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96- Il giorno in cui il sangue si infranse

Due anni e mezzo dopo
P.O.V.
Rais

Certe persone credono di poter avere dei diritti sulla tua vita. Di decidere quando è il caso che tu debba tornare a mangiare, vivere, respirare aria pulita, riassumendo la conclusione del tuo dolore secondo l'ipotesi di una data.
Ti dicono quale modo migliore ci sia per mangiare, tornare a camminare. Amare.
La verità è che nessuno ha diritto di fare niente perché nessuno è proprietario di qualcosa che crede di possedere.

Come poterlo dire in altri termini che possano essergli graditi?

No, non credo ci debba essere indulgenza nei confronti del dolore. In fondo, la vita con me non era stata indulgente e nella trappola nella quale si è tramutata questa casa gode nel farmi rivivere tutte le fasi di quel dolore, enunciando gli eventi dal principio in modo che la mia mente svuotata possa accorgersi dell'esatto istante in cui abbiamo compiuto un passo falso.

Forse, fu a quella cena a casa dei suoi. Forse, quel pomeriggio in cui, ubriachi di coraggio ed avventatezza, osammo sfidare l'autorità di un uomo disonesto sulle note di un valzer.

Forse, fu solo dal primo istante in cui, in una casa di guerra, imparammo ad amarci.
Serro le palpebre, dinanzi la violenza di quei ricordi e le pareti di questa stanza mi soffocano, stringendomisi intorno finché gli occhi non si posano su quel braccialetto in pelle, ormai del tutto rotto, presente su questo materasso.

Sicuramente, ogni evento mutò quel giorno, mandando in rovina ogni cosa.
Il giorno.... in cui il sangue si infranse.

Adesso
P.O.V.
Francis

Ogni battaglia comporta delle sconfitte, assieme a delle vittorie. Nomi che cadono in un oblio dove affoga e riemerge costantemente il dolore poiché incapaci di voler essere per sempre dimenticati.
Tra di essi, il ricordo di Hasim risorge furente. Morto per un proiettile incastratosi in un organo vitale, il nigeriano se ne era andato portandosi con se l'incubo che aveva tormentato la sorella. Anche Tabanzi era morto ed assieme a lui... anche Dalia Ester, vestendo il suo abito da sposa e sfoggiando sulla sinistra del petto una rossa rosa di scarlatto sangue, più grande del suo bouquet.

Dalle indagini riguardanti le tracce di sangue trovate tutto attorno, però, era emerso anche il dna di Samuel come una prova incontestabile e da quel giorno le indagini riguardo la sua scomparsa non avevano trovato risposta.
Persino Nerissa, tornata nel South Side con l'intenzione di proteggere il piccolo Tommy e parlare al più presto con le autorità, non sapeva dove fosse, il che era preoccupante visto il periodo che i due avevano trascorso insieme, arrivando persino alla foce di un amore nato nell'ostilità.
L'infermiera era stata la sua spalla, si era occupata del piccolo, di lui, ed aveva lottato per non farsi mettere i piedi in testa dalla Ester e da un certo Paul Bennett sparito dai nostri radar già da tempo.
Persino Dalia aveva minacciato gli affari loschi di quel tipo, spingendoci verso l'interrogativo presente nella mente di tutti noi: quando era terminata la loro associazione e per quali ragioni? In un primo momento Nerissa sembrava ritenere che Paul Bennett fosse un uomo buono ma quando, tramite i nostri interrogatori, era fuoriuscita l'ipotesi di una trappola da parte sua, escogitata nel momento stesso in cui le aveva mentito sul luogo in cui sarebbe avvenuto il matrimonio con conseguente scomparsa di Attila in quello dove era avvenuta la celebrazione, l'infermiera si era fatta seria ed aveva fissato nella mia direzione in una richiesta di pietà. Sembrava supplicarmi di ritrovare l'uomo che per tutto questo tempo l'aveva protetta ma che, alla fine della sua missione, pareva essere caduto nell'ennesimo sbaglio, causato dalla medesima donna alla quale, con molta probabilità viste le indagini della balistica, aveva sparato a corta distanza prima di riceve lui stesso un proiettile da una terza arma.

Avevo ricambiato lo sguardo di Nerissa senza poterle dire, con assoluta sincerità, quanta importanza avesse per me ritrovarlo. Attila è sempre stato tutto, per me. Una guida piena di difetti ma esemplare. Un uomo da detestare e amare al tempo stesso che, così tanto, mi ricordava uno zio divenuto, recentemente, una parentela fin troppo stretta. Era il mio mentore e la stessa persona che mi aveva fornito gli indizi necessari per mettere tutti i cattivi rimasti in vita dietro le sbarre di una prigione e salvare i bambini che ora, felici, giocano insieme agli orfani di cui Rais si è preso da sempre cura nell'oratorio parrocchiale, sotto la tutela del nostro prete di città. Per Samuel presentarsi in quella chiesa era stata una debolezza ma la restante parte del suo ruolo era stata svolta con precisione e coraggio. Ritrovarlo metterebbe pace alla mia anima, a quella di Nerissa ed anche a quella di Carlail che, con entrambe le mani affondate nei capelli, tiene il capo chino in direzione della scrivania non appena entro all'interno del suo ufficio.

«Mi avevi fatto chiamare?» Domando, chiudendo con esitazione la porta alle sue spalle.

La mia voce riesce a ridestarlo solo in un primo momento, dopodiché è solo la sua forza di volontà a costringerlo a  tornare eretto su quella seduta in finta pelle che simboleggia il suo trono.

«Non sembri aver dormito molto, ultimamente» commenta, valutando lo stato pietoso del mio viso con un'espressione afflitta. Tento di non ricambiarla.

«Sto aspettando l'esito delle indagini» commento, senza parlare dei dolori che mi tengono ancora sveglio, notte dopo notte.

«Lo troveremo... sono certo che lo troveremo» mormora, disperdendo lo sguardo troppo lontano affinché io possa raggiungerlo.

«Mi hai mandato a chiamare?» Sussurro di nuovo, attendendo una risposta che non mi era stata fornita.

«La stampa è venuta a conoscenza dei nostri arresti e vuole tirare fuori da tutta questa faccenda un articolo di giornale. Dalle interviste è uscito fuori il tuo nome, quello di William e quello di Gareth. I tre giovani poliziotti che hanno condiviso il percorso d'accademia insieme e che sono riusciti a far fronte alla minaccia di quel ricco magnate del petrolio. Il nome dei Lee non è scaturito fuori e nemmeno quello di Dalia Ester, ma Gareth si è comunque rifiutato di posare per le foto e così... in sostituzione a lui è uscito fuori il nome di Ryan.»

Rimango in silenzio, sentendolo parlare. «Non mi chiedi se ritenga o meno pericolosa una sua comparsa dinanzi la stampa?»

Dovrei farlo quando il pericolo si nasconde nel nostro stesso schieramento? William ormai sa che Rais è dei nostri, di conseguenza anche Richard Lee ne è consapevole quindi tanto vale giocare ad armi scoperte decidendo di dichiarare battaglia.

«Indosserà una divisa?» Gli domando, a caccia di informazioni che possano essermi utili.

«Dovrebbe farlo?»

«Nemmeno il suo volto è sconosciuto alla persone della stampa. Dovrebbero capire che ormai è dei nostri ed i nemici che ormai è sotto la nostra più completa tutela. Non lo schiero davanti alle telecamere senza quella rassicurazione: è tempo per Rais di iniziare una nuova vita per cui dovrà avere tutto ciò che gli abbiamo promesso.»

«Se Richard Lee vedrà quelle foto allora arriverà fino a noi in un batter d'occhio.»

Non esito a crederlo, vedendo suo figlio affianco all'uomo che li ha traditi. Sarò il soggetto meno interessante di un quadretto familiare con i fiocchi. «Che lo faccia, saremo pronti per accoglierlo.»

«Francis... dovresti parlare con Gareth. Quello che è successo alla Garcia, la morte di Hasim... era sotto la sua tutela per cui temo che si stia dando la colpa.»

«Gli parlerò» lo rassicuro, lasciando poi Carlail solo nel suo ufficio, solo nel suo dolore, circondato dal terrore di perdere un altro figlio per mano dei nemici.

******

L'obbiettivo del fotografo punta verso di noi, schierati dinanzi la centrale. Non vi sono sorrisi se non forzate smorfie alle quali il giornalista sembra insofferente, tanto da spingerci, attraverso esortazioni, ad essere più irrealistici. Esausti da tutto questo, noto Willaim e Rais, rispettivamente al mio fianco sinistro e a quello destro, arrendersi ad una teatralità mentre io orami, falsamente divertito, cedo nei riguardi di un'ultima bugia.

«Questa è perfetta, la teniamo!»

Il flash, per pochi istanti, ha bruciato la retina dei nostri occhi portandoci ad intrappolare nello sguardo il bagliore di quell'ultimo ciack.

Inclino la testa, notando la serietà di Rais ormai consapevole che quest'azione sia il nostro ultimo tentativo di tendere l'amo verso il grosso pesce che le nostre canne da pesca non riescono a tirare su, servendo sullo stesso appetitoso piatto la presenza di quel figlio, nato dalla stessa acqua del suo stagno, che ultimamente sembra profondamente cambiato.

Sposto gli occhi verso William, valutando la tristezza nel suo sguardo. Certe volte era capitato di trovarlo disperso, con i pensieri, a fissare il vuoto così come accadeva a Carlail mentre in altri come una rabbia pareva governarlo in maniera incommensurabile, facendogli sfogare tutta la frustrazione nella palestra della centrale.

Nemmeno posso immaginarmi che tipo di rapporto potesse avere con Dalia, visto che sono certo che il suo carattere sia mutato dalla morte di lei, ma mi sorprende scoprire che l'uomo di cui per molto tempo ho sentito parlare, l'infallibile cecchino pronto a sparare a metri di distanza ad un obbiettivo sotto tiro fosse tanto fragile nei confronti degli affetti. Non riesco a decidermi quale possa essere bugia e quale verità. Non riesco a spiegarmi il motivo per cui, nonostante tutto il tempo che ha passato in centrale, non abbia alzato su Rais una sola mano per compiere un'azione capace di metterlo dietro alle sbarre. Forse è solo merito del suo controllo o forse c'è ben altro, legato magari a me ed anche a ciò che mi aspetto da lui.

William solleva la testa a seguito di questo mio pensiero, rivolgendomi uno sguardo che ora sembra bagnarsi di latente rabbia. Sì, siamo ancora in guerra, ma la nostra sfida è ciò che mi da ancora la forza di non perdere il controllo e crollare, in uno stato che mi vedrebbe privo di forze, a terra nell'urlare in una denuncia la sparizione del mio mentore, quell'uomo di fiducia in grado di mettere a segno il primo punto della nostra partita.

William è sempre stato un uomo strano, lo ricordo a me stesso, rivedendo da dietro la retina dei ricordi l'immagine della notte in cui, con una pistola ben stazionaria in una mano, aveva pianto nell'assoluto silenzio del poligono di tiro, circondato dal fumo che il colpo di proiettile aveva generato.

A che cosa aveva pensato quella notte? Quale dolore staziona davvero sotto la sua pelle?
Vivere al suo fianco è essere consapevoli della vicinanza ad un rischio che è silente ma letale al contempo, tanto da impedirti di volgergli le spalle. Attendo che si allontani, assieme a tutta la troupe di giornalisti, prima di rivolgere la mia attenzione a Rais, vestito degli abiti della polizia.

Solleva gli occhi verso di me, afflitto, arrabbiato ed a suo modo sconsolato per questi gesti con cui ancora tentiamo di vincere ma io provo a sorridergli, assicurandolo che non è considerata una sconfitta se ancora i nostri corpi rimangono in piedi.

«Devo andare in ospedale a ritirare il risultati dell'ultimo test, assieme a quelli della serio positività. Ti va di venire con me?»

«Credevo mi avresti lasciato a Gareth, andandotene.»

«Non è mai facile per me farlo. Vorrei tenerti con me sempre...»

Ma la vita ce lo impedisce, sottoponendoci a prove infinite. Se ne rende conto... ed è proprio per questo che continua a fissarmi. Vivere con quella sorta di terrore sempre presente ha generato in noi un abitudine nel tenere la guardia alzata. Camminargli lontano, anche solo per qualche ora, può fare del bene ad entrambi.

«Sì... sì, ti accompagno.»

Sollevo una mano ed accarezzo con lentezza la sua guancia, vedendolo inclinare la testa nella direzione della mia carezza per poi chiudere gli occhi. Piccoli momenti che ci consentono di respirare e ritrovare coraggio per poter procedere, in una finta distanza che possa garantire un nostro stato di estraneità agli occhi degli altri, senza essere notati.

Raggiungendo l'ospedale e lo sportello dal quale l'addetta è pronta a porgere i nostri risultati, rimaniamo affianco e tendiamo la mano, accogliendo i resoconti con tetra aspettativa.

«Che cosa dicono i tuoi esami?» Domanda Rais, dopo aver letto velocemente dei suoi ed io getto la testa all'indietro, lasciando cadere il braccio lungo il corpo per poi fissarlo in attesa.

«I tuoi?»

«Niente, solo che sono negativo riguardo la sieropositività.»

«Negativo anche io ma non è tutto.» Sollevo i fogli affinché possa leggere lui stesso cosa riportano, prima di spiegarlo anche a voce nel caso l'angoscia faccia scorrere i suoi occhi altrove, lontano dalle risposte. «A quanto pare ho la malattia di Huntington, e devo parlare con il dottore.»

Rais solleva gli occhi dai fogli fino a me, cercando di mascherare tutta la paura che in questi mesi ha continuato a negare con tutto se stesso, riguardo le mie condizioni fisiche.

******

«Si tratta di una malattia neurodegenerativa, riguardante i nervi» parte con il dire il dottore, esortato dalla mia richiesta di brutale sincerità. «Qualcuno nella tua famiglia l'ha mai avuta?»

«Il padre di mia madre» confesso, ricordando tutto ciò che quel deficit aveva comportato.

«Conosci, quindi, gli effetti che ha» chiede in una assenza di domanda il mio dottore, tentando di valutare lo stato mentale di cui sono vittima adesso.

«Sì.»

«Di che cosa si tratta?» Sussurra Rais, non volendo rimanere all'oscuro di tutto questo orrore.

«Di una malattia particolarmente grave se sviluppatasi intorno ai vent'anni» mormora il dottore, tentando di riassumere prima nella sua mente tutte le fasi del decadimento alle quali sto per sottopormi. «Tra i sintomi possiamo trovare una difficoltà a deglutire, un rallentamento o una confusione nel linguaggio e persino un decadimento della memoria a breve termine. Nella fase avanzata della malattia si arriva persino a perdere l'autonomia del proprio corpo, senza riuscire a coordinarlo in maniera senziente.»

Sorrido tragicamente, avendolo immaginato ed il mio gesto attira gli occhi dei due presenti, uniti da un'unica domanda proveniente dall'uomo con il camicie.

«E' già successo, Francis?»

«Ho avuto problemi di equilibrio e rigidità muscolare. Il mio corpo non mi rispondeva e per lunghi minuti sono rimasto bloccato.»

Il dottore annuisce alle mie informazioni mentre lo sguardo di Rais muta tanto profondamente da rendere ormai palese quella sfumatura di dolore che non è più in grado di celare, assieme al tremore delle proprie mani e alla paura di ciò che per troppo tempo abbiamo sottovalutato.

«Una malattia rara...» sussurra Rais, scorrendo gli occhi lungo me con un affetto tradito dalla sua voce.

«Solitamente si sviluppa per una mutazione di gene all'interno del DNA, colpendo maggiormente...»

«... i figli di consanguinei» rispondo, completando una frase della quale il dottore non si aspettava ne con conoscessi il finale, eppure eccolo qui. Siamo una famiglia depravata, malata forse fin dalle origini o forse solo nel ramo dei miei genitori ed ora ecco le conseguenze di tutto questo. «Ricordo che viene chiamata anche "Corea di Huntington".»

«E' così, "corea" a causa dei movimenti accidentali del corpo, come una danza.»

Ricordo il giorno in cui, danzando nei campi di grano dei Garcia, diedi fuoco al contratto di Zelda Garcia con la famiglia Lee in una provocazione che chiedeva a William di raggiungermi. Danzavo fin da allora, eppure la morte non mi era mai stata tanto vicina. Perché di questo si tratta... il dottore non lo vuole dire, non vuole affermare una frase tanto spietata in presenza  mia e dell'uomo con cui, palesemente, sto condividendo il mio cuore ma io ne sono già cosciente. Era capitato anche a mio nonno, in fondo, di morire giovane. Un assenza, all'interno della mia famiglia, che aveva provocato una voragine di lutto dentro la quale, con tutta probabilità, mio zio Damien e mia madre Nora avevano provato a sopravvivere, aggrappandosi l'uno all'altro con una forma di amore di cui mia nonna non si era mai accorta. Come criticare il loro approccio al lutto e come condannare un amore da definirsi impuro? Eppure, è così sbagliato pensandoci adesso, così profondamente malato nel non avere richiesto supporto da qualcuno di esterno. Mio zio ha sempre contato su mia madre e mia madre su di lui, in maniera assoluta. Dentro il suo cuore non c'era spazio per il mio acquisito padre, avendo consumato tutta se stessa in un amore che la corrodeva.

Mi domando con quale forza abbia esortato se stessa a vivere l'amore con il mio finto padre, dando alla luce Caleb. Mi domando se anche lui non sia figlio di Damien e se anche nel suo cuore non sia presente del sangue malato.

Devo chiudere gli occhi per non far trasparire il dolore che il solo pensiero mi provoca. Il mondo sta cadendo tutto attorno ma provo, con tutto me stesso, a salvare mio fratello da questo declino.

«Francis?»

«Quanto tempo mi resta, dottore?» Richiedo all'uomo dietro la scrivania, riaprendo gli occhi ed ignorando la voce di Rais.

«Non è certo. Dalla tua testimonianza e da queste tac la malattia sembra in uno stato avanzato ma forse, con delle medicine contro il Parkinson sarà possibile curarla. L'ultimo campanello d'allarme sarà la perdita della memoria a breve termine ma non dovete disperare, la medicina esiste per offrire delle soluzioni a tutto questo. Non c'è niente di prestabilito.»

La mano di Rais raggiunge la mia, stringendola nel tremore che solo la paura della morte aveva fatto insorgere.

******

Stiamo camminando fianco a fianco, nel buio della notte, rivivendo un ricordo delle nostre prime passeggiate. Sì, le ricordo. Ricordo tutto fino ad adesso. Ricordo della rabbia che provavo i primi tempi nei suoi confronti, ricordo la colpa che gli attribuivo per la morte di Gyasi, ricordo il modo con cui mi guardava, nonostante gli stessi gridando contro, ricordo la notte pregna del suo sudore agghiacciante nella quale mi aveva stretto a se, supplicandomi di non andarmene.

«Tu non dimenticherai niente» sussurra ad un tratto Rais, stringendo con più forza la mia mano mentre continuiamo a procedere nel buio. «Sei la persona più intelligente che conosca, non puoi dimenticarti di niente.»

La sua certezza mi lascia sorridere, quasi fosse certo che i suoi soli divieti fossero in grado di sancire i limiti alla mia degenerazione cognitiva.

«Se dimenticassi qualcosa, allora tu me la ricorderesti» affermo, procedendo al suo fianco con più certezza e guadagnandomi lo stesso sguardo adorante che aveva persino mentre mi faceva la guerra. «Sei parte di me, sei a conoscenza di tutto. Dovrai ricordarmi, ogni giorno, quello che io dimentico.»

Sono sempre stato conosciuto per la mia intelligenza ma l'amore è una delega, arrendersi ad un mutamento che ci rende migliori. Per tutto questo tempo Rais è stato il mio cuore. Da desso in poi sarà la mia mente.

La situazione si è ribaltata, perché la stanchezza richiedeva il consenso ad un compromesso ed ora eccoci reinventati.

Rais arresta i suoi passi, mi costringe a rallentare i miei ed è solo quando siamo immobili per strada che posa una mano sul mio volto ed azzarda la richiesta di un lento bacio. Lo ricambio, offrendo e cedendo conforto, per poi concludere questa carezza separandomi da lui e facendo in modo che la sua testa, ricca di morbidi capelli, si posi nello spazio tra il mio collo e la mia spalla, guadagnandosi del riposo mentre mi prendo il tempo di stringerlo contro di me. La punta delle dita scivola nei suoi capelli mentre con l'altro braccio circondo la sua schiena, accostandomelo addosso, respirando il suo profumo e calibrando il mio battito con il suo, per un eterno istante.

Sì, siamo la stessa cosa e viviamo solo in questi momenti, dentro i quali siamo uno.

Non gli ho ancora detto "ti amo". Sì, me lo ricordo. E nemmeno lui, prima d'ora, l'ha mai fatto ma il silenzio prevale ed in esso la mia voce glielo ripete infinite volte, affinché possa cimentarsi nel suo cuore.

Il bisogno è reciproco: voglio che nemmeno lui mi dimentichi, che si ricordi per sempre ogni istante di quello che stiamo vivendo. L'odore di questa strada, contrapposto a quello delle mie vesti. Il bagliore della luna che viene stemperato dalla dorata illuminazione dai vecchi lampioni di queste strade, al di sotto dei quali passa un randagio e grigio gatto che, impaurito dallo scoppio di un motore, scappa via con le sue zampe veloci per trovare conforto nel buio di un cespuglio. Voglio che non dimentichi niente di tutto il nostro "niente", di quei momenti dove il lavoro non riesce ad intromettersi tra di noi e ci consente di lasciare al silenzio il resto della nostra comune vita.

Siamo solo ragazzi, abbiamo vent'anni.

Solo... vent'anni...

«Il braccialetto ormai si sta sfilando» lo sento sussurrare mentre mi accarezza un polso e gioca con il suo regalo in pelle, ricordo della sua amicizia con Oliver e di una promessa a me rivolta.

«Non importa, non lo tolgo. Ma stai tranquillo, non lo perdo.»

Non lo perdo, Rais, e tornerò per sempre a casa. Te l'ho promesso, me ne ricordo.

Le sue labbra si posano sulla mia maglia in un bacio, all'altezza del cuore, pieno di calore per la lentezza che mi riserva. Ricordare significa anche confrontare con il passato quanto il suo carattere sia cambiato rispetto agli inizi e sorriderne, per poi costringere se stessi ad alterare questa situazione per non farsi prendere dalla malinconia.

«Avanti, dobbiamo andare.»

«Sei sicuro di voler rivedere tua madre?»

«Ho lasciato molte cose in quella casa. Potrò non essere pronto per tornare a viverci ma ho bisogno di tornare per parlare.»

La mia certezza gli consente di sciogliere le sue braccia attorno al mio corpo, in modo da lasciarmi libero per riprendere a camminare.

Quando raggiungiamo il portone della mia casa siamo ancora fianco a fianco, dinanzi ad un insieme di voci che, urlando al di là di questa porta, si sovrappongono l'un l'altra con una rabbia senza eguali.

Lancio un'occhiata a Rais, chiedendogli assoluto silenzio mentre ruoto il mazzo di chiavi rimasto in mio possesso all'interno della toppa nel modo più impercettibile possibile, così che il nostro ingresso non possa in alcun modo intaccare la ferocia di quello scontro che sta avendo vita in soggiorno.

«Credevo di aver chiarito le cose già da tempo. Che cosa ci fa lui qui?»

«Sono suo fratello.»

«Davvero? E ti ricordavi di questo mentre scopavate?»

«Vi prego, abbassate la voce... Caleb è nella sua stanza.»

«Che senta, allora!» Proclama il mio finto padre, mentre io e Rais ci facciamo più vicini rimanendo nascosti dietro una parete che, ormai siamo certi, accoglie lo scontro di quel patetico triangolo amoroso che ha avuto vita in casa nostra.

«Non dire così, ti prego...»

«Ormai non me ne importa niente, mi hai capito, Nora? Che Caleb senta che essere miserabile e sporco è suo fratello! Nato da questo viscido amore... non poteva che provarne un altro altrettanto innaturale!»

Chiudo gli occhi dinanzi a queste parole dure, non urlate solo dalla rabbia. C'era un motivo se fino ad adesso avevo nascosto la mia relazione a mio padre ed era la sua totale mancanza di comprensione. Sapevo che non lo avrebbe accettato. Sapevo che avrebbe urlato così ed avrebbe scaraventato, da una parte all'altra, gli arredi della nostra casa come già sta facendo. Sapevo che, prima o poi, mia madre o Damien glielo avrebbero confessato... ma il suo odio mi trafigge più a fondo di quanto immaginavo potesse colpire. La sua rabbia per l'essere immondo che sembro essere da sempre stato ai suoi occhi mi porta ad uno stato di profonda tristezza, associabile all'angoscia che di colpo chiede che io riapra occhi e bocca per poter respirare come si conviene.

«Non deve più entrare in questa casa, hai capito bene, Nora? Né lui né il suo patetico padre! Non deve più avvicinarsi con le sue mani sporche e il suo animo depravato a mio figlio, sono stato chiaro?!»

Non posso toccare Caleb perché sono sporco... sbagliato.

Ho una malattia che mi distrugge i nervi, in uno stato troppo violento per accettare confronti, e non posso abbracciare mio fratello.
Provo amore per un altro uomo. Per questo motivo... non posso abbracciare mio fratello.

In un primo momento la parte di me che si sente simbiosi di uno sbaglio, il figlio malato di un incesto e vittima di un corpo troppo fragile, l'uomo che ama altri uomini, ritiene che sia giusto farlo, allontanarmi per sempre da qui e correre lontano per evitare di contagiare, con il proprio orrore, tutti gli altri. Evitare di amare mio fratello per non far entrare anche lui all'interno di questo mondo spoglio e pieno di colpe involontarie, ma l'altra parte...

L'altra parte mi dona la forza necessaria per spazzare in un attimo tutto il dolore che quelle parole, sanguinose da parte di un padre che dovrebbe donarti solo amore, non dovrebbero donare, raddrizzare la schiena e trovare il coraggio, in un attimo, la forza necessaria per entrare in quel soggiorno e fronteggiare tutti quanti.

Le due persone che più in questa vita mi hanno amato, pur non riuscendo a farlo alla luce del sole con sincerità, e l'uomo che, a quanto pare, mi ha disprezzato da quando sono stato messo al mondo, ancora di più non appena si è reso conto quanto profondamente siamo diversi.

Io e lui ci fissiamo. Io e l'uomo che mi ha cresciuto. Ci guardiamo negli occhi non appena entro all'interno di questa stanza e nei suoi vedo tutto l'orrore, l'odio, la ferocia che poche altre volte avevo visto insorgere in maniera tanto palese ma eccolo qui, il vero volto del mio finto padre. Eccolo qui, il vero sentimento che per tutto questo tempo lo ha spinto a disprezzare ogni mio gesto perché appartenente alla genesi di un odio che fino a questo momento non mi era stato del tutto rivelato.

Ed invece, Damien? Damien mi fissa con le lacrime agli occhi. Anche questo suo volto raramente mi si è rivolto. Da sempre lui era lo zio incrollabile, scherzoso, divertente al quale tutto può essere confidato senza ritegno, perché certo di poter essere ricambiato solo con l'amore.

Due uomini così profondamente diversi che in un attimo hanno ristabilito i loro ruoli, all'interno della mia vita, mentre mia madre continua a guardarmi nel modo con cui ha sempre fatto: con desolazione, chiedendomi perdono per una vita che non è stata in grado di tenere sotto controllo.

«Sono venuto solo a prendere le mie cose. Tra poco me ne vado.» Affermo, vedendo solo per un istante gli occhi dei miei padri scorrere fino a Rais, alle mie spalle.

Allontano lo sguardo per non vedere ciò che i loro visi trasmettono, consapevole del rapporto di fiducia che Rais ha con mio zio e dell'effettivo odio improvvisamente scoperto con il mio finto padre.

Torno verso la mia vecchia stanza, raduno poche cose all'interno di un borsone nel più completo silenzio che circonda tutta casa finché non noto la porta che connette la mia alla camera di mio fratello aprirsi, mostrandomi Caleb, in piedi a pochi passi da me.

Ci guardiamo negli occhi, a due altezze differenti. Fotocopie di due età diverse.

Abbiamo gli stessi occhi, gli stessi capelli, lo stesso naso e la stessa pelle. Siamo identici, io e lui, siamo uguali. E in un istante mi rendo conto che non è più importante la malattia perché quello che c'è di fondamentale è che Caleb non sia nato da quell'uomo pieno di odio. Che sia anche lui parte ereditata del cuore di Damien, che sappia amare, che non sappia macchiarsi della vergogna donata dalla ferocia. Che sia un uomo giusto, retto e non sappia giudicare, né denigrare.

Arrivo fino a lui, abbandonato tutto dietro di me, con le mani che mi tremano e le lacrime al bordo degli occhi.

Forse non lo capirà mai. Forse non comprenderà mai, negli anni, quale esitazione io adesso provi nell'inginocchiarmi di fronte a lui e tendere le mani. Non conoscerà la paura che io, il suo fratello più grande, possiedo nel non volergli essere di peso, nel non volerlo per sempre danneggiare con qualsiasi forma di mio peccato, con la mia anima danneggiata, con l'errore che è la mia vita. Accostarsi ad una persona tanto pura mentre si è macchiati di una colpa che non si è certi possa essere valutata tale ma che pesa sull'anima dona pesantezza ad ogni azione che si compie. Esitazione, persino nei confronti dell'amore.

Eppure... è proprio la forza di quest'ultimo sentimento che mi dona forza e che mi fa comprendere che davanti a me ho mio fratello. Mio fratello. Il mio fratello più piccolo. Una delle persone a cui voglio più bene in tutta la mia vita. Poso le mie mani sulle sue braccia e mi dimentico le lacrime. Dimentico di essere un errore, scordo quanto sbagliato agli occhi degli altri possa essere il mio amore, e mi osservo solo tramite il verde dei suoi occhi smeraldo, identici ai miei.

«Io ti voglio bene, Caleb» gli dico, con tutto me stesso, pur essendo certo che la sua testardaggine, mescolata ad una sorta di timidezza che ha da sempre, non gli permettano di ricambiare la mia frase. Non è importante, perché io... «Ti voglio bene, più di quanto tu possa immaginare. Nonostante i nostri litigi, nonostante tutto ciò che può dire nostro padre... io ti voglio bene, non te ne dimenticare.»

Attendo di essere certo che possa avere compreso, prima di accoglierlo in un abbraccio nel quale, solo per un istante, lo avverto ricambiare.

Io e lui siamo fratelli. Fratelli. Due fratelli identici, con caratteri diversi.

Non lo abbandonerò in questa casa, ma ora ho bisogno di allontanarmi da qui.

Sciogliendo la nostra stretta, recupero la mia borsa sotto il suo sguardo e mi allontano, tornando nel soggiorno dove tutti loro sono rimasti immobili ed incentivando Rais, con un'occhiata, a seguirmi affinché possiamo andare entrambi via da questo inferno.

Scendere in strada è come cadere su un pavimento che, all'improvviso, sembra essersi riempito di voragini ed ostacoli. Camminare risulta più difficile, allontanarsi da questo posto è impossibile e niente dipende dalla disarticolata andatura generata dalla mia malattia ma solo dal dolore provocato da questo posto che, mi accorgo, non ha colpito solo me.

Rais non mi sta seguendo ed è immobile, con lo sguardo perso nel vuoto, vicino al portone che da sulla strada. Lo raggiungo rendendomi conto che più i miei passi si fanno vicini più delle lacrime si creano nei suoi occhi.

«Rais, quelle che hai sentito erano solo parole di un uomo che mi odia, non hanno niente a che fare con noi, non permetterò che si intromettano.»

«Non è questo» sussurra, del tutto privo di forze nel parlarmi all'interno di questa notte. «Mi avevi chiesto di essere sincero, ma non so se sono in grado di farlo...»

L'attenzione rinasce, in un attimo, all'interno del mio corpo e mi costringe a spiare ogni più piccola espressione che sfugge all'interno del dolore di Rais, trattenuto a stento.

«Puoi parlarmi di ogni cosa, Rais. Devi farlo» affermo, guadagnandomi una sua occhiata disperata di colpo piena di lacrime mentre getta esausto la testa all'indietro. Abbandono la borsa per terra e arrivo di fronte a lui, prendendogli il volto tra le mani affinché non cerchi altrove una via d'uscita da questo dolore ma solo in me, solo nei miei occhi.

«Parlami, Rais. Dimmi cosa c'è che non va.»

Nella mia certezza ritrova la sua stabilità. Abbiamo avuto così tanto dolore in questa giornata a causa dei fatti che sono successi, degli affetti che sono scomparsi, delle malattie che sono insorte, della mia sicurezza che si era nascosta, codarda, in qualche antrio del mio cuore in cerca di riposo ma ora è tornata tra di noi e gli chiede di essere sincero, cedendo stavolta, lui per primo, all'ipotesi di una resa.

«Tuo padre... non Damien... l'altro tuo padre» parte con il dire, dandomi conferma di quale legame di sangue abbia danneggiato, ferocemente, la nostra certezza.

«Sì...»

«Quel padre, quell'uomo... quell'uomo è Richard Lee.»

Una goccia di sangue si infrange all'interno della mia anima, cadendo nel vuoto dell'abisso che in un attimo mi raggiunge, dando risposta riguardo alla vera nascita del male con cui si nutre feroce la mia malattia.

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