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Liluye e la Luna

Il dolore l'attraversò come un pugnale. La fece boccheggiare, sorpresa suo malgrado. Poi allentò cauto la stretta, lasciandola andare.

Liluye respirò di sollievo, e raccolse le idee. Era pomeriggio, ma aveva ancora luce, quindi non indugiò, nel raccogliere il poco da aggiungere alla sporta. Infilò gli spallacci e si avviò. Prese il passo regolare che serviva, per lasciare la tenda e dirigersi alla meta, verso Nord.

Il secondo affondo la morse feroce appena fu tra la rada vegetazione che circondava il riparo appena abbandonato. Deciso, un affondo ai reni e poi s'era chiuso sul ventre. Chiusa tra mascelle di drago, s'era bloccata. Aveva socchiuso gli occhi, e atteso la mollasse. Avrebbe giocato a lungo, sapeva, primo di divorarla.

Ricordò la sua Waki, che interrogava da bambina sulle cose del mondo. "Il dolore", le aveva spiegato, "va rispettato. È un onore accoglierlo, è un messaggero che non bisogna temere".

"Di chi è messaggero, Waki?", aveva chiesto Liluye, che ancora sapeva tanto poco di tutto.

"Della vita, piccola. Il dolore accompagna la vita, l'annuncia e la serve. Bisogna rendergli grazie, per i suoi preziosi servigi".

Liluye aveva ascoltato e impresso quella verità in memoria senza dubitarne.

"Perché il dolore accompagna anche la morte?", aveva chiesto un po' più avanti, mentre ancora bambina già aveva visto i guerrieri feriti urlare e poi irrigidirsi, per non più respirare.

"Chi ti ha detto che il dolore venga per la morte, Liluye? Ti ho insegnato altro, io!"

"Sì, Waki. Mi hai detto che porta la vita".

"Allora risponditi da te. Quel dolore che hai visto, in quegli uomini, che vita annunciava?"

Liluye ci aveva pensato.

"Quella nelle Grandi Praterie?"

"Bene bambina, sei intelligente. Ora ricorda anche questo che ti insegno: la morte conduce sempre alla vita, chi crede il contrario è uno stolto, che se gli indichi il monte puntando la mano, fissa le tue dita".

Il dolore la strinse nuovamente, giocando come il leone di montagna tra l'erba, ad afferrare e lasciare e riprendere la sua preda.

Liluye ansimò e sorrise. Ben venuto, signore, disse al dolore. Non che con questo volesse ingraziarselo, sapeva bene che quel messaggero svolgeva sempre il suo compito con assoluta imparzialità!

Appena lui glielo consentiva, Liluye riprendeva il cammino.

"Perché a volte...", ricordava d'aver chiesto a Waki, "dopo il dolore non si muore?"

Lo chiedeva perché un giorno suo padre era tornato ferito, ma era guarito.

"Si attraversano molte morti, Liluye", le aveva risposto severa Waki. "Ogni volta che il dolore scende nella nostra carne e nel nostro cuore, uccide il vecchio e lascia una nuova vita. Dopo il dolore sei diversa, cambiata. Per questo occorre imparare ad accoglierlo".

Liluye aveva annuito, e pensato a suo fratello, prossimo alla prova.

"Per questo i giovani entrano nella capanna, ed escono con le cicatrici dei guerrieri", aveva commentato.

"Esatto Liluye, sei davvero intelligente. I giovani entrano e gli anziani li saggiano: se accettano il dolore, se lo accolgono, se si sottomettono al suo volere senza arretrare, muoiono all'infanzia e nascono i nuovi uomini della tribù".

"E le donne?"

Non aveva potuto non chiederlo, la piccola. Ma l'aveva sorpresa il riso di Waki. Mai l'aveva sentita ridere così divertita, le sembrava.

"Le donne imparano a conoscerlo presto, Liluye, il dolore, non serve che gli anziani gliene procurino per misurarne il coraggio. Tutte le donne sono coraggiose per natura".

Liluye si era stupita di quelle parole, perché credeva che fossero i guerrieri, i campioni del coraggio.

Ma presto aveva scoperto che era vero, le donne incontravano presto il dolore.

"Perché?"

S'era stupita di quelle tenaglie nel ventre che affondavano crudeli.

"Perché la bambina muore, Liluye. Dentro di te s'è aperta una ferita, che sanguina e ti insegna il dolore. Quando passerà, sarai diversa. Ormai una donna".

Liluye aveva spalancato gli occhi.

"Oh!"

E aveva gioito, orgogliosa. Come i ragazzi uomini, anche lei diventava donna, anche se costava sangue.

"Guarda la Luna, Liluye. Memorizza la sua forma. Quando la rivedrai così, accadrà di nuovo".

A questo, si era raddrizzata stupita. Ancora? Ancora dolore? Ancora sangue?

"Sì, piccola. A ogni Luna. Ti avevo pur detto che le donne imparano presto a conoscere il dolore! È necessario che siano abituate a lui, per accoglierlo come serve per la più preziosa delle battaglie".

Liluye aveva chiesto di più, perché Waki era anziana, e temeva di non poter imparare tutto ciò che doveva in tempo.

"Ricordi, bimba? Il dolore annuncia sempre la vita. Le tante vite che ci sono donate dopo. Ma soprattutto lei, la prima. Quella, è davvero la prova. Quello, il dolore che davvero uccide e ti dona non una ma due vite. Muore la donna e nasce la madre. Nasce insieme a suo figlio. Serve tanta forza, Liluye. Serve davvero conoscerlo e accettarlo, il dolore, per affrontare quel momento senza paura.

A ogni Luna, sarai ferita. Finché non sarai pronta per avere un figlio. Allora avrai tregua, per un po'. Finché lui non sia grande abbastanza da vivere fuori di te. Allora sì, tornerà il dolore, a regalarti la più bella delle vite".

"Sarai con me, Waki?", le aveva chiesto. Perché voleva che fosse fiera di lei. Voleva che quando suo figlio fosse nato, lei vedesse come l'aveva messo al mondo, senza paura e ringraziando il dolore del suo dono.

"Certo sarò con te, piccola. Tu cercami, quando arriva!"

Si sentì stritolare, ogni fibra trapassare, i polmoni chiudersi, la gola spalancarsi per un urlo. Lo trattenne. Inginocchiata, a gambe larghe, rifiutò di urlare. Attese che passasse, tornò a camminare. Più vicino, ogni morso dilaniante. Sempre più crudele, sempre più difficile resistere. Liluye prese a cantare sottovoce una nenia. Era quasi sotto gli alberi che cercava. Cantava, per mostrare al dolore che non era spaventata. Che gli andava incontro, che lo cercava, per incontrarlo.

Giunta, scavò a malapena una conchetta nel terreno, ci adagiò una pelle morbida, si accovacciò. S'era trascinata a forza, gli ultimi trecento metri, sporca di liquido e sangue. Cantava piangendo, perché il dolore la torturava ed era difficile, difficile affrontarlo. Ma era felice. Felice, sì, d'essere straziata per quello. Orgogliosa.

Strinse un laccio di cuoio tra i denti, quando cantare non poté più. Strinse perché non fossero urla, non voleva spaventarlo. Già piangeva, il piccolo sulla pelle, mentre lasciava andare il laccio e ancora fremiti la percorrevano, a liberarla della placenta.

La Luna spuntò tra gli alberi e il vento accarezzò gli avvolti nelle pelli, posti su, tra gli alberi alti. Attese che il tremito diminuisse, battendo i denti, ancora non poteva parlare. Infine si mise seduta e raccolse il bambino nella pelle.

Eccomi, Waki. Sono venuta, perché potessi vedere. Lui è il tuo pronipote, e io la nuova Liluye. Sono stata brava, vero?

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