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Missing Moment 1 - Colazione da zia Nancy


♦♦♦ ♦♦♦  Intermezzo tra capitolo 1 e 2  ♦♦♦ ♦♦♦




Colazione da zia Nancy

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Aprendo gli occhi trovai le lenzuola attorcigliate attorno ai piedi e il braccio di Aleksandr sul mio fianco. Respirai profondamente prima di alzarmi da quel letto stretto e scomodo – anche se, in realtà, avrei voluto rimanere. Per la prima volta non ebbi incubi di alcun tipo, né il solito bullo dal volto sbiadito né la pioggia torrenziale e la nebbia che mi offuscava la visuale. Facevo sempre lo stesso sogno ormai da tre anni, e la mia mente lo continuava a proiettare dentro di me.

Mi appoggiai istintivamente una mano sulla fronte camminando verso la porta del bagno tra la scrivania e l'armadio della cameretta, chiudendola poi a chiave. Davanti a me c'era lo specchio, quel maledetto pezzo di vetro che rifletteva la mia immagine e ricopiava i miei movimenti. Mi avvicinai tenendo lo sguardo fisso sul mio riflesso, allungando lentamente il braccio fino a sfiorare il gelido tepore del vetro con i polpastrelli. Quella diciottenne dai capelli corti ribelli riflessa ero proprio io, Theresa Harper.

Non mi stupivo affatto di me stessa, per il semplice fatto che avevo il sapore del sangue e della violenza in bocca. Avrei potuto essere una ragazza qualunque, con tanti amici, una madre orgogliosa della propria figlia, un vestiario invidiabile... ma la malasorte mi aveva riservato un destino piuttosto avaro.

Poi mi sfiorai il fianco sinistro. Aleksandr teneva il braccio proprio lì, cosa che mai avrebbe pensato di fare: dormire accoccolato vicino a me, come un bambino di tre anni che aveva appena fatto un brutto sogno. Io e lui non avevamo mai dormito insieme, neanche da bambini. Ogni volta che avevo un incubo o vedevo strane ombre, andavo nella camera di mamma – dove c'era ancora mio padre, l'uomo che avrebbe dovuto accompagnarmi fino al giorno del mio matrimonio – e mi lasciavo avvolgere dalle loro braccia. Raramente mi capitava di dover camminare verso la porta della sua stanza, quel legno opaco e scheggiato che ti suscitava terrore ogni volta che cercavi di varcarne la soglia.

Quel contatto era nuovo per me, Aleksandr non mi aveva mai abbracciata in quel modo, era come se avesse sempre avuto paura di farlo, o non ne avesse il diritto - nostra madre era un caso a parte, ovviamente.

"O forse, non mi vuole bene".

Mi abbassai i pantaloncini e andai verso la tazza, abbassai le mutandine e mi sedetti sulla tazza. Il fianco mi formicolava, così come le mie cosce. Non riuscivo a descrivere quella strana sensazione, semplicemente perché non l'avevo mai provata in tutta la mia vita. Aleksandr ed io avevamo dormito assieme, e nostra madre ce lo aveva permesso.

Mi rialzai dalla tazza ripulendomi delicatamente con la carta igienica, mi rialzai anche le mutandine e i pantaloncini e mi lavai il viso, dopodiché rigirai la chiave ed uscii dal bagno.

Mi ritrovai ad osservare Aleksandr beato sul letto che abbracciava il cuscino blu. Dopo quella notte ne sentii la mancanza, ed io avrei voluto restare avvolta tra quelle lenzuola profumate di lavanda e quell'odore di colonia proveniente dai suoi vestiti e dalla sua pelle. Volevo restargli vicino, solo qualche altro minuto. Tra fratellastri era una cosa normale?

"Stai impazzendo, Theresa".

Scossi la testa, scacciando quegli strani pensieri. Abbassai la maniglia della porta che separava la stanza dal corridoio, per poi richiuderla alle mie spalle e scendere le scale con i calzini ai piedi. Iniziai a girare per casa a vuoto giocherellando con i fili che pendevano dalla mia maglietta. Mi passai freneticamente le dita fra i capelli cercando di convincermi che ne avevo abbastanza del dolore; e non c'era pensiero più falso. Il dolore avrebbe continuato a perseguitarmi lo stesso.

«Oh, Theresa, sei sveglia». Una voce stridula attirò la mia attenzione, mi girai e vidi la zia Nancy con una camicia di seta grigia addosso, un coprispalle bianco e i suoi capelli rossicci raccolti in una coda alta. «Credevo fossi Aleksandr».

«Sta ancora dormendo, se lo stavi cercando».

Zia Nancy sorrise allegramente e mi venne incontro appoggiando una delle sue mani rugose dalle unghie laccate di rosso sulla mia spalla, cercai di trattenere una smorfia, per quanto le sue mani mi facevano impressione.

"La chirurgia plastica non fa miracoli, zia."

«Sei ancora arrabbiata per ieri sera?»

«No» mentii.

«Bene, perché devi aiutarmi a preparare la colazione».

"Cominciamo bene la giornata." – «Anzi, sveglia anche tuo fratello. Lauren vi sta aspettando».

«Dove?» domandai incredula.

«A casa, dove altrimenti?»

«Era una domanda stupida» ribattei freddamente.

«Me lo aspettavo da una come te» rispose con un sorriso accattivante e rugoso.

La fissai con un tic nervoso all'occhio. Si svegliava sempre con la luna storta, il viso sempre più pallido e l'aspetto di una strega. Vecchiaccia.

«Sei ancora qui? Vai a svegliare Aleksandr!» alzò la voce ed io obbedii senza dire altro.

«Non c'era bisogno di alzare la voce» ringhiai sottovoce, salendo le scale e tornando nella cameretta. Lui ancora dormiva, il cuscino a terra e le lenzuola completamente arrotolate. Mi avvicinai lentamente, non avevo neanche il coraggio di svegliarlo – da una parte non lo volevo. Non appena aprì appena gli occhi, le sue iridi scure emanarono una sottile luce bianca. Rimasi incantata.

«Ah, sei tu», sbadigliò, «pensavo fossi la zia».

«Mi ha mandata lei a svegliarti».

«Non è da te obbedire ai suoi ordini».

«Se non muovi quel culo, ti costringerò io a farlo».

Emise un respiro strano, come se stesse cercando di soffocare una risata. Stava per ridere, ed io non lo sopportavo. Invidiavo da morire la sua risata così lucente, così contagiosa, così maledettamente divina. «Se sei tanto forte, allora, provaci».

Mi sfiorò il braccio prendendomi poi per mano, tirandomi poi a sé con fare sicuro; improvvisamente mi ritrovai con il petto contro il suo. Il mio sguardo era stato catturato da quei cristalli verdi bagnati d'acqua limpida, non riuscivo a staccarmi dai suoi occhi.

«Sapevo che non ci saresti riuscita» sorrise, lasciando che le nostre fronti si scontrassero.

Sentii il corpo che rapidamente si riscaldava sopra il torace di Alec, le sue dita che sfioravano la mia pelle bianca e fredda. Le sue braccia che mi circondavano i fianchi con affetto, ed era quella la sensazione che ci catapultava in una realtà parallela. Non avevamo bisogno di nient'altro, e forse non ne avevamo mai avuto bisogno.

«Dovresti ingrassare un po', sai?»

«Perché?» inarcai un sopracciglio.

«Sei troppo leggera».

«E tu sei un'idiota» sbottai sottovoce, strappandogli una risata – una di quelle fragorose e contagiose. Rotolai verso il bordo del letto e mi rialzai, sistemandomi i vestiti.

«Piuttosto, hai dormito bene?»

«Diciamo di sì» risposi sbuffando.

«C'era da aspettarselo» ghignò mettendosi seduto sul materasso, raggomitolando nuovamente le lenzuola lasciandole ai piedi del letto. Quel ragazzo non si preoccupava mai del letto infatti, faceva sempre arrabbiare nostra madre e lui, nonostante i numerosi rimproveri, continuava a metterlo sottosopra. "Per me è inutile rifare il letto, poi devo disfarlo nuovamente la sera" era la sua piccola teoria e fra le tante che aveva inventato, era la più geniale.

«Hai intenzione di far arrabbiare anche la zia, vero?» domandai appoggiando la schiena contro la porta, dopo essermi girata verso di lui.

«Conosci bene la mia teoria».

«Beh, suppongo che non ci sia verso per farti cambiare idea».

«Indovinato» si rialzò sbadigliando e stiracchiandosi le braccia, come sempre.

Per un attimo, semplicemente, ci guardiamo. Aleksandr era proprio a dieci centimetri di distanza da me e se non fosse stato per quell'attimo, quel maledetto attimo... sarei crollata. Aveva un velo di sudore sulle guance e sulla fronte, gli occhi chiari lucidi e sicuramente febbricitanti. Le Lacrime del Risveglio, come le chiamavo da bambina.

«Va tutto bene, Alec?»

Per un po' nessuno dei due disse niente, poi mi schiarii la gola rompendo il silenzio.

«Sì... sì», si affrettò a rispondere, «ho ancora sonno».

«La mamma ci aspetta, non possiamo tardare».

«Ma oggi è domenica».

Feci spallucce come per dire «conosci le regole» e lui capì subito il mio intento. Aprii la porta e scendemmo insieme verso la cucina, posta al lato sinistro della villetta di periferia. I mobili della cucina erano stati fatti da un falegname della città, in legno di cedro abbastanza pregiato, le maniglie erano fatte di plastica, decorate di un rosa chiaro. C'erano un sacco di elettrodomestici di ultima generazione, per non parlare della macchina del caffè identica a quella del bar dove io e i miei fratelli andavamo sempre a fare colazione – prima di prendere la metropolitana e andare a scuola.

Era incredibile come nostra zia sperperava il suo patrimonio in mobili di prima mano, molto fragili e soprattutto costosi. Se ci fosse stato lo zio Geoff, i mobili sarebbero rimasti gli stessi: di seconda mano, pieni di schegge e impolverati.

La zia era proprio davanti ai fornelli che cucinava le crêpes al cioccolato e alla marmellata, preparando il caffellatte e una tazza di tè alle erbe. «Buongiorno», ci salutò e noi rispondemmo educati, «hai dormito bene, Aleksandr?»

"Come sempre, m'ignora."

«Abbastanza» si limitò a rispondere lui, osservando la spatola impugnata nella sua mano girare l'impasto della crêpe con l'acquolina in bocca.

«Tra due minuti sono pronte, abbi pazienza» continuò lei, accennandogli un sorriso. Guardò anche me e mi fece il cenno di sedermi davanti al tavolo. Senza replicare, accompagnai Alec al tavolo e, dopo essermi seduta, osservai la sua maglietta. Era la stessa che aveva indossato qualche giorno prima, quando eravamo andati al luna park con Michael e Lara.

Fissai il vetro lucido del tavolo, odoroso di cera fresca. Era proprio da lei pulire il vetro con la cera, così come il marmo, la marmitta della macchina – la passava due volte a settimana -, perciò l'avevo definita strana. Arrivò con le tazze di caffellatte, sedendosi a tavola con noi. Avrebbe lasciato raffreddare le crêpes per qualche minuto, prima di poterle gustare come si doveva.

«Allora, Aleksandr», attaccò bottone, ignorandomi nuovamente, «come vanno gli allenamenti per la partita della prossima domenica?»

«Molto bene», rispose sorseggiando il suo caffellatte, «il coach sta ancora organizzando la formazione della squadra».

«E quale ruolo giochi?»

«Ha deciso di farmi giocare come tallonatore, ma è ancora provvisorio».

La zia si alzò dalla sedia e prese le crêpes mettendo i piatti davanti a noi, lei si era preparata una crêpe con la marmellata di ciliegie. Non osai neanche guardare quello splendore davanti ai miei occhi, semplicemente perché non mi piaceva la cioccolata.

«Spero ti dia un ruolo importante, perché lo meriti».

«Non è vero, zia», ridacchiò lui, «e poi gioco a rugby solo da due anni, sono ancora inesperto».

«Hai dei muscoli così possenti che faresti invidia anche ai giocatori di football».

Parlavano ancora di sport, l'argomento che mia zia detestava più di ogni cosa al mondo, ma parlarne con Alec era ben diverso. Era il suo sorriso e la sua voce, quei particolari che t'invogliavano ad ascoltarlo e guardarlo. Non solo faceva invidia ad altre persone, anche a me. Il sorriso non ce l'avevo e, forse, mai l'avrei avuto.

«E tu, Theresa?» Alec attirò la mia attenzione facendomi sobbalzare dallo spavento, sorridendo come al solito. Zia Nancy mi osservò impaziente di voler sentire una delle mie solite cazzate da adolescenti – come le chiamavano lei e mia madre, soprattutto l'ultima.

Le lanciai uno sguardo di disapprovazione, ma non ci fece troppo caso.

«So che stai ancora lavorando al ritratto di Lara per il concorso di disegno», aggiunse lei, «e che non lo hai ancora finito».

«Non posso dedicarmi tanto ai miei hobby, visti i tanti compiti delle vacanze che ci hanno assegnato», risposi acida, «e poi, cosa t'importa?»

«Ti ho solo chiesto come sta andando il tuo lavoro, non volevo aprire un dibattito» sbottò lei leggermente irritata.

«Non avresti dovuto interpellarmi».

«A parte che è stato tuo fratello a...»

Mi alzo di soprassalto dalla sedia e mi allontano gettando con rabbia la forchetta sul piatto, ignorando gli sguardi stupiti dei miei parenti. Non ero in grado di parlare con mia zia e con altri, per colpa del mio carattere insensibile e iroso. Camminai verso i gradini delle scale, li salii uno per uno e raggiunsi la cameretta, buttandomi infine sul lettino a pancia in giù. Non riuscivo a piangere, ma mi sforzai per farlo.

"Sei davvero ridicola" mi ripetei nella mia testa, umiliandomi da sola. Non facevo altro che prendermela anche per una conversazione banale, semplicemente perché non mantenevo la calma. Mi sentivo una perfetta idiota.

Tornai in cameretta e chiusi la porta alle mie spalle, per poi camminare verso il lettino e buttarmi sul cuscino quasi in lacrime poi, ingenuamente, me lo metto sulla testa.

"Voglio scomparire!" esclamai nella mia testa e non c'era pensiero più stupido di questo. Sentii improvvisamente gli occhi appiccicosi e la bocca impastata, avevo una gran voglia di dormire fino a tarda notte.



«Tessa?» Trasalii presa alla sprovvista. Il rimbombare della voce di Alec mi contorse lo stomaco, cercai comunque di non muovermi da quel letto e lasciare la testa sotto il cuscino. «Posso entrare?»

Sospirai, prima di rispondergli di sì e scostare leggermente il cuscino dagli occhi per poter vedere meglio la porta. Essa si aprì e lui entrò chiudendosela alle spalle, mettendosi le mani in tasca. Mi sta guardando ed io mi affrettai a nascondere gli occhi sotto il cuscino.

«Inutile che ti nascondi, Harper».

«Se sei venuto a scocciarmi, la porta è lì».

«Non fare la frigida e togliti quel cuscino dalla testa».

«E se non volessi?»

«Te lo strappo dalle mani».

Era aria di sfida e sapevo benissimo che non potevo competere con lui. Era troppo in forma per me, sicuramente mi sarei fatta umiliare una seconda volta.

«Non hai le palle per farlo».

Sogghignò e sbirciando da sotto il cuscino, lo vidi incrociare le braccia e alzare una gamba, appoggiando il piede sul legno della porta. Per giunta camminava per casa in calzini, cosa che aveva contagiato anche me.

«Wow, parli proprio come una principessa» commentò ironico.

«Piantala!» piagnucolai.

«Con tutti i "piantala" che mi hai gridato addosso, avremmo di sicuro creato un bosco».

Trovai il coraggio di togliermi il cuscino dalla testa e, di colpo, sentii il cranio congelarsi. Ero sempre fredda, in particolare alle mani. Osservai il mio riflesso disegnato sullo specchio accanto a me, gli occhi arrossati e gonfi, la pelle pallida e il labbro inferiore leggermente insanguinato. Non avrei dovuto morderlo così voracemente. «Non fai ridere, Logan».

«Almeno non hai più il cuscino in testa».

I quel preciso istante aveva una mano infilata nella tasca del pantalone grigio e l'altra che passava sul suo ciuffo ribelle. Rimase fermo a guardarmi con quegli occhi pieni di allegria. Quella sua compostezza mi dava ai nervi.

«Se vuoi continuare a fare il pagliaccio, ribadisco: la porta è lì».

«Lo faccio per farti sorridere, sorellina» rispose e di colpo arrossii. Non era solito a chiamarmi "sorellina" – in verità, era Michael a farlo ma dopo qualche tempo, aveva cominciato a farlo anche lui. Nessuno di loro era il mio fratello di sangue, eravamo semplicemente una famiglia mosaico e vivevamo sotto lo stesso tetto da anni.

«Mi dispiace, ma hai fallito».

«Mi rifarò la prossima volta».

Scorsi improvvisamente un barlume di fastidio nel suo sguardo, poi tramutò espressione allungando le sue labbra in un ghigno sghembo. Avevo sempre odiato quel sorriso, un mix tra l'allegro e il giocoso.

«Sei irritante, lo sai?»

«Sì, lo so», rispose con un sorriso alquanto fastidioso, «ma non sono qui per giocherellare».

«E allora, cosa sei venuto a fare?»

Silenzio. I nostri sguardi rimasero inchiodati uno sull'altro finché, il primo ad accennare qualche mossa, fu proprio lui. Si avvicinò allontanandosi dalla porta, mi venne incontro e allungò una mano verso i miei capelli, afferrandone una ciocca di lato. Volevo scappare da quella stanza, sapendo che la situazione si stava facendo sempre più imbarazzante.

«Era necessaria quella sceneggiata di prima?» Mi morsi la lingua imbarazzata realizzando che aveva ragione. «Non sei più una bambina, sai? Hai diciotto anni e delle responsabilità.»

Mi avvolse in un abbraccio. Non avrebbe dovuto farlo, mi sentii ancora più sopraffatta da quel corpo maschile così caldo e accogliente. Cercai di spingerlo via con tutte le mie forze, ma non riuscii a muoverlo neanche di mezzo millimetro. Mi sentii improvvisamente debole e insignificante. Come poteva Aleksandr volermi bene?

«Promettimi che cambierai, da questo momento in poi».

«Sì...» sussurrai ricambiando finalmente quell'abbraccio, «te lo prometto».

Mi rivolse un dolce sorriso, per poi staccarsi da me. Il mio corpo sudava freddo e non capivo se era colpa di quell'abbraccio o l'arrivo di un'influenza. «Devi delle scuse alla zia, adesso».

«Certo, gliele dirò – sempre se non le considera come una recita scolastica».

«Se hai bisogno di supporto morale, ci sono io» mi allungò la mano e l'afferrai dolcemente, lasciandomi portare giù per le scale. Mi sentivo una perfetta idiota.

«Stai bene?», mi chiese ad un certo punto sorprendendomi.

«Ho solo un leggero mal di testa, ma non è nulla di preoccupante».

«Non in quel senso, intendevo dire, stai bene?» e mi guardò dritto negli occhi.

«Sinceramente... non lo so».

Ricambiò il mio sguardo e, d'un tratto, riuscii a sentire le sue emozioni. Era davvero preoccupato per me e avrebbe rinunciato al suo sogno per me, per Lara o qualcun altro. Era un ragazzo che non aveva mai paura di affrontare determinate situazioni – che fosse bullismo o altri problematiche che circondano la realtà, trasformandola in un inferno senza fine.

«Non devi aver paura di chiedere scusa».

«Alec, il punto è che...»

«La zia accetterà le tue scuse, ne sono sicuro».

Non sapevo se credergli o meno, per il semplice fatto che mia zia era esattamente uguale a mia madre. Se ne fregava di me e dei miei problemi, lasciandomi in un angolo. «M-mi rifiuto di chiedere scusa ad una vecchia rugosa!»

Lasciai la sua mano e distolsi lo sguardo infantile, Aleksandr odiava questo mio comportamento ma faceva di tutto pur di mantenere la calma e aiutarmi.

«Quindi, è questo quello che pensi di tua zia?» mi chiese, incrociando le braccia con disappunto.

«Non fa altro che ignorarmi, non ricevo mai attenzioni da parte sua e mi considera una specie di vagabonda. Come dovrei comportarmi con lei, eh? Come se nulla fosse?» Le mie parole erano uscite a raffica, come un uragano, e sapevo che alla fine avrei detto più del dovuto. Quando cominciavo a sfogarmi, con qualcuno o con qualcosa, nessuno mi fermava.

«Tessa, almeno provaci».

«Non sono pronta, va bene?» L'espressione di Aleksandr cambiò radicalmente, diventando cupa e minacciosa – anzi, spaventosa. «Lo sai che odio chiedere scusa e la maggior parte delle volte mi vedo costretta a farlo, le mie scuse non saranno mai sincere».

«Non importa, basta che fai la cosa giusta».

Ci guardammo per qualche istante e nei suoi occhi lessi tutta la sua insistenza e qualche punta di speranza in me; poiché odiavo ritrovarmi in situazioni del genere, decisi di accontentarlo. Non appena mi tese nuovamente la sua mano, l'accettai e mi lasciai accompagnare in cucina. La zia era ancora lì, questa volta a lavare i piatti e sistemare perbene la cucina. Fermai di colpo i miei passi irrigidendo le gambe, sperando non m'ignorasse. Stavo per aprire la bocca quando Aleksandr mi anticipò richiamandola, lei si girò verso di lui poi guardò me.

«Con quale faccia, poi» commentò la vecchietta, «ti comporti come una lattante e vieni qui a chiedermi scusa dimenticando tutto?»

«Zia, ti prego» mormorò Alec e stranamente, l'espressione di mia zia cambiò.

"Come se mio fratello fosse la reincarnazione del principe William".

«E va bene, accetterò le tue scuse, Theresa» si affrettò a dire senza farmi parlare.

«Dovresti volerle bene come una madre, anziché ignorarla e farla stare zitta» disse lui.

«Non ha bisogno di attenzioni come una bambina di sette anni» replicò posando i piatti bagnati e leggermente coperti di schiuma accanto al lavello.

«È pur sempre tua nipote», alzò la voce Alec, di colpo contorsi le braccia dalla paura, «tu e tua sorella siete proprio uguali: stesso carattere di merda e stesso cervello!»

«Vedi di non esagerare, Aleksandr».

«Se si tratta di lei, no».

Mi tremarono le mani, attorcigliai le dita le une contro le altre e poi alla fine sbottai. «Visto che non ho bisogno delle tue attenzioni, allora, non verrò mai più a casa tua! Puoi tenere i tuoi cazzo di soldi e bacetti per Lara, tanto a me non servono. Giusto?»

Uscii di casa sbattendo la porta, camminai fino alla prima fermata dell'autobus senza essere in compagnia di Alec ripetendo nella mia testa «Nancy, sei una stronza».



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