perfettamente- contenevano un egual numero di vestiti.
Insomma dire che era ordinata e precisa era poco.
Stancamente posai i due pugnali e la spada per terra appuntandomi mentalmente di dargli una pulita più tardi. Infine presi dei vestiti puliti lieta di potermi togliere quella odiosa patina di sporco che avevo addosso.
Aprii il getto dell'acqua e iniziai a lavarmi velocemente stando attenta a non bagnare cerotti e fasciature.
Chiusi gli occhi lasciandomi travolgere dalla piacevole freschezza dell'acqua. Purtroppo nelle palpebre avevo ancora impresso l'immagine di un Dolente, al solo pensiero un brivido freddo corse lungo la mia schiena.
Mi asciugai quindi mi rivestii e sprofondai sul materasso. Ringraziai infinitamente che il sonno non tardò a venire.
La stanza in cui mi trovavo era completamente buia e priva di finestre da cui poteva filtrare la luce. Ero sdraiata supina su un duro materasso, le leggere coperte arrivavano quasi sotto alle spalle.
Percepivo i palmi delle mani appoggiati ai lati delle cosce.
Ipotizzai fosse notte dato che mi sentivo assonnata.
Il letto in cui ero sdraiata era a circa un metro dalla parete di sinistra nella quale erano assenti mobili e mensole. Spostai gli occhi alla mia destra sicura di trovare l'altra parete spoglia ma invece vi trovai in uomo intento ad armeggiare con qualcosa.
Per via della poca luce mi sarebbe dovuto risultare difficile descriverlo ma non sapevo il motivo, riuscii a vedere ogni suo particolare. Era come se fosse illuminato da una fonte luminosa posta in verticale a poca distanza da me anche se non ne era presente alcuna.
Lo strano bagliore mostrava il busto e il volto, le gambe invece si confondevano con l'oscurità quindi non potevo dedurre se fosse in piedi o seduto. Aveva dei corti capelli neri, le sopracciglia folte e scure erano corrucciate. Gli occhi scuri erano puntati verso quello che teneva tra le mani, concentrato a cogliere ogni singolo particolare. Il volto era ben rasato e la pelle non accennava alla presenza di alcun pelo. Ad occhio e croce avrei detto che aveva intorno ai trenta o quarant'anni. Il camice bianco era aperto mostrando una maglietta nera senza scritte. Le sue esili dita pallide tenevano in mano qualcosa ma dato che lo vedevo a tre quarti ed ero sdraiata non capii cosa stesse studiando con tanto interesse.
Feci per urlare per attirare la sua attenzione ma le parole rimbombarono nella mia mente. Tentai di nuovo ma le mie labbra rimasero serrate come incollate da una forza potentissima. Sbarrai gli occhi percependo il panico assalirmi, in contemporanea sentii freddo come se una lastra di metallo fosse venuta a contatto con la mia pelle. Cercai di muovere la testa e le dita ma le articolazioni non volettero rispondere ai miei comandi. Il capo rimase fermo dove stava mentre le unghie si conficcarono sotto al mio ginocchio.
Poi all'improvviso delle piccole luci circolari si accesero come piccoli fari facendomi distogliere l'attenzione dal medico.
Quelle fonti luminose, però, avevano qualcosa di strano. La stanza era ancora buia e l'uomo era sempre parzialmente visibile.
Feci per strillare di nuovo ma la voce era udibile ancora solo nella mia testa.
Ora quei punti luminosi si avvicinarono lentamente al mio viso perdendo la loro forma circolare e acquistandone una non definita.
Anche se potevo ancora vederli cadere leggiadri nell'aria come piume, sentivo inspiegabilmente la loro consistenza strana, ogni volta che tentavo di paragonarla a qualcosa di reale, essi modificavano la loro composizione come se si divertissero a rendermi confusa.
Per un attimo ero sicura che stessi sognando ma quando la mia pelle percepì la loro presenza, ebbi la certezza che fosse tutto vero.
Sembravano dei piccoli pezzi di carta velina bianca, erano lisci e morbidi come seta poi mi parve che fossero più simili alle penne di un uccello.
Non seppi perché ma pensai subito alla neve, mi ritornò in mente l'ultima volta che avevo visto i piccoli fiocchi cadere dal cielo. I miei occhi proiettarono un cielo grigio da cui scendevano senza fretta i piccoli frammenti ghiacciati. Tutto era bianco, la coltre di neve ricopriva ogni cosa rendendo il paesaggio uniforme.
Ricordavo di avere vestiti pesanti, un cappello di lana mi copriva la testa mentre una lunga sciarpa mi avvolgeva il collo.
Avrei tanto voluto trattenere ancora un po' quel ricordo ma voló via come un foglio di carta preso dal vento, prima che potessi stringerlo saldamente tra le dita.
Cosí fui riportata bruscamente in quella strana stanza dalle luci inquietanti.
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