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Shannon

Capitolo 17

Diciotto anni prima

Soffrire e piangere, significa vivere

FËDOR DOSTOEVSKIJ

«Cerchi ancora un colpevole!» mi urlava mia sorella dal secondo piano. Io mi trovavo seduta per terra, il parquet ammuffito era l'unica cosa a cui potevo aggrapparmi per non cadere nel baratro della follia. Il battito cardiaco mi era schizzato in gola. Ero in un limbo, mi sentivo uno zero, rannicchiata per terra avevo le ginocchia al petto e mi dondolavo con le mani premute contro le orecchie.

Riuscivo a pensare solo a quello che avevo scoperto e a quello che avevo fatto...

«Non è vero! Non è vero! Non può essere vero!» urlai fino a rovinare le corde vocali. Lo stato pietoso in cui mi trovavo era l'unica certezza rimasta.

«Shani, ti prego!», mia sorella scese le scale velocemente inginocchiandosi di fronte a me. Mi prese per i polsi e mi strattonò con violenza. «Ti prego smettila! Non permetterglielo, ti prego guardami!»

Il cuore viaggiava a cento miglia all'ora, le tempie mi pulsavano, nelle vene sentivo il veleno mischiarsi con il sangue, tutto mi scorreva davanti agli occhi, ogni parola, ogni sorriso, ogni sguardo, ogni respiro che avevamo condiviso. Il respiro mi venne meno, ad ogni boccata d'aria, i miei polmoni si stringevano come a rifiutarsi di farmi vivere.

Io lo sapevo. Io lo avevo scoperto.

«Tu non puoi capire cosa provo dentro...» sussurrai stringendo ancora di più le ciocche rosse dei miei capelli nei pugni. «Voglio sentire dolore!» urlai isterica per la seconda volta, il dolore che provavo era inesorabile, infinito. Mi sentivo imprigionata da delle catene invisibili che mi stringevano i polsi fino a squarciarmi la pelle.

Ero maledetta, l'avevo sempre saputo.

«Ti prego, piccola sono qui, non permetterglielo!» mia sorella cercava di riportarmi nel mondo dei vivi strattonandomi, ma l'unica cosa che volevo era una morte lenta e inesorabile. Volevo morire lentamente, volevo solo chiudere gli occhi e sentire tutto il dolore espandersi dentro di me e portarmi all'apice della sofferenza e follia per poi trascinare la mia anima nel più profondo degli inferi.

«Ahh!», urlai spingendola con tutte le forze che avevo, mi aggrappai al parquet e ci conficcai le unghie per poi graffiarlo con forza. Diverse schegge mi si conficcarono sotto le unghie, il bruciore del dolore mi strinse il petto e mi fece accapponare la pelle, sentii la cute dei capelli rizzarsi, il dolore annulla il dolore mi dicevo.

Quindi ne volevo di più, ne volevo sempre di più. Più intenso era, meno la delusione e le crepe mi tartassavano il cervello e mi riducevano l'anima a brandelli, fino a rendermi un fantasma.

«Oddio! Non fare così piccola! Ti prego, sarai più forte, smettila, smettila!» urlava mia sorella prendendomi per le spalle disperata mentre cercava di farmi trovare il lume della ragione, ma tutto ciò che volevo era dolore.

Odiavo me stessa, odiavo tutto ciò che il mondo mi aveva fatto, detestavo il fatto che mi ero lasciata uccidere eppure respiravo ancora. Mi sentivo come il ritratto di Dorian Gray, bella, bellissima fuori, marcia e con i vermi dentro. Odiavo il mio riflesso allo specchio, perché andavo oltre, io avevo il potere di guardare il marcio che si nascondeva dentro di me e di cui nessuno riusciva ad accorgersene, non sopportavo la mia voce perché tutto ciò che dicevo era una melodia da sirena per gli altri, eppure per me era come il canto che attraeva e uccideva i poveri marinai, non riuscivo a sopportare me stessa, io ero un essere abominevole, maledetto, raccapricciante. Tutto quello che facevo era dettato da attimi di ansie e di paure che mi accompagnavano come un'ombra da cui non sarei mai potuta scappare.

E con lui avevo scoperto che lo sarei stata per sempre.
"Sei la mia sirena in questo mare di squali" mi diceva ogni volta che prendeva in mano un arma.

Mi avevano detto che ero fragile, mi avevano detto che ero come una rosa nera che cresceva nell'deserto del Sahara, unico nel suo genere e se toccato appassiva e moriva, però loro non sapevano che mi ero resa così per farmi toccare e poi sprigionare il veleno che portavo all'interno.

La gente mi aveva detto tante di quelle cose, mi avevano dato tanti di quegli appellativi che l'unica cosa che mi riusciva bene era quello di sorridere e di sforzare le mie guance fino a dolermi per illuderli tutti.

Ma lui sapeva. Lui mi conosceva, lui mi aveva plasmato, forse nemmeno senza accorgersene, ma mi aveva fatto pensare, che tutti i dubbi, le incertezze, e l'inadeguatezza che sentivo quando ero da sola, potevano essere trasformate in cose belle. Quando mi trovavo nelle sue mani, tutto era più bello.
Eppure, dovevo aprire gli occhi. Perché dove l'oro luccica, lo si è versato del sangue. Fiumi di sangue.

"Voi poveri umani non sapete chi sono. Vi sbagliate, io sono marcia, io uccido la gente".

Un conato di vomito mi partii dalle viscere più profonde, al pensiero di essere ciò che ero, eppure lo ingoiai perché era ciò che meritavo.

Non c'era del buono in me, non c'era mai stato, non ci sarebbe mai e poi mai stato, io ero vuota, insipida, incolore. La mia era solo in apparenza, io non avevo mai avuto il coraggio a finire nessuno degli obbiettivi che mi ero prefissata, io facevo schifo.

Lo stomaco mi si strinse in una biglia, mentre il sangue scendeva copioso dalle mie unghie martoriate, nelle orecchie avevo il rimbombo del mio battito cardiaco e le urla della prossima vittima. Il mostro dentro di me mi ricordava ciò che avevo fatto.

"Sei un mostro" mi strisciava il serpente attorno al collo stringendomi fino a soffocarmi.

«Shani mi dici che cosa hai? Mi stai spaventando!» farfugliava mia sorella con l'ansia nei suoi occhi blu. Sembravo un automa, ero talmente egoista.

«Lasciami in pace!» le urlai facendo due passi indietro, le lacrime mi rigarono le guance, scendevano copiose fino a depositarsi sul parquet, il petto scosso dai singhiozzi, guardai mia sorella in trance, conficcai le dita tra i capelli e cercai di strapparmi altre ciocche. Non sapevo fare altro, non avevo la forza di andare avanti, ero persa, sull'orlo di un baratro pari al buco nero, la paura mi aveva artigliato le viscere, l'amore era come una bomba che scopia, avevo corso, avevo cercato di essere estranea a tutte quelle emozioni, però come avevo detto non ero mai stata in grado di mantenere le promesse che facevo a me stessa. E l'amore mi aveva condotto nel sentiero sbagliato, la nebbia tossica intorno a me non mi faceva vedere la strada. Ammesso che ci fosse una strada da percorrere.

«Centra lui?» domandò mia sorella avvicinandosi a sua volta, proprio come ci si avvicina a un animale spaurito.

I miei occhi scattarono nei suoi. Mi tremò il labbro e il petto iniziò a seguire il battito cardiaco, respiravo con affanno, ero prossima a un batticuore allucinante. L'esofago era arso, mi doleva tutto. Eppure, l'unica cosa che volevo era urlare.

«È morto, l'ho ucciso io» sussurrai accasciandomi a terra e singhiozzando.

Mia sorella sbiancò, «Cosa?», si precipitò a terra con me e mi osservo con il terrore negli occhi.

«L'ho ucciso», sussurrai portando lo sguardo nel suo. «E mi sono uccisa».

Navigavo in un mare nero, la mia testa pesava come un macigno, ero caduta, ma non come gli angeli che cadono dal cielo, io ero caduta come un morto che veniva gettato in mare dopo essere stato torturato lentamente fino a spegnersi. Ero senza cuore, io ero un contenitore vuoto, io sapevo chi ero, solo che nessuno si era mai reso conto, il male mi mangiava da dentro, mi deteriorava in silenzio, mi massacrava lentamente come se fossi stata una mela dimenticata su una mensola a marcire indisturbata piano piano fino a riempirsi di vermi.

Il dolore mi faceva vorticare la testa, mille lame mi facevano sanguinare il petto. Avevo creduto di essere diversa per lui, avevo creduto che per una volta potessi scappare dalla mia testa, ogni volto che pensavo a ciò che gli avevo fatto mille coltelli dalla lama aguzza mi tagliavano la carne. Ero rimasta a guardarlo, a comprenderlo, a coprire ciò che faceva, finche non mi ero sepolta davvero per gli sbagli commessi.

«Stai parlando metaforicamente vero? Dimmi di sì! Ti prego!» piagnucolò mia sorella prossima a una crisi isterica.

Annuii con la testa, prima di tirare fuori dalla felpa con le mani insanguinate una pistola.

«Oddio!» esclamò mia sorella allontanandosi come se temesse per la sua vita. «Cosa ci fai con una pistola?»

Come se fossi un automa risposi: «Dobbiamo nasconderla, è l'ultima cosa che farò per lui. Da questo momento in poi... scapperemo».


PRESENTE

Mi svegliai di soprassalto, il cuore batteva forsennata contro la gabbia toracica, il petto mi doleva e i polmoni mi si erano accartocciati dall'assenza di ossigeno, il sangue mi martellava le tempie. Sentii l'ombra del panico vorticare intorno a me, le lacrime mi risalirono alla superfice e scesero copiose lungo le mie guance.

«Cazzo!», sussurrai alzandomi dal letto. Ero sudata, e una mano scheletrica mi stringeva in un morso doloroso il cuore.

"Sei stata tu", mi disse la coscienza, chiusi gli occhi e iniziai a stringere le ciocche con forza, fino a farmi male la cute.

Non guardavo mai il mio riflesso allo specchio. Ogni volta che decidevo di farlo, vedevo l'ombra della morte, il demone con i suoi occhi rossi e le corna appuntite dietro che ghignava. Sia lui, sia io, sapevamo che la mia anima era dannata.

"Non è stata colpa tua", sentii la voce di mia sorella sussurrare al mio orecchio.

«l'amore è sempre colpa nostra», parlai con me stessa.

Nel buio della mia stanza, pensai che non ci fosse posto per me, le delusioni, gli sbagli commessi, la sofferenza che avevo causato, erano tutti biglietti in prima classe che avevo guadagnato per entrare all'inferno.

Ero un mostro. Lo sarei stata per sempre.

Il cellulare squillo facendomi sobbalzare, mi avvicinai di soppiatto, proprio come se temessi che dall'altra parte della cornetta fosse proprio il diavolo che mi stava reclamando. Con le mano tremanti e con il cuore che mi batteva all'impazzata contro la gabbia toracica afferrai l'aggeggio e vidi che era un numero che non conoscevo.

"Il diavolo ti sta reclamando Shannon" pensai tra me e me mentre accettavo la telefonata.

«Pronto, zia. Sono Lilla».
Tirai un sospiro di sollievo mentre tutte le mie emozioni si moltiplicarono per mille.

Dov'era? Con chi era? Qualcuno aveva scoperto dove mi trovavo? Qualcuno ha toccato la mia bambina?

«Dove sei? Come mai questo numero?», la voce mi uscii più dura del previsto, infatti la sentì sospirare dall'altra parte.

«Zia, ti avevo chiamata molte volte, ma dove eri?», domandò a sua volta.

«Stavo dormendo, tu dove sei? Fuori sta venendo giù il mondo!», la sgridai, come se fosse colpa sua.

«Zia, sono con un'amica, non so come venire a casa. Piove e il ponte sarà chiuso ormai», sentii la sua voce tremare appena, sapevo che stava mentendo, io la conoscevo, quando esitava, era sempre una bugia.

Assottigliai lo sguardo, come se l'avessi di fronte a me. «Un'amica eh? Sicura?»

Sapevo bene che era con il figlio di quel coglione di Trevor War. Quel ragazzo era già spacciato solo per il padre che aveva.

«Domani mattina ti voglio a casa. Anche se fuori viene giù il mondo.», le dissi perentoria.

«Va bene zia, ma tu dov'eri che non mi rispondevi?»

«Stavo...», stavo interpretando i sogni, "stavo rinvangando il passato"

«Stavo dormendo.», le risposi sospirando, mi passai le mani sul volto. «E Lilla?»

«Sì, zia?»
«Dì a Caleb War di tenere le mani apposto o glielo taglio. Mi raccomando diglielo però.»

Il suo squittio mi arrivò all'orecchio e un sorriso abbozzato mi stese le labbra. Presi un lungo respiro e la salutai.

«Ti voglio bene bambina. Ci vediamo domani»

Mentre posai il cellulare sul comodino lo sentì vibrare, aggrottai la fronte e andai a recuperarlo. Con il tempaccio, sarei stata chiusa in casa tutto il tempo, sicuramente la polizia aveva chiuso ogni strada e andare al bar non era contemplato.

Sospirai e lo afferrai di getto per leggere il messaggio.

Sconosciuto: So cosa hai fatto. Lui sta arrivando

☠️☠️

Una scarica di adrenalina mi oltrepassò il corpo, mentre il sangue mi si ghiacciò nelle vene, il telefono mi cadde dalle mani, nella testa mi si ripeteva il messaggio. I due teschi della morta mi fecero capire di chi si trattasse, e mentre il cuore viaggiava a mila miglia contro la gabbia toracica pensai solo a una cosa.

Ero fottuta!

Avevo cercato di non guardare mai più indietro, al passato ci ero già stata, io ero stata all'inferno, e quando meno me lo sarei aspettata, il diavolo mi aveva seguita. Erano passati diciotto anni, e ora si stava rivelando. Capii che sarei mai sfuggita ai miei demoni.

La gang era tornata e mi stavano reclamando.



ROB

Sconosciuto: 31 ottobre alla rimessa delle auto. Crow, ti vuole. 

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