35. Nostalgia
Mi siedo nella tenda e inizio a piangere a dirotto. È passato così tanto tempo che non mi sono più chiesta come stessero andando le cose a scuola, pensavo che sarebbero tornati tutti a casa dalle loro famiglie.
"Carmen" la sagoma di mio padre si muove nel buio all'interno della tenda, si siede vicino a me e mi abbraccia
"Che succede?" mi accarezza i capelli e tra le lacrime gli rispondo "non ho più pensato a cosa possa essere accaduto in quella scuola, mi sento in colpa"
"Oh no, non devi. Credimi" sussurra
"Non è colpa tua, nemmeno nostra, semplicemente molte volte le cose vanno come noi non ce lo aspettiamo, ma non possiamo farci nulla" respira profondamente e il suo tono diventa più triste
"Anch'io ho pianto la notte in cui tua madre mi ha sbattuto fuori casa, ma quella è stata colpa mia. Sapevo che avrei distrutto tutto quello che avevo creato con lei, eppure una vocina mi ha detto di continuare a bere, quella è stata la scelta peggiore della mia vita" confessa.
Mi giro di scatto verso di lui
"Anche tu hai sentito quella voce? La senti ancora? Continua a dirmi cosa devo fare, non riesco a contraddirla" forse mio padre ha la soluzione
"Devi solo credere in te stessa, non abbatterti e resistere alle tentazioni. So che non è facile, ma come sto imparando io puoi farlo anche tu" nei suoi occhi una scintilla di speranza riaccende la mia e in un attimo le mie lacrime si asciugano.
"Forza, alzati e torna a tavola con noi, non vorrai mica lasciare che quelle prelibatezze finiscano nello stomaco di qualcun altro..." lo abbraccio e lo ringrazio dopodichè torno dagli altri.
Quando torno, trovo tutto esattamente uguale, solo che rispetto a prima c'è un gran baccano, appena notano la mia presenza si zittiscono.
"Mi dispiace di avervi abbandonati" mi scuso
"Tranquilla cara" Agata mi indica di prendere il mio posto e io mi siedo insieme agli altri.
I raggi del sole si scagliano infuriati sulle vetrate dell'edificio, mentre gli uomini si preparano per andare a caccia chiedo a Dylan se possiamo parlare in privato.
"Vorrei partecipare alle vostre battute di caccia" esclamo
"Tu cosa?" mi guarda sbigottito "sei una ragazzina, non sai neanche cosa sia un fucile, non se ne parla"
"Beh, alle medie ha fatto tiro con l'arco, è una tra le sue grandi capacità" afferma mio padre, mi sussurra all'orecchio "per sconfiggere la vocina nella tua testa devi prima sfidare te stessa".
"Io approvo" dice mio padre, mi trascina verso di lui "a patto che tu mi stia attaccata e che non faccia cavolate" annuisco entusiasta.
"Vengo anch'io" esclama Christian agitando il braccio in alto, papà sbuffa.
Lo scricchiolio dei rami pestati è l'unico rumore che anima il bosco.
Il sole viene tagliato a pezzetti tra le foglie degli alberi.
Dylan ci ripete di fare silenzio,osservo gli alberi e la natura intorno a me, finchè non intercettiamo uno scoiattolo che sta controllando attorno a sé la presenza di pericoli. Lo guardiamo in silenzio come meravigliati, tranne per Dylan che è abituato.
"È bellissimo" la mia voce è piccola, ho paura che il bosco mi senta e che in qualche modo il tenero animaletto ci possa sentire.
Dylan mi fa segno di colpirlo, è il nostro pranzo mima con le labbra.
Afferro l'arco come se fosse l'unico oggetto cui aggrapparmi per non farmi uccidere da un uragano, le mani stanno sudando, è da tanto che non tocco un arco e delle frecce.
Ne estraggo una, la inserisco nella mia piccola potente arma e tiro il gomito destro oltre il fianco, osservo bene la preda chiudendo l'occhio sinistro e senza pensare scocco la freccia, questa colpisce la zampa dell'animaletto che tenta di muoverla per tentare una via di fuga.
"Sul serio Carmen?" impreca Dylan scocciato "tutto qui quello che sai fare?" spinta dalla sua arroganza afferro di nuovo l'arco e stavolta colpisco la testa della povera bestiolina che cade dolcemente sul terreno ricoperto di aghi di pino.
Rivolgo il mio sguardo verso Dylan, la prossima volta impari a stare zitto deficiente penso tra me e me e gli rido in faccia.
Cammino verso lo scoiattolo, tolgo le frecce dal corpicino peloso e torno dagli altri con il mio bottino di guerra, Christian ride all'espressione innervosita sul viso di Dylan mentre gli consegno il nostro prossimo pasto.
Camminiamo per il bosco alla ricerca di un'altra
di qualcos'altro da avere nel piatto stasera, quando mi sfugge una domanda
"Ieri a cena, li hai chiamati –zombie-, che cosa sono?" lui mi guarda esterrefatto "mai visto il film di Romero, -l'alba dei morti-?"
"no" dico disgustata al solo pensiero
"male, gli zombie sono dei mostri, i nostri mostri, quelli che vediamo ogni giorno, che aggrediscono se vedono un umano e che uccidono per mangiare la nostra carne" spiega lui.
Annuisco, ora tutto ha senso.
Ci fermiamo di colpo, davanti a noi dietro qualche albero troviamo quattro o cinque di loro, mi nascondo dietro l'albero più vicino a me che fortunatamente è anche grande, gli altri fanno lo stesso con quelli vicino a loro.
Faccio un respiro profondo prima di decidermi ad avere coraggio, voglio vedere cosa sta succedendo: eccoli lì con i vestiti strappati e sporchi di sangue, i loro occhi stanno ispezionando il territorio.
Cerco gli altri, Dylan ci fa segno di rimanere fermi, probabilmente pensa che se ne andranno. Il cuore mi batte forte come se fosse la prima volta, quanto mi manca la mia normale vecchia noiosa vita; mi bastava respirare, comportarmi bene e non cacciarmi nei guai per restare viva.
Ogni mattina, mi sveglio e penso a ciò che ero, di sicuro non sono più la solita bambina viziata. Dylan muove la mano, colpisci mi dice io scuoto la testa, non ho coraggio sono in preda al panico sbaglierò qualcosa e moriremo tutti.
Qualcosa si muove tra gli alberi, non capisco cosa sia, continuo a guardare ed ecco che appare mia madre bagnata di sudore, occhiaie e lacrime, zoppica a causa del polpaccio insanguinato e mi dice "fallo, ti prego".
Un brivido alla schiena mi percuote quando il mio corpo si muove, si gira e il mio braccio afferra l'arco. Li colpisco uno dopo l'altro alla testa e questi cadono a terra.
Troppo scossa dall'accaduto svengo e cado a terra, per una volta la mia testa diventa un masso pesante che il mio collo non riesce più a reggere.
Mi sveglio in un letto, le lenzuola fresche e la stanza che sa di bucato. Affianco a me Edith che strilla a mio padre "si è svegliata"
Lui corre verso di me,
"Carmen!" mi sorride come se fossi appena risuscitata
"Cosa è successo?" domando
"Sei svenuta mentre eravamo nel bosco" dice
"Perché sei così felice?" domando ridendo
"Sono tre giorni che sei in questo letto, hai preso una bella botta alla testa e Agata pensava potessi accaderti qualcosa insieme agli altri abbiamo pensato al peggio".
Tre giorni? Non mi sembra vero. Edith rientra nella stanza
"Hanno bisogno di te Mike" lui annuisce, mi dà un bacio sulla guancia e esce dalla stanza, al posto suo entra Christian
"grazie sorella" le dice, Edith chiude la porta e ci lascia soli.
"Ti devo essere mancata molto per averti fatto organizzare una cosa così" rido
"Si, mi sei mancata. Ma non era di questo che volevo parlare" esita un attimo prima di continuare come se avesse paura di ciò che potrebbe succedere
"perché sei svenuta? Cosa è successo?" una lacrima mi bagna il viso lui la asciuga con il pollice e mi accarezza il viso
"Puoi dirmi qualsiasi cosa lo sai" inizio a piangere
"Ho visto mia madre, mi manca così tanto. Vorrei solo un suo abbraccio"
"Quello lo puoi avere da me" mi stringe così forte come se con le sue braccia potesse assorbire un po' del mio dolore e questo abbraccio dura all'infinito, questo abbraccio che non può essere distrutto nemmeno dal temporale che si sta scatenando sugli alberi del bosco.
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