115. Stai bene con la barba
Ieri ho battuto un record. Ho fatto una cosa che non è mai stata fatta a livello di circuito maggiore, tra due tennisti top 50. Ho battuto Marton Fucsovics al primo turno del Cinquecento di Pechino e gli ho fatto fare solo due punti. Due punti totali in due set, a un tennista di ottimo livello, e sono stati due errori miei a conclusione di due lunghi scambi.
Sono entrato in campo col proposito di distruggerlo. Era il primo incontro che giocavo, il primo torneo dopo la Laver Cup, e volevo ritrovare la gioia e la voglia di combattere nella perfezione del mio gioco.
Ma non sono riuscito a raggiungere la perfezione, perché gli ho fatto fare due punti, ho fatto due errori, due impurità che hanno rovinato l'unico senso che l'incontro di ieri poteva avere.
Ho terminato l'incontro vuoto, triste, insoddisfatto, e non voglio finire questo torneo.
Da mezz'ora Anna sta provando a farmi uscire dal letto, ma non ho intenzione di alzarmi.
Mentre giocavo, pensavo alla mamma a quello che mi diceva sempre: sarai un campione, sarai bellissimo. Lo sono diventato. Un campione, un numero uno, e con uno stile bellissimo. Cerco di trovare gioia nell'idea di far felice mia madre, perché per quanto riguarda me stesso... non riesco più a trovare un motivo per prendere la racchetta in mano.
E tutto questo non ha senso. Non ha senso giocare per una persona morta. Non voglio finire questo torneo, voglio tornare a casa. Voglio tornare a Capriva e dormire. E dopo aver dormito non so, forse mi torna la voglia di giocare.
Sento Anna discutere al telefono. Prima ha fatto venire qui Ethan, che ha anche lui cercato di buttarmi giù dal letto senza riuscirci. Ora Anna sta parlando con mio padre, che è qui a Pechino con Daniele, credo stia seguendo proprio una sua sessione di palleggio, in questo momento. «Di solito riesco sempre a farlo alzare» la sento dire. «Ma oggi sta male davvero, non si muove... Mh... No, non parla nemmeno.... Sì, tra due ore dovrebbe giocare, ma non è quello, sono seriamente preoccupata. Puoi venire ad aiutarmi?»
Chissà, forse se anche Ivan fosse qui a Pechino, Anna avrebbe provato a chiamare anche lui. Ma sta giocando a Tokyo. Mi ha scritto spesso, gli rispondo sempre meno.
Papà arriva dopo un'altra mezz'ora. Non mi sono mosso di un millimetro. Anche i miei pensieri sono rimasti come immobili. Non mi sono addormentato, ma mi sembra di non aver pensato a niente per trenta minuti. La testa completamente vuota. So che sono passati trenta minuti solo perché c'è un orologio sul comodino accanto a me. Se non avessi visto le lancette muoversi avrei pensato che fosse passato un minuto. O un anno.
«Michele, qual è il problema?» mi chiede papà.
«Giocare non ha senso» rispondo, restando steso sul fianco. Gli do le spalle.
«Ma cosa dici? Cosa ti è preso?» ribatte lui.
Non rispondo. Non ha senso nemmeno rispondere.
Mi toglie il lenzuolo di dosso.
«Non serve a niente, poi se lo tira di nuovo su» commenta Anna.
A dire il vero stavolta non mi va nemmeno di ricoprirmi. Non ne ho la forza.
«Michi, ti prego, spiegami cos'hai» prosegue Anna in tono dolce.
«Cosa significa: giocare non ha senso?» mi chiede papà.
«Tanto lo vinco, questo t-torneo. Hai visto cosa ho fatto ieri a Fuc-fuc...» Non riesco a dire Fucsovics (che si pronuncia Fuciovic'). Rinuncio a farlo.
«Appunto! Sono cinquecento punti e un trofeo in più.»
«Batto chiunque. Posso vincere contro chiunque.»
«Fallo, allora! Dimostrami che non sono solo parole» mi incalza papà.
«Non mi interessa.»
Papà continua a parlare, io smetto di ascoltarlo. Non so cos'altro abbia detto. Ha parlato anche Anna, sono entrato in una specie di trance.
Dopo un po', non so quanto, perché non ho più guardato l'orologio, entra in stanza Daniele. Il suo arrivo risveglia un po' la mia attenzione. «Non vedi che sta solo facendo i capricci?» dice a papà. I capricci. Mi piacerebbe fosse vero. I bambini di solito fanno i capricci per ottenere qualcosa. Io cosa voglio ottenere? Non giocare più. Ma non è per questo che sto a letto. Sto a letto perché non c'è nient'altro che abbia senso fare. «È geloso che stai seguendo me invece che lui, e cerca le tue attenzioni in questo modo patetico.»
«No, sta male davvero» risponde cupo papà.
***
Alla fine l'ho avuta vinta io. I "capricci" hanno funzionato. Non ho giocato. Mi sono ritirato dal torneo con la scusa di un infortunio inesistente. E con la scusa dello stesso infortunio non giocherò nemmeno il Master Mille di Shangai. Siamo tornati a Capriva e da quando siamo arrivati ho passato gran parte delle mie giornate steso a letto. Mi alzo solo per mangiare, per evacuare e per lavarmi denti. E non ho neanche tanta voglia di lavarmeli bene, i denti.
Ivan ha continuato a scrivermi, in queste settimane. Ha provato anche a chiamarmi. Non gli ho più risposto e non so se abbia smesso di scrivermi, perché ho spento il cellulare da due giorni e non ho intenzione di riaccenderlo.
Cosa vuole da me? Ha senso essere ancora amici? Tutto è insensato nella mia vita, in questo momento.
«Michele, vuoi scendere a mangiare?»
Papà me lo chiede sempre. Non gli rispondo più.
C'è anche Anna, qui. Anche lei spesso viene a parlarmi, cerca di smuovermi. Non rispondo nemmeno a lei.
Non ricordo qual è stata l'ultima parola che ho pronunciato, ma sono giorni e giorni che non parlo più. Non ci riesco. Non ne ho la forza. E le rare volte che trovo in me un po' di forza per farlo, mi manca il coraggio, mi si chiude la gola.
Se ci fosse la mamma, con lei ci parlerei.
Se ci fosse qui la mamma le chiederei perché. Perché mi hai lasciato senza dire niente? Possibile che non abbia detto niente? Ci ho pensato, mentre stavo qui steso a letto, ho pensato di chiederlo a mio padre, è stato uno dei pochi impulsi a parlare che ho avuto. Ma mi è mancato il coraggio, mi si è chiusa la gola.
***
Non posso vivere così.
Oggi non ho mangiato. Ieri nemmeno avevo mangiato, ma mi è venuta fame nel cuore della notte, mi sono alzato e ho ingurgitato tutto ciò che c'era di commestibile tra frigo e dispensa. Poi ho vomitato e non mi sono lavato i denti. Non mi andava di lavarmi i denti. Stasera non ho nemmeno fame, forse resterò a digiuno fino a domattina.
Voglio un'emozione. Voglio un desiderio.
Me lo autoimpongo. Mi masturberò. Forse un orgasmo mi darà una svegliata.
Circondo il pene con la mia mano e cerco di stimolarlo fisicamente. Ma la mia testa è vuota, e il mio corpo non reagisce.
Penso a Ivan. Ma è un'immagine sfocata. Non ho la forza, no, forse è il coraggio che mi manca, il coraggio di guardare una sua foto.
Allora mi alzo, per la prima volta da non so quanto per fare qualcosa di diverso da mangiare, pisciare, cagare. Mi alzo e vado al cassetto dove so di aver riposto la fascetta di Ivan. Quella che mi ha regalato alla finale di Wimbledon.
Torno a letto, la annuso, cerco il suo odore. Il mio corpo reagisce, ma dopo circa un minuto mi stanco, penso che non abbia senso. E poi? Dopo che avrò avuto l'orgasmo? Sarà tutto come prima. E mentre penso a queste cose, mi passa anche quel poco di erezione che mi era venuta.
Mi sento solo.
Dove sei mamma? Perché non torni a casa?
Mi alzo ancora. Prendo la carota gigante. Ci infilo sopra la fascetta di Ivan, la strozza come fosse una collana troppo stretta. Mi stendo a letto e la abbraccio. Spero di sognarlo. Spero di sognare qualcosa di bello.
***
«Michele, io lo so che non siamo mai andati d'accordo.»
Mio fratello Daniele. Mi parla. Mi sta guardando negli occhi, ma io non ho il suo viso ben a fuoco. Non riesco a metterlo a fuoco.
«Ma sei mio fratello, mi fa male vederti così.»
E allora?
Dice altre cose. Non le sento.
Prima l'ho sentito discutere con papà, in corridoio. «Devi farlo ricoverare in una clinica psichiatrica» gli ha detto. «È venuto tre volte, lo psichiatra! Mi ha prescritto dei farmaci, ma come faccio a darglieli?» gli ha risposto papà.
È venuto lo psichiatra? Non me ne sono accorto. È venuta un po' di gente, qui, mi hanno fatto anche qualche tipo di test, ma non ne sono sicuro. Non so se siano venuti davvero o se l'abbia sognato. Non so chi fossero.
È venuta Anna, spesso. È una delle persone che viene di più. Si siede, mi parla sottovoce e mi accarezza la testa. Mi fa i "grattini", come li aveva chiamati lei stessa, una volta. All'inizio li trovavo piacevoli, fisicamente piacevoli, mi davano dei piccoli brividi lungo il collo. Ma anche la mia pelle è diventata impermeabile alle sensazioni, mi sembra come se avessero spruzzato dell'anestetico su tutto il mio corpo.
«Glieli inietti, cazzo! Glieli sciogli nel cibo! Vuoi che faccia la fine della mamma?!» ha gridato Daniele, prima, mentre discuteva con papà.
Daniele sa cosa è successo alla mamma.
Lo guardo di nuovo. Mi sta ancora parlando. Sta piangendo?
«Michele? Mi senti?»
Apro la bocca. Mamma. Vorrei dire mamma. Vorrei fargli capire cosa voglio sapere, ma mi sembra di non sapere più come si fa a parlare.
«Cosa vuoi dirmi? Dimmi! Ti ascolto! Ti ascolto!»
No, non ci riesco. Mi giro di spalle.
«Papà! Anna! Venite! Ha cercato di parlare! Ha cercato di dire qualcosa!»
Sì, è vero. Ho cercato. Non ci proverò più.
***
Buttarmi dalla finestra, no, è fuori discussione. La mia camera è al primo piano e rischio solo di farmi male. Potrei restare paralizzato per sempre.
Credo che mio padre abbia messo dei farmaci nel mio cibo. Per questo motivo, dopo giorni in cui ho alternato abbuffate ingorde e digiuno, non mangio più da un giorno e mezzo. Non voglio prendere farmaci. Anche la mamma prendeva farmaci, me lo ricordo, farmaci per la tristezza, ma non le sono serviti a niente.
Forse potrei morire di fame. Ma mi fa male lo stomaco, non so se resisto a non mangiare più.
Voglio parlare con la mamma. Dov'è? Stringo la carota. La carota di Ivan con la fascetta di Ivan.
Potrei tagliarmi i polsi, ma con cosa? Con dei cocci di vetro come aveva fatto Raffaele? Potrei rompere la finestra e tagliarmi con i cocci. Ma ho paura che sia una morte troppo lenta, che mi trovino mezzo dissanguato, mi portino in ospedale. E poi lì chissà cosa mi fanno.
Ho sete. Ho bevuto dal rubinetto del bagno, prima. Non mi fido più dell'acqua che mi portano.
C'è del trambusto fuori, oggi, sarà l'ennesimo dottore, ne sono già venuti diversi.
Potrei annegarmi. Nella vasca. Ma il mio corpo reagirebbe, mi farebbe tirare la testa fuori e respirare. No, impossibile.
Bussano alla porta. Perché bussano? Tanto poi entrano lo stesso.
Potrei impiccarmi. Ma non so come si fa. Potrei usare un lenzuolo. Ma dove lo lego? E non è troppo grosso? Forse il nonno ha una corda, tra i suoi attrezzi. Però forse è meglio di no, non lo so, mi sembra troppo doloroso e angosciante.
«Misha...»
Tu come ti sei uccisa mamma?
Aspetta un attimo. Misha?
Ho sentito Misha?
Mi alzo di scatto dal letto, mi giro verso la porta.
Mi gira la testa. Sono stato steso troppo a lungo.
Metto a fuoco a fatica un sorriso triste, dei capelli tra il verde e l'azzurro, con un accenno di ricrescita. Ha cambiato colore. È il colore dell'Isonzo, aveva detto che prima o poi l'avrebbe fatto.
«Misha, stai bene con la barba.»
La barba? Quale barba?
Mi tocco il viso e sento di avere le guance coperte da un folto strato di peluria.
«Dio, non ci credo, sta reagendo... sta reagendo...» La voce di Anna è lacrimosa. C'è anche mio padre, ma non dice nulla.
Da quanto non mi lavo? Da quanto non mi rado? Non ricordo più nemmeno quando è stata l'ultima volta che mi sono lavato i denti.
All'improvviso sento di puzzare, una puzza intensa e stantia. All'improvviso mi sento unto, sporco, mi vergogno, non voglio che Ivan mi veda così. All'improvviso sono consapevole di avere nel letto una carota gigante, strozzata dalla fascetta di Ivan. Ne sono consapevole e me ne vergogno. Mi vergogno di me stesso. Mi vergogno di tutto questo.
Mi alzo dal letto, scappo in bagno, mi chiudo a chiave dentro.
——
Note note note ♫
Non è stato facile descrivere questa discesa nella depressione, un esito che era nell'aria, dopo il lento ed erratico peggioramento della salute mentale di Michele nell'ultimo anno. È dovuto intervenire Ivan per dare a Michele uno stimolo di qualche tipo. Ora cosa succederà? La soluzione non può essere né rapida né semplice.
Mi sono posta molti problemi sulla pubblicazione di questo capitolo. Ho scelto di non mettere trigger warning, perché documentandomi sul tema mi sono fatta l'opinione che facciano più danni che bene e sto infatti meditando di toglierli anche dall'Ultimo Evocatore (non è un'opinione campata in aria, ci sono paper peer reviewed sull'argomento). Ci tengo però a dire qualcosa in nota: la storia di Michele vuole essere una storia di speranza (non a caso uno dei titoli di capitolo: nadezhda!). La storia di un ragazzo che affronta problemi e demoni giganteschi e cerca con coraggio una via d'uscita. Volete accompagnarmi negli ultimi capitoli per scoprire quale sarà il suo percorso? Mi farebbe piacere ampliare questo discorso alla fine, quando potrò dire più senza spoilerare.
Intanto voglio dare un abbraccio virtuale a tutti, e un abbraccio doppio a chi dovesse essersi sentito toccato in qualsiasi modo dagli stati d'animo di Michele.
E ricordatevi che c'è sempre qualcuno a cui chiedere aiuto!
Ci rileggiamo lunedì prossimo, e per non tenervi troppo sulle spine con questi capitoli la prossima settimana ne pubblicherò tre!
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