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Capitolo 5

"No! Vi prego, no! Lasciatemi parlare con lui! Fatemelo guardare! Fatemelo toccare! Solo per un piccolo istante!". Le infermiere continuavano a bloccarmi, cercando di non farmi entrare nel grande portone del Pronto Soccorso. Le mie lacrime non si fermavano. Io continuavo ad urlare come una disperata. "Quello è mio marito! Fatemi entrare e ditemi cos'è successo!".
Avevo visto passare Ross di sfuggita, su una barella. Le infermiere e i medici mi coprivano praticamente l'intera vista, ma qualcosa riuscì a guardare.
C'era sangue. Sangue ovunque. Vidi il suo braccio cascare dalla barella. L'anulare della sua mano aveva ancora la nostra fede nuziale. Ci eravamo sposati da neanche un anno. Continuai a dimenarmi per potergli stare vicino, ma le persone continuavano a bloccarmi.
"Signora cercheremo di fare il possibile per suo marito, ma deve lasciarci fare il nostro lavoro; faremo di tutto per salvargli la vita. Glielo prometto.", mi dissero mentre cercavano di farmi sedere in sala d'attesa. Appoggiai i gomiti sulle mie ginocchia e mi misi le mani trai capelli. Ero disperata. Volevo solo abbracciare mio marito. Volevo toccargli i capelli, dargli tantissimi baci, farlo sentire al sicuro e dirgli che alla fine andrà tutto bene.
Le ore passarono, e nessuno riusciva a darmi qualche informazione. Lo stavano operando ormai da sei, forse sette ore. Avevo perso la cognizione del tempo. Continuavo a fare avanti e indietro in quella maledetta stanza dove un ragazzino continuava a piangere per essersi rotto la caviglia; mentre io aspettavo di sapere se mio marito era ancora vivo o se fosse morto. Il solo pensiero di vederlo dentro una bara mi fece vomitare dentro il primo cestino che trovai. Un'infermiera si avvicinò a me chiedendomi se avessi bisogno di aiuto, ma non risposi. Volevo solo vedere il mio dolce e caro Ross.
Poi, dopo così tanta attesa che mi sembrò praticamente infinita, un medico mi raggiunse in sala d'attesa. Il suo camice era sporco di sangue, si tolse i guanti blu e venne verso di me a passo lento. La sua espressione... la sua espressione non la dimenticherò mai. Sapevo già che cosa avrebbe dovuto dirmi. I suoi occhi mi parlavano. La mia testa iniziò a girare. Volevo morire. Volevo morire per raggiungere la mia metà per poter stare insieme a lui per sempre.
"Signora Collins, suo marito ha avuto una grande emorragia interna al torace. Abbiamo fatto il possibile, ma non siamo riusciti a salvarlo. Mi dispiace". Sentivo la sua voce ovattata. Il medico provò ad abbracciarmi per consolarmi, ma io mi gettai a terra urlando dalla disperazione. Non poteva essere. Il mio Ross mi aveva abbandonata. Non poteva essere. Ci eravamo promessi che nessuno lasciava l'altro; e lui l'ha fatto. Lui aveva infranto la nostra promessa.
Le lacrime mi bagnavano il viso e cadevano sul pavimento ghiacciato. Vedevo tutto sfuocato e stavo quasi per vomitare di nuovo. Sentivo in sottofondo la voce di un'infermiera, ma non riuscivo a capire cosa stesse dicendo. Era tutto così lontano. Era tutto così surreale. Tutti i nostri sogni. Tutto il nostro futuro immaginato insieme, la nostra casa in costruzione. Tutto distrutto. Il mio cuore; era distrutto.

Mi svegliai di soprassalto. Alcune gocce di sudore scendevano dalla fronte e avevo il battito cardiaco molto accelerato. La maglietta del pigiama era completamente fradicia. Prima di alzarmi dal letto, cercai di fare dei lunghi e profondi respiri. Era questo che mi avevano insegnato al corso di meditazione che avevo fatto l'anno scorso. Profondi e lunghi respiri per calmare l'ansia.
Come ogni notte, lo stesso incubo continuava a perseguitarmi, ormai da sei anni. Non mi avrebbe mai dato pace. Mi sembrava di rivivere ogni giorno lo stesso dolore. Quel dolore mi legava ancora a lui, in qualche modo. L'immagine del viso di mio marito sporco di sangue mi si incastra nella mente, senza mai andarsene. I suoi occhi che cercano i miei. Il suo "ti amo" prima di entrare in sala operatoria. Con il tempo, mi ero pentita di non averglielo detto anche io. Volevo fargli sapere che lo amavo con tutto il mio intero cuore. Speravo che quel messaggio gli arrivasse lo stesso, anche se non era più li con me
Guardai l'orario. Erano le quattro del mattino. Fuori era buio pesto. C'era solo un piccolo lampione che illuminava la via. C'era silenzio. Forse anche troppo. Non ne ero molto abituata. Di giorno, le strade si riempivano di bambini e alle quattro in punto del pomeriggio, un grazioso camioncino del gelato si fermava proprio nella mia via di casa. Mi sollevava il cuore vedere tutta quella felicità portata dai bambini. Il mondo degli adulti; è l'opposto. Un mondo pieno di preoccupazioni. Un mondo oscuro e cupo.
Cercai di andare in bagno con le poche forze che mi rimanevano, mi rinfrescai un po' il viso con dell'acqua fredda, cercando di riprendere contatto con la realtà. Mi guardai allo specchio. Mi vedevo orribile. Avevo due borse sotto agli occhi che arrivavano quasi per terra. I capelli sudati e sporchi. Facevo difficoltà nel mettere anche a fuoco la vista.
Dopo aver usato il primo asciugamano che trovai, mi misi accovacciata sul divano con la mia solita morbida coperta che mi era stata regalata da mia madre per Natale. Vorrei tanto poterla avere accanto in questo momento, ma è in viaggio in Europa. Anche il solo sentirla al telefono è diventato difficile, a causa del fuso orario.
Presi il MacBook che era appoggiato sul tavolino in vetro davanti a me, e iniziai a fare delle ricerche su internet o su tutti i social network esistenti, provando a liberare la mente da quella brutta immagine che ho ogni volta che chiudo le palpebre. Quell'immagine che non mi lascia stare e che mi perseguiterà per il resto della mia vita.
Non so perché, ma mi venne in mente di cercare qualche informazione sul padre di Amanda. Avevo bisogno di sapere di più. Dovevo cercare ogni minimo dettaglio se volevo arrivare alla fine di questa storia.
Peter Gabriel Wilson. Nato nel 1957 nel Wisconsin. Sposato con Elizbeth Morrison dal 2004. Ma solo in quel momento, mi accorsi che il padre di Amanda non aveva mai denunciato la sua sparizione. Disse che era sparita da cinque giorni solo quando fu ritrovato il corpo deceduto.
Perché? Di solito, è la prima cosa che si dovrebbe fare quando il proprio figlio scompare; ma lui non l'ha fatto. Una cosa molto strana. Fin troppo strana.
Continuai ad indagare sul suo profilo Facebook e scoprì che quello con Elizabeth era il suo secondo matrimonio. Prima di lei, era stato sposato con una certa Alexis Cox. Nata anche lei nel Wisconsin ma era di qualche anno più giovane. Lavorava in una libreria, aveva quattro fratelli e dai gruppi in cui era iscritta sul social la mia concentrazione si fermò solo su uno. Gruppi per madri surrogate.
Alexis scriveva molti messaggi sulla bacheca di questo gruppo. Alcuni parlavano dei dolori che provava in gravidanza, altri del fatto che aveva appena scoperto di aspettare una bambina. Scorrendo ancora più in fondo trovai una foto di Peter, Alexis e... Elizabeth mentre le toccavano il grande pancione. Erano entusiasti. Sembravano due persone completamente diverse, rispetto ad adesso. Il loro sorriso era illuminante. Sprizzavano gioia e felicità da ogni singolo poro della pelle. Potevo sentire la loro emozione anche attraverso una semplicissima fotografia.
La descrizione recitava: "non vediamo l'ora di vederti Amanda. I tuoi genitori Peter e Elizabeth ti stanno aspettando con tanta ansia!". La testa iniziava a girarmi. Dovevo mettere in ordine i pensieri.
Quindi l'ex moglie di Peter è stata la madre surrogata di Amanda?
Perché quando avevamo fatto l'interrogatorio nessuno aveva detto una parola?
Pensai subito al chiamare Fred e Robert. Il giorno seguente saremmo andati a casa dei Wilson per fare altre domande.
C'era qualcosa di strano nel caso di Amanda Wilson, che dovevamo scoprire a tutti i costi.

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