Lilla
Capitolo 34
⚠️Attenzione⚠️
Questo capitolo contiene scene molto forti di violenza sulle persone. Scene di sangue e di dolore fisico. È sconsigliata la lettura per le persone deboli.
Si consiglia invece a chi vuole leggerlo di farsi una maschera viso, una tisana calma-mente, e di tenere a bada la rabbia per non disturbare i famigliari e i propri vicini.
"Brindo a te, che mi hai insegnato; anche il più puro dei diavoli può trasformarsi in un angelo feroce, quando ne ha voglia"
Kappa_07
Il cuore mi batteva come un tamburo samoano che preannunciava l’imminente uragano che avrebbe potuto spazzare via un’intera civiltà. Avevo il respiro corto, gli occhi mi pizzicavano, ma non avrei permesso a quei bastardi di vedermi in lacrime. Non avrei più pianto, mai più.
Lessi ancora e ancora, senza fiato, le mani mi tremavano appena e li strinsi in grembo con forza per trattenere il tremore. Sapevo che non era nulla di buono ma, dovevo fare qualcosa. Era un indovinello. Era un cazzo di indovinello e la voglia impellente di curiosare dentro il mio armadietto mi faceva formicolare la spina dorsale.
«Dio, che cosa ci sarà lì dentro?» mi chiese Shon passandosi le mani fra i capelli. Aveva il respiro corto tanto quanto me, le spalle ricurve e gli occhi spalancati.
«Non lo so, ma nulla di buono.» sussurrai.
Ero indecisa se aprirlo o meno e quando vidi uno dei custodi con in mano un secchio blu vuoto, passare dall’altra parte del corridoio diretto verso la mensa mi balenò nel cervello l’idea di chiamarlo. Quando fui lì, lì per farlo, mi fermai. E se ci fosse qualcosa di terribile tipo un serpente?
Ci sono serpenti a Minnesota. Anche se fa freddo, ci sono lo stesso, e molti sono velenosi, non mi sarei mai perdonata se l’avesse morso. La bocca dello stomaco mi si serrò di scatto aprendo un buco fino ai piedi. Cosa dovevo fare?
Fanculo.
I lupi non mi facevano paura.
Alzai la mano, sentivo gli occhi di Shon preformarmi la tempia.
«Non farlo», mi supplicò bisbigliando. Gli altri mi osservavano col fiato sospeso. Sapevo che tutti gli occhi degli studenti dietro di me erano fissi su di me.
Feci un lungo respiro indecisa, eppure non lo ascoltai. Misi il codice e tolsi il lucchetto. Tanto era inutile chiuderlo, pensai: loro erano riusciti ad aprirlo.
Mi tremavano convulsamente le mani e un rivolo di sudore mi imperlò la fronte. Dovevo farlo.
«Allontanati.» dissi a Shon. Esitò. «Sta indietro. Va!» Alzai la voce e nel frattempo un brusio si diffuse in corridoio, le persone stavano bisbigliando.
«Lilla…» gemette con la paura che li deformava la voce.
Fanculo!
La aprì. In un colpo solo lo spalancai e…
«Ahhhh! Aaaaaahhhhh!!!!!» urlai, un urlo che si sveglio dalle mi viscere, percorse lo stomaco, il petto dove vibrò prepotente e si liberò in gola attraverso le corde vocali bruciandomi l’intero corpo.
Gli occhi sbarrati, la paura mi dilaniava il petto.
Il mio armadietto era straripante con degli scorpioni rossi e neri. Velenosissimi tutti ammassati l’uno sull’altro. Sobbalzai indietro urlando ancora con tutto il fiato che avevo in gola quando iniziarono a cadere ai miei piedi.
Gli scorpioni caddero a terra come una cascata di zolfo e iniziarono a sparpagliarsi come se avessero conquistato il pavimento. Erano moltissimi, erano ovunque. Sembrava una scena horror dove io mi trovavo in mezzo a loro, ed ero il loro pasto.
Le lacrime salirono agli occhi e sobbalzai ancora, ma la sensazione di avergli addosso fra i capelli, nella schiena, nel collo, sotto i vestiti mi ghiacciò il sangue e urlai ancora sentendo ogni briciolo di me fracassarsi e bruciare e fare male.
«No! No! Toglietemeli di dosso! Aaaahhh! AIUTO!!!» Urlai mentre indietreggiavo ancora, la bocca dello stomaco serrata, un connato di vomito mi risalii in gola. Sentivo le persone urlare dietro di me è sparpagliarsi ad ogni angolo.
Il cuore batteva forsennata nel mio petto. Ero terrorizzata mentre gli scorpioni si propagavano a una velocità spropositata dappertutto. Sentii porte sbattere, studenti accasciarsi nei corridoi. Sentii la voce del preside che urlava con la saliva alla bocca.
«Chi è stato! Chi è stato? Ludmilla Baker è stata lei? Chi ti ha fatto questo!» esclamò restando sulle scale.
Indietreggiavo, ma mi sentivo il cuore in gola, le corde vocali graffiavano da quanto urlavo. Sentivo di averli addosso e mi misi a togliermi giacca e felpa con le lacrime agli occhi, il corpo mi sussultava e la pelle d’oca mi sembrava agli e code di scorpione che mi mordevano rilasciando il loro veleno.
Il mio sangue era acre, stavo per morire. Sentivo gli studenti mormorare e urlare mentre cercavano di schivare gli scorpioni. Oltretutto erano quelli velenosi. Erano quelli rossi dell’America settentrionale e un loro morso era fatale.
Iniziai a graffiarmi la pelle delle braccia mentre il sangue che mi correva nelle vene mi sembrò i piedi degli scorpioni che mi si infilava sotto pelle. Graffiai la mia pelle. Il respiro mi venne meno, la testa girava, i polmoni serrati. Il sangue e il bruciore delle corde vocali si manifestarono pronti ad annientarmi.
«Lurida puttana lo hai fatto tu. Lo hai fatto di proposito per cacciare i Lupi dalla scuola.» Sentivo la voce di qualcuno dare la colpa a me. Ma non m’importò, stavo degenerando in un attacco di panico. Tutto dentro di me smise di funzionare. I polmoni, la voce, le orecchie. Sentivo solo il cuore battere in gola e nelle orecchie.
Aprii la bocca rovinando a terra, la testa mi girava, il mondo aveva smesso di gravitare, io ero pesante, sentivo il mio corpo come un peso morto. Le lacrime si liberarlo, il dolore acuto alla testa mi massacrava.
«Silenzio! Silenzio!» esclamò il preside. «Attenti agli scorpioni. Sulle scarpe attento! Portatela via! Qualcuno porti via questa ragazza» urlò, ma non riuscivo a muovermi non riuscivo ad ordinare al mio corpo di alzarsi.
Non riuscivo più nemmeno ad urlare.
Vedevo ovunque delle macchie nere davanti agli occhi. Pagliuzza nere, e poi lo fissai. Uno degli scorpioni era fra i miei capelli. Rabbrividii il conato di vomito come una bile pronta in gola.
Tremai.
Il cuore batteva. Batteva incontrollabile nel mio petto mentre ogni mia terminazione nervoso si concentrò su un unico riflesso. Vedere, mettere a fuoco quella coda che si muoveva come una danza sconnessa, il ronzio simile a una nota sconnessa sulla batteria.
L’attimo che precedeva l’attacco sulla mia pelle. Dove mi avrebbe punto? Forse gli occhi, era troppo vicino, magari mi avrebbe attaccato il naso, oppure la guancia.
Tremavo, un urlo mi si era incastrato in gola. Avevo paura. Una paura folle radicata fino alle ossa.
Lo vedovo aggrapparsi alla chioma, la coda a forma di lancia arricciata e rossa in cima si muoveva velocemente pronto per attaccare e rilasciare il veleno. Non ricevevo più ossigeno.
Stavo annaspando. Stavo crollando… stavo scoprendo una nuova soglia del terrore. Tremavo. Poi una mano calò sui miei capelli, qualcuno agguantò lo scorpione con un paio di guanti e i miei polmoni si schiusero appena per permettermi di respirare tanto quanto bastava.
Stavo comunque andando alla deriva. Avevo un attacco di panico in corso. Le dita dei piedi mi formicolarono, e compresi che avevo la pressione a terra, probabilmente ero cadaverica.
Il rimbomba dei miei battiti nelle orecchie mentre cercavo di aprire sempre di più la bocca affamata di ossigeno che alla fine non arrivava mai. Stavo crollando. Sarei morta. Oppure nel migliore dei casi, per sempre indubbiamente traumatizzata.
«Lilla! Andiamo!» non so chi fosse. Forse Shon. Non lo sapevo chi fosse in realtà, ma mi stava scuotendo mentre anche se non lo vedevo, sapevo che c’era il delirio intorno a me.
Erano tanti. Erano tantissimi. Erano moltissimi, forse un centinaio di scorpioni. Tutti ammassati nel mio armadietto. Ed ero stata avvisata. Loro mi avevano avvisata di non aprirlo.
Sentii qualcosa di liquido colpirmi i capelli, poi sentii qualcosa di molliccio abbattersi sulla mia guancia, ma non riuscivo ad ordinare ai miei piedi di alzarsi.
Non avevo ossigeno. Avevo bisogno di ossigeno. Stavo annaspando. La testa mi girava, un conato di vomito pronto per essere riversato a terra.
«Ti prego Lilla andiamo. Ti faranno a pezzi!» quella era la voce di Shon? Sì, sicuramente la sua, era l’unico a cui importava veramente di me. Solo lui poteva avere un timbro d’urgenza intriso nella paura.
Mi senti molle, ma ero in piedi. Capii di essere in piedi, perché avevo le gambe che mi tremavano e la testa mi ciondolava. Pesava dannatamente.
Avevo bisogno di ossigeno.
Gli scorpioni. Uno di loro era nei miei capelli. Forse ne avevo uno anche sotto pelle. Rabbrividii a quel pensiero generato dalla paura vera. Quella del terrore.
«Ti prego Lilla! Ti prego! Ti prego! Reagisci. Dobbiamo andare via da qui!» la sua voce sembrava lontana chilometri, ma ebbi l’impulso di voltarmi verso di lui. Perché era sporco? Quelle erano dei pezzi di ciambella?
Non riuscivo a percepire nulla. Stavo crollando. Poi qualcosa di pesante si schiantò contro la mia schiena mentre Shon mi portava da qualche parte. Non sapevo dove. E un’altra cosa mi c’entro la nuca. Mi bruciò e per un attimo sbattei le palpebre perché fece dannatamente male.
Le braccia mi pesavano moltissimo, ma mi portai la mano dietro e tastai il punto dove mi faceva male mentre Shon diceva qualcosa di incomprensibile. Mi sentivo ubriaca, ma era tutta colpa del fatto che non riuscivo a respirare. Mi guardai la mano.
Sangue? Oh…
Qualcuno mi aveva colpito. Feci un ultimo tentativo alla ricerca di un briciolo di ossigeno, mi faceva male il petto, i polmoni bruciavano, le gambe mi tremavano. Un’altra cosa mi fece dolere la caviglia, rovinai un po’ a terra, incapace di riprendermi.
Caddi a terra rovinando sul pavimento freddo. Gli scorpioni erano sul pavimento. Uno di loro forse era dentro i miei ultimi indumenti. Rabbrividii e ingoiai un conato risalito fino in gola.
“Riprenditi dannazione”
“Dì al tuo corpo di reagire!”
Niente, non riuscivo a smettere di avere un masso nel petto e la testa continuava a girare, e la nuca continuava a bruciare, mi faceva male dappertutto. In sottofondo sentivo degli schiamazzi.
Poi non sentii più il suolo. Stavo volteggiano nell’aria. Qualcuno mi aveva preso in braccio? Chi?
Feci uno sforzo immenso, ma poi incontrai un paio di occhi bellissimi. Avevo lo sguardo perso, ma li riconobbi, erano di un verde bosco acceso seppur adombrati da una preoccupazione palese che gli deformava le sopracciglia.
Lenny. Stavo fra le braccia di Lenny, mentre l’unica cosa che volevo era quella di restare a terra immobile perché così mi sentivo peggio. Stavo per vomitare.
«M-met—» inspirai. «M-mettimi g-giù!»
«Zitta! Lui sta arrivando! Dannazione a te!» mi urlò contro. «Abbiamo combinato un casino…» disse a denti stretti mentre mi trasportava da qualche parte.
Chi stava arrivando? Oh… Il lupo nero?
Lo avevano già rilasciato? Bene, così lo avrei preso a calci in culo io. “Credevo che mantenesse le sue promesse.”
Mi girava tutto.
«I-in b-bagno.» mossi il capo, stavo per perdere i sensi. Sentivo lo stomaco in gola.
“Inspira, espira”.
Respiravo a fatica dovevo uscirne. Ci ero sempre riuscita da sola. Dovevo uscirne.
Quanto tempo era passato? Non lo so una vita forse? Ore? Minuti? Secondi? Ma continuai a stare sempre peggio. Questa era una soglia che non avevo mai superato prima.
«Cazzo, non vomitarmi addosso», disse Lenny, volevo ridergli in faccia. Per quanto facesse schifo, mi sarebbe piaciuto sporcare i suoi abiti da duemila dollari. Se lo meritava.
“inspira, espira”.
Appoggia la testa sul suo petto. Non riuscivo, volevo stare immobile, ma volevo anche le sue mani addosso, erano morbide e mi stringevano forte.
«Portala in bagno, è evidente che sta per vomitare» disse un’altra voce, più cavernosa, più potente. Era Eliot.
«Va a sistemare le cose ci penso io a lei. Lui ci ammazzerà cazzo. Lei sta male…» disse Lenny. Eliot restò in silenzio. Forse se ne era già andato.
Dean. Dov’era Dean? Non l’avevo più visto. Volevo lui. Non Lenny. Lenny mi ricordava quello sciagurato di Caleb. Quello col cuore pieno di melma nera. Il traditore. Quello che era un bugiardo e non manteneva le promesse, anche se diceva che le teneva sempre.
Bugiardo. Bugiardo!
Sentii la guancia umida, una lacrima si liberò dalle ciglia contro la mia volontà. Dean dov’era finito? Se ne era andato? Nonostante il nostro litigio sulle scale, io volevo lui perché era l’unico fra tutti ad essere un mio amico. Lui mi voleva bene.
Perché se ne era andato?
Decisi lo stesso di appoggiare la testa sul suo petto. Era caldo, il cuore gli rimbombava forte. Mi strinse a sé.
«Dannazione. Non credevo che fossi una femminuccia delicata! Dannazione a te e al tuo profumo.» disse a denti stretti mentre mi stringeva a sé sempre più forte. Sembrava aver paura che cadessi. Mi aggrappai a lui. Anche lui aveva un buon profumo. Gli volevo dire che sapeva di bosco. Proprio come quando guardavo i suoi occhi, ma ero troppo arrabbiata per fargli dei complimenti che non si meritava.
Cos’è che ha detto? Mh… che sono una femminuccia. Beh che novità eh.
«Riprenditi strega. Non abbiamo finito con te.» volevo ridere, ma i polmoni non me lo permettevano. Girava tutto. Lenny mi lasciò andare sul water anche se sentii le sue mani carezzarmi la schiena.
Le sue mani.
Caleb. Volevo che mi toccasse lui. Lui mi aveva già calmata una volta. C’era una parte di lui che soffriva proprio come me, e due anime rotte si riconoscevano. Trovavano i pezzi aguzzi e rotti e ci si aggrappavano per restare sospesi e sfuggire al dirupo della sofferenza.
Caleb era in prigione. Dio non riuscivo a respirare nonostante questo il mio cuore sussultò. Era in prigione per colpa mia. Ripensandoci, se lo meritava. Mi aveva fatto del male ancora anche dopo avermi promesso che non l’avrebbe più fatto.
Vomitai liberando le viscere, la testa mi scoppiava, il sudore mi faceva appiccicare la maglietta di cotone che avevo ancora addosso. Vomitare ancora, sentendo la mano di Lenny accarezzarmi la schiena.
"Caleb”
“Sei il mio fottuto ossigeno” mi aveva detto l’altra sera. Dei, quanto avrei voluto risentirglielo dire. Lenny mi accarezzava la schiena e chiusi gli occhi inspirando dalla bocca.
Caleb…
Un po’ di respiro. C’è la potevo fare. Mi accasciai a terra dopo aver tirato lo sciacquone gli occhi chiusi, il respiro corto.
“Sarai mia al tuo diciottesimo”.
Respirai ancora un po’. Il petto mi doleva. La testa girava, lo stomaco era sottosopra. Ma almeno non sentivo più il vomito.
Non stavo più annaspando. Stavo migliorando anche se la voragine nel petto era ancora profonda.
“Sei mia occhi viola, e se vedo qualcuno metterti le mani addosso lo uccido”.
Un altro respiro. Stavo migliorando.
Dio sentivo la voce di Caleb ovunque nella mia testa. Mi stava plasmando. Dovevo scacciarlo. Un’altra boccata d’aria, stavo migliorando.
“Non sei un demone. Tu dei un fiore Violetta. Tu sei la mia ultima dalia nera”. Mi veniva da piangere, ma strinsi forte le mani a pugno. La sua voce, la sua voce era sempre così greve, sempre così autoritaria. Lo odiavo.
“Tu sei un fiore. Sei la mia ultima dalia nera”.
«C’è la fai a stare qui da sola? Caleb sta arrivando e se non lo fermo, se ti vede così. Darà fuoco a questa scuola cazzo!»
Non lo ascoltai ero troppo concentrata a respirare. Gli scorpioni. Chiusi gli occhi, li strinsi forte. Non volevo che mi balenassero nella menta. Il cuore mi scoppiava nel petto. Ma non attese la mia risposta.
Non avrei potuto rispondergli comunque. Ero troppo concentrata a cercare di respirare.
Odiavo me stessa. Odiavo che riuscivo a tranquillizzarmi solo pensando a lui. Odiavo infatti che l’avevo in testa in ogni dannato momento.
Odiavo lui.
No, non lo odiavo. Non lo odiavo affatto. Lo volevo riempire di schiaffi ma...
Smisi di annaspare. Mi concentrai sui battiti del cuore, i polmoni si schiusero e feci un grosso lungo respiro. Stavo bene. Stavo uscendo dall’oblio. Ero stremata.
Mi sciacquai di nuovo la faccia, il collo, mi districai i capelli, avevo addosso solo una maglietta leggera, e iniziai a tremare dal freddo, le orecchie si stapparono riuscivo a sentire tutto il trambusto là fuori.
Dov’era Shon? Volevo lui, avevo bisogno del mio migliore amico. Feci un altro respiro, le gambe mi reggevano. Il mal di testa mi fece pascolare di nuovo ma mi tenni forte alla parete, il freddo mi piaceva, mi tranquillizzava.
Aprii la porta, mi guardai a destra e a sinistra e corsi verso l’uscita sul retro passando per la biblioteca. Erano tutti nel corridoio principale, oppure erano tutti fuori. Ma non mi guardai indietro. Passai di fronte all’aula di chimica, svoltai a sinistra dove c’era la mensa e sorpassai le scale che conducevano agli spogliatoi. La porta era di fronte. Mi fiondai precipitandomi e spinsi la manopola rossa spalancandola. Dovevo andare a casa. Volevo mia zia, volevo stare al sicuro.
La brezza mi spostò i capelli di fronte al viso, li tolsi per vedere oltre, faceva freddo, e io avevo addosso solo una maglietta di cotone, ma non me ne preoccupai. Girai a destra verso l’uscita e sbucai dalla parte sinistra delle aiuole dove gli studenti erano soliti a sedersi nelle giornate di sole. Corsi per un pezzetto, poi mi fermai di scatto, le gambe mi tremarono. Un mucchio di studenti si erano radunati in gruppi. Avevano fatto uscire tutti. Il cuore prese a battere forte nel petto quando qualcuno si voltò e mi vide.
«Eccola è la!» esclamò qualcuno. Il cuore mi finii allo stomaco. «Presto non facciamola scappare. È la nostra occasione!» disse un ragazzo e tutti si fiondarono verso di me.
Un urlo si bloccò in gola e corsi. Corsi per sfuggire a loro, ma ero troppo stanca. Troppo debole. Le lacrime si sprigionarono agli angoli degli occhi ma strinsi forte le mani a pugno conficcandomi le unghie nei palmi per non farli scendere.
Qualcuno mi agguantò per la maglia e mi trascinò indietro. Rovinai a terra, la collisione mi fece mancare il fiato e un dolore acuto mi si riverberò alla spina dorsale, i reni, il respiro, tutto smise di funzionare per una frazione di secondo.
«Bastarda! Volevi farglielo ai lupi eh! Guarda cosa ti facciamo noi a te. Abbiamo il libero accesso a ogni cosa, schifosa. Hai sulla schiena il bersaglio della Dalia nera. Ora capirai che cosa significa.»
Oh mio dio, non riuscivo a respirare. Cercai di rotolare a terra e sfuggirgli issandomi sui gomiti, ma qualcuno mi diede un calcio dritto nelle costole. Vidi le stelle mentre mi si mozzò il fiato. Grugni per il dolore. Un altro mi sputò addosso mentre tentavo di aggrapparmi con le unghie e con i denti al respiro, alla forza delle gambe. A qualcosa che mi saltasse.
“Non cedere”.
“Respira.”
Cercai di nuovo di rialzarmi, ma qualcuno mi afferrò per i capelli. Urlai la cute mi bruciò talmente tanto, come se avessi degli aghi conficcati nel cranio e inarcai la schiena per dare un po’ di sollievo al dolore acuto seguendo la traiettoria.
«Puttana hai messo il lupo nero in prigione, ora noi te lo facciamo pagare.» disse una ragazza. Quella era la voce di una persona che covava rancore, troppo rancore. Senza rendermene conto qualcuno mi diede un altro calcio allo stomaco. Mi morsi le labbra per non urlare dal dolore lancinante al fianco, tossii.
Quella che mi aveva agguantato i capelli mi lasciò, chiusi gli occhi issandomi ancora per rialzarmi, avrei combattuto se necessario. Lo avrei fatto. Qualcun altro mi frustò le gambe con una cintura. Il metallo mi spacco la pelle e non riuscii a trattenermi.
«Ahhhh!» urlai dal dolore insopportabile e le lacrime scesero copiose lungo le mie guance. Mi raschiai a terra, e mi coprì la testa. L’odore del sangue mi raggiunse le narici. Mi stavano torturando e per cosa? Per nulla. Io non avevo fatto niente. Ognuno di loro poteva essere al posto mio. Perché osannavano una persona malvagia? Caleb aveva fatto in modo che loro mi odiassero, lui li aveva spinti a mostrare il peggio.
Qualcun’altra mi diede un calcio. Avevo perso il conto ormai. Tutto era dolore. Sentivo male dappertutto e pensai che sarebbe stato un brutto modo per morire. Io non meritavo di morire.
Qualcuno gettò un’ombra sopra di me e mi trascinò per i capelli per un paio di metri. Conficcai le unghie nell’erba, ma era troppo forte. Un ragazzo si mise di fronte mentre un altro mi trattene i polsi dietro la schiena e iniziò a colpirmi. Mi bruciò la faccia dal lato destro e vidi delle pagliuzze nere. Sentii l’odore d sangue mischiarsi con l’erba bagnata. Avevo un labbro spaccato. O forse un sopracciglio. O forse tutti e due. La saliva si mischiò col sangue. Era ferroso, mi venne da vomitare.
E poi un altro arrivò con una mazza da baseball di fronte a me, mentre quello dietro che mi teneva le mani bisbigliò cose raccapricciante al mio orecchio. Mi venne la pelle d’oca, ma che importanza aveva? Nessuna, non sarei mai uscita viva, e se così fosse stato, sarei morta comunque.
Una parte di me sarebbe morta su quel prato. E allora permisi alle lacrime di uscire. Mi resi conto che erano amiche silenziose che mi cullavano riconoscendo la mia sofferenza.
Il cuore galoppava e galoppava come un cavallo impazzito. Era ingiusto che l’ultimo volto che avrei visto in vita mia fosse quello di uno sconosciuto. Ero arrabbiata, il mio cuore era fatto di cemento in quell’istante e li odiai. Tutti, uno ad uno. Ma sapevo di non poter sfuggire al mio destino. Mi avevano accerchiata. Speravo almeno facessero presto.
Chiusi gli occhi. Il cuore in gola, il petto scosso dagli singhiozzi, dal dolore fisico e psicologico. Pronta per ricevere la grande mazzata. Il ragazzo di fronte a me con la mazza da baseball mi prese il mento fra le dita. Rabbrividii. E mi guardò con una rabbia cieca negli occhi marroni.
E io non riuscivo a capire perché? Perché mi odiavano così tanto? Che cosa gli avevo fatto di male?
Ma ormai non potevo più saperlo.
E pensai a mia zia. Al dolore che le avrebbe procurato la mia morte. Sperai che Rob la confortasse almeno un po’.
«Brutta troia. Pensaci la prossima volta prima di fare delle cazzate. Ora, forse non ti ammazzeremo, ma faremo in modo di spaccarti il cranio almeno un po’. Sono le regole del gioco. Fare del male a colei che ha ricevuto la dalia nera e poi far parte dei lupi. È la regola. Quindi, mi dispiace, ma lo devo fare.» e vidi tutto al rallentatore mi rifiutai di chiudere gli occhi, anche se sarebbe stato meglio.
Ma ero troppo testarda. Troppo orgogliosa. Troppo tutto.
Qualcuno dietro di me non contento mi diede una ginocchiata nella schiena che mi bruciò come se avessero appoggiato un tizzone ardente, e un’altra persona mi tirò di nuovo i capelli strappandomeli dalla testa.
La cute doleva bruciava ma basta dolore. Non mi avrebbero piegata. Io non mi sarei mai fatta sottomettere da nessuno. A costo della vita.
Il ragazzo alzò il braccio, la mazza ben tesa oltre l’orizzonte, aveva gli occhi marroni pieni di rabbia, eppure sembrava che stesse afferrare qualcosa che lo avrebbe completato.
“Ci siamo”.
Fece un respiro dal naso, il suo volto si deformò. E poi calò con tutta la forza che aveva la mazza su di me fu un semplice riflesso. Chiusi gli occhi il tempo necessario di sentirà il dolore, ma non arrivò.
Non arrivò mai.
«Giù le mani da lei o vi stacco la testa dalla spina dorsale!» tuonò una voce roca e potente.
Aprii gli occhi di scatto. Sbattei le palpebre perché dubitavo di essere davvero lucida: Vedevo doppio. Ero distrutta.
Notai un paio di stivali neri, dei jeans scuri e una giacca di pelle altrettanto nera. Il mio cuore ebbe un tonfo. Alzai ancora un poco la testa nonostante mi facesse male ogni movimento, e vidi un cipiglio animalesco che mi faceva venire voglia di scappare e darmela a gambe levate. La mascella serrata, gli occhi grigio-azzurri cupi e ridotti a due fessure, i capelli totalmente scompigliati come se fossero stati al vento. Quelle labbra piene strette in una linea dura, la mascella serrata con quel muscolo fantasma che batteva lungo il suo collo come a sottolineare che era la morte in persona e nessuno avrebbe mai avuto scampo da essa. Mi tremarono le labbra perché volevo urlargli contro e allo stesso tempo abbracciarlo perché aveva appena fermato qualcuno che mi avrebbe condannata.
I suoi occhi non trovarono la mia traiettoria, il petto scostante come se stesse trattenendo la furia che gli contornava il volto. Poi lo vidi scattare. Un semplice e interminabile movimento di gambe e braccia.
Sembrava danzare, una danza oscura e selvaggia che racchiudeva rabbia e dolore. Scattò in avanti prendendo per le spalle il ragazzo e alzò una gamba poi un’altra ruotava con forza per essere piantata sullo stomaco di quello alla sinistra, usava le braccia per colpire con le mani strette a pugno e quel casco nero che aveva in mano flutuava come se fosse l'estensione del suo arto.
«Figlio di puttana!» lo sentì ruggire prima di schiantare il casco in pieno volto al ragazzo della mazza. «Ti scuoio vivo, come un cazzo di coniglio pezzo di merda!» Quello cadde a terra il sangue sgorgava a fiotti dalla sua faccia martoriata: urlò di dolore.
Non riuscivo nemmeno a deglutire dalla scena di fronte a me, poi lo vidi scattare alla mia destra prese quello che mi aveva dato un calcio alle costole e gli fracassò di nuovo la testa contro il casco, l’oggetto si macchiò di sangue e sentii un conato di vomito risalire velocemente lungo l'esofago, chiusi la bocca e lo mandai giù.
«Questo è per averle messo le mani addosso, verme!» Quello cadde a terra con gli occhi chiusi, il sangue che colava sporcando l'erba.
Lenny e Eliot si misero al suo fianco e insieme a lui picchiavano e davano pugni con la rabbia negli occhi e nel sangue a chiunque, seprando ogni studente accalcato in cercio intorno a me. Ad uno ad uno sentii del rantolo, dei versi acuti di dolore, dei piagnistei e vidi di fronte a me diversi ragazzi piombare a terra con il sangue sulla faccia, qualcuno vomitava, un altro si piegò tenendo le mani allo stomaco. Ad un certo punto pensai di aver udito un osso rompersi, ma ero davvero stanca per preoccuparmene, anche quando un urlo di dolore si fece sentire più violento delle grida altrui. «Urla! Urla più forte coglione. Disseta la mia furia!» esclamò Caleb ringhiando prima di sentire l'osso di un naso rotto fare crack.
Trattenni un conato portandomi le mani alla bocca. Non mi ero accorta che avevo le mani libere, eppure i muscoli mi dolevano come se fossi ancora sotto le grinfie di quelle persone. Poi mi voltai, rotolando a terra…
Vidi Caleb prendere a pugni in faccia uno come se fosse un angelo nero vendicatore. Credo fosse quello che mi aveva picchiato con la sua cintura. Non lo so, non ricordavo, ma lo vidi scaraventarlo addosso a un gruppo di ragazzi un po’ più distanti, in volto dipinto la paura viscerale di chi si sentiva minacciato, il lupo li guardò intensamente pronto a scattare da loro.
Poi passò a un altro alla sinistra che si stava alzando in silenzio, gli sferrò un pugno allo stomaco. Quest’ultimo si piegò su sé stesso e Caleb lo aveva preso per il collo e poi per la gamba, scaraventandolo contro il suolo con tutte le sue forze, l'altro gemette di dolore contorcendosi sulla schiena e pianse. Al ragazzo dai tratti scuri non gli importò, sembrava che avesse buttando via la spazzatura e non un ragazzo di settanta chili e passa.
Il volto deformato dalla collera, i pugni insanguinati, aveva abbandonato il casco, ora le sue mani tatuate erano sporche, le nocche cremisi. Altro vomito mi risalii lungo la gola, e mi fu difficile trattenerlo, ero a pezzi. Vomitai sdraita a terra, come un animale ferito e agonizzante, il respiro corto, lo stomaco sottosopra. Piansi in silenzio, per la sofferenza subita, sentivo il sangue mischiato con il mio stesso vomito che mi solletticava le narici e un altro conato mi morse lo stomaco riversandosi a terra. Piansi per lo sforzo, per il dolore e per la sofferenza.
Mi feci forza, e mi spostai rotolando e trascinandomi per i gomiti lontano dallo sporco del mio stesso vomito, mi pulii la bocca col manico della maglietta sporca cercando di capire che cosa stesse facendo quel ragazzo.
«Ucciderò tutti coloro che l'hanno toccata! Le avete messo le mani addosso e io vi rado al suolo l’albero genealogico figli di puttana! Vi è piaciuto fare del male a un innocente? Guardatemi, allora, come piacerà a me mettervi sotto terra uno ad uno!» e poi volarono ancora pugni e un altro ragazzo pianse rovinando a terra machiato di sangue in faccia, col braccio in una posizione innaturale per terra.
Smisi di guardare lui mi faceva paura aveva perso il controllo, sembrava una bestia sguinzagliata per annientare i nemici, o chiunque gli si parava di fronte. Non lo avevo mai visto così, e sentii la vescica cedere, ma strinsi le cosce. Il respiro ormai corto.
Mi faceva una paura viscerale.
Qualcuno arrivò correndo per fermarlo, ma sembrava inarrestabile mentre prendeva a pugni chiunque come se fosse su un ring e si stesse trattando di vita e di morte, ma lui lo spinse via con una forza che mi fece rizzare i peli sulla nuca. «Non toccarmi! Ne ho anche per te. Non toccarmi!» minacciò il suo migliore amico.
Eliot cade a terra puntandogli il dito contro. «Basta Caleb! Lei ha bisogno di cure.» disse guardando nella mia direzione, ma mi girava la testa, così mi rannicchiai chiudendomi a conchilia. Sentivo un dolore lancinante alla costola destra.
Volevo scappare, ma i miei piedi non collaboravano, non riuscivo ad alzarmi. Me lo stavo facendo sotto, era una macchina da guerra. Tirava calci e pugni a chiunque fosse stato lì.
Poi lo vidi sgranando gli occhi incredula. "No, no, no, no. Che cosa stai facendo!"
Prese uno dei ragazzi, quello che aveva la mazza da baseball prima, e lo strinse forte per la gola. Dio, aveva intenzione di soffocarlo?
«Dì le tue ultime preghiere.» lo incitò calmo. Il ragazzo iniziò a boccheggiare. «Lei non si tocca. E tu hai commesso l’errore di fare del male alla MIA DONNA senza il permesso di nessuno!» "Senti da che pulpito viene la predica".
Il ragazzo urlò con tutto il fiato che aveva in gola quando Caleb gli prese il volto a pugni, il suo petto si alzava e si abbassava con scatti, non riusciva a vedere più nessuno.
Era fermo, le mani sempre più strette intorno alla gola del mio quasi esecutore. Non soddisfatto decise di usare la sua faccia come un sacco di boxe prendendolo a pugni ancora. Il sangue iniziò a scendere copioso dal naso, che fece un crack e mi accapponò la pelle. Il ragazzo cercava di liberarsi dibattendosi contro la sua presa ferrea. Il lupo aveva gli occhi sbarrati, la rabbia l'aveva consumato e fatto diventare rosso in volto. Non vedeva altro che il ragazzo di fronte a sé.
Gli spaccò il sopracciglio destro facendogli sgorgare il sangue che gli macchiò le ciglia, quello piagnucolò, e a me si strinse il petto. E non si fermò nemmeno quando il volto del ragazzo era pieno di sangue nemmeno quando i suoi occhi si spalancarono vitrei e il bianco stava diventato rosa. Nemmeno quando le mani e le dita di Caleb si macchiarono del sangue che zampillava, i capillari degli occhi scuri si stavano rompendo e il ragazzo, si mosse convulso per sfuggire alla morte.
«Quando avrai finito di respirare...» disse calmo. Troppo calmo, come se sapesse esattamente ciò che faceva: Rabbrividii.
«Ti pianterò quella mazza in mezzo alla fronte. Proprio fra le sopracciglia. Per assicurarmi che ti sia davvero morto.» concluse imperturbabile.
Sgranai gli occhi terrorizzata. "No, no, no! Ti prego lascialo".
Caleb sembrava aver perso ogni briciolo di autocontrollo e mi sentii sopraffatto dalla paura più pura. Lo avrebbe ucciso. Era pieno di collera. Sentii il ragazzo pregarlo di fermarsi, boccheggiava per un briciolo di ossigeno, ma lui non lo stava ascoltando. Aveva gli occhi sbarrati, pieni di una promessa di morte. Continuava a picchiarlo come se ogni osso e pelle che lacerava fosse una sinfonia che appagava la sua sete di vendetta.
Ebbi un tonfo al cuore, poi qualcosa simile alla lava liquida mi si deposito al ventre che si chiuse di scatto. Sbattei le palpebre, nelle vene il fuoco.
Aveva detto che ero la sua donna? Non l’avevo immaginato vero? L’aveva detto davvero?
Dio, lo stava ammazzando.
No, non gli avrei permesso di buttare via la sua vita così. No!
Mi feci forza, mentre Eliot e Lenny tentavano di liberare dalla morsa di Caleb il ragazzo che aveva il volto paonazzo, gli occhi stavano diventando sempre più viola. Lo stava strangolando, così, in piedi, il ragazzo stava in punta, perché Caleb lo aveva tirato su per il collo con tutte le forze che gli rimanevano.
Vedevo doppio ma mi alzai. Una volta in piedi fui sorretta da Shon, non sapevo quando fosse arrivato di preciso. Forse proprio in quel istante ma mi aggrappai a lui.
«Lo ucciderà Lilla.» mi disse preoccupato.
Deglutii, poi iniziai a liberare il braccio da Shon.
«Caleb, diavolo lo ammazzi così, lascio!» disse Eliot gridando. Lenny gli fece eco aggiungendo: «Devi lasciarlo amico. Hai altri progetti in mente. Non è lui il tuo nemico». Ma Caleb non ascoltò nessuno.
«Bene! Così sarà da lezione per tutti che le donne non si toccano. Lei, non si tocca! Chiunque le ha fatto del male lo pagherà con la vita. Ora!» la sua voce era così calma, così tranquilla che mi terrorizzò, sembrava sapere esattamente ciò che faceva, e la cosa non lo disturbava affatto. Così deciso. Lui era un lupo. Il più temibile della Little Falls. Ma non avrei mai immaginato fino a questo punto.
Mi avvicinai. Vedevo doppio. C’erano due Eliot, due Lenny, e poi c’erano due Caleb. Lenny stava cercando di farlo ragionare, ma lui teneva gli occhi fissi sul ragazzo che mi voleva tirare una mazzata in testa.
«Caleb» alitai, non avevo più voce. Avevo urlato troppo. Le mie corde vocali erano stremate, ma non volevo andargli ancora più vicino. Avevo paura di lui. Mi tremavano le ginocchia.
Avevo sempre avuto paura di lui.
Vedevo che non mollava la presa, stringeva più forte, le gambe del ragazzo cederono, rimase in ginocchio di fronte all’angelo nero vendicatore. Lui non mi stava ascoltando. Non ascoltava più nessuno. Mi aggitai, qualcosa nel mio petto scalpitò. Non poteva ucciderlo. Mi sentii paralizzata dalla rivelazione di fronte ai miei occhi.
Sì, lo avrebbe fatto.
«Cazzo fai qualcosa! Lo ucciderà per te perché gli hai fottuto il cervello, e tu non vali tanto!» Eliot si avvicinò a me, uno degli Eliot in realtà. Penso di aver annuito, non lo so.
«Le uniche persone da incolpare qui, sei tu Eliot. Sei tu...» susurrai con i piedi tremanti.
«Lo so. E me ne farò una ragione. Ma lui non può condannare se stesso fino a questo punto per...» "te" voleva aggiungere ma non lo fece.
Non gli risposi, passo dopo passo, mi avvicinai lentamente, le gambe mi tremavano, eppure Eliot mi tenne per un braccio impedendomi di cadere.
«Per favore...» mi disse deglutendo. «Per favore, non permetterglielo.» i suoi occhi neri come la pece, erano dilatati, aveva la guancia sinistra sporca di sangue, ma sapevo che non era il suo. Rabbrividii ancora, ma annuii.
«Tenterò.» gli dissi.
«T-ti prego…» fece un rantolo il ragazzo col volto paonazzo. Non mi sentivo in pena per lui. Per niente. Ma non avrei mai permesso che Caleb finisse in prigione per colpa mia. Non avrei mai permesso che uccidesse qualcuno per colpa mia.
«Ti prego?» tuonò. «E quando era lei a pregarti? Eh!» chiese Caleb con il respiro sempre più concitato. «Quando era lei a soffrire e a sanguinare, e a piangere…» disse quest’ultima parola col fiato corto. Come se non sopportasse un secondo in più la vista di quel ragazzo.
«No! Niente preghiere. Non quando avete osato toccarla. Ora ti strapperò l'anima proprio come tu hai fatto con...» serrò la mascella di scatto, gli occhi vitrei sul ragazzo.
Li fui di fianco e gli presi il braccio, mi formicolo la mano, i polpastrelli, il suo braccio era d’acciaio.
«Lascialo.» racimolai un briciolo di forza.
«Ti prego lascialo Caleb. Ha imparato la lezione. Ti prego...»
Mi volsi al mio aggressore. A uno dei tanti in realtà. La testa mi doleva e mi girava tutto. Sentivo il vomito risalire di nuovo. «Hai imparato vero? Digli che hai imparato la lezione e non lo farai mai più.»
Il ragazzo mi guardò con gli occhi spalancati annuendo. L’odore del sangue mi solleticò le narici. Stavo per vomitare ancora, ma chiusi la bocca e deglutii velocemente. Il ragazzo oscuro di fronte a me trattene il respiro.
«Lascialo ora.» lo supplicai. Caleb volse lo sguardo verso di me, finalmente. Non lo so cosa vide, ma i suoi occhi cambiarono espressione, quel freddo agghiacciante che c'era un secondo prima scomparve come un incubo di note che scivola via grazie alla luce del sole, e le sue pupille grigio-azzurre si dilatarono, si addolcirono fondendosi in un unico colore che sapeva di cielo e nuovole.
Era il senso di colpa.
Chiuse le palpebre due volte, e poi strinse con forza la mascella. «Per favore, lascialo» ripetei quando non stava mollando la presa. Gli strinsi più forte le dita intorno al braccio d'acciaio.
La sua gola fece su e giù e vidi le sue spalle affossarsi appena. Le sue enormi spalle. Era molto alto da così vicino, lo dimenticavo sempre. E mi faceva paura. Non sapevo gestirlo da arrabbiato. Non così, non lo avevo mai visto così perso. Era temibile, eppure c’era una parte di me che lo stava contemplando.
Una parte di me gli stava parlando, lo stava desiderando così com’era, perché sapevo, che una bestia in gabbia, proprio come lui, era molto peggio costringerlo di restare assopita.
I suoi occhi si addolcirono ancora, e il pomo d’Adamo fece su e giù. Ma alla fine lo lasciò ed io tirai un sospiro di sollievo quando il ragazzo cadde a terra, il macigno sullo stomaco si disolse.
Ci mise pressione sulla sua spalla col braccio teso tenendolo giù e il ragazzo rovinò a terra tenendosi con le mani il collo e tossendo piegandosi in avanti boccheggiando.
Caleb li schiacciò la mano che aveva posato a terra con lo stivale e lui urlò. Un suono acuto che mi fece stringere i denti.
«Chiedile scusa.» tuono calmo. Troppo calmo, come se fosse un calcolatore abile.
Deglutii e mossi il capo con veemenza non volevo le sue scuse. Stavo per crollare. Ero così stanca.
«S-scusa. Aaaa!!» urlò quando Caleb gliela schiacciò facendo attrito e sentii le sue ossa scricchiolare. Mi si rivoltò lo stomaco.
«Non ho sentito.» parlò talmente piano che la sua voce sembrò inquietante nessuno osò rompere quel silenzio.
«T-ti prego scusami. Ti chiedo umilmente scusa. Aaaa»
Strinsi forte le mani a pugno mentre restava a terra e dolorante. «Non a me! A lei. Al mio fiore». Minacciò facendo pressione.
«Ti prego Lilla. Ti chiedo perdono. Ti chiedo perdono...» piagnucolò.
Strinsi le mani a pugno, la testa mi girava. «Scuse accettate.» risposi. Solo perché volevo che Caleb lo lasciasse andare, cristo. Se avesse continuato, gli avrebbe spaccato il polso.
Ma ogni mio ragionevole dubbio si dosolse nel vento, quando lo stivale di Caleb calò con energia sulle dita del ragazzo e il rumore delle ossa che si spezzavano e affondavano nell'erba mi riempii le orecchie. Il suono che emerse dalla gola del ragazzo, sapevo, che sarebbe rimasto per troppo tempo nelle mie orecchie, avrebbe riempito i miei sogni di notte. Mi avrebbe svegliata nel cuore della notte. Era viscerale, intenso di dolore, ma il ragazzo di fianco a me non si preoccupò quando tutte le persone sussultarono e i suoi due migliori amici imprecarono allo stesso tempo.
Tutta la folla era accalcata su di lui. Lo guardavano con timore e rispetto. Qualcuno sembrava terrorizzato.
Persi l’equilibrio per poco, ma lui fulmineo mi prese in vita e mi fece appoggiare al suo corpo.
«Ehi…» disse in quel modo strano e che non gli apparteneva affatto, soprattutto dopo il gesto di pochissimi attimi fa. Sembrava affettuoso, quando era appena stato il terrore fatto uomo.
“Ma chi sei?”
«Finitelo. Spezzateli le mani. Lo voglio sofferente e poi fuori dalla città entro sera. Che sia da ammonito per tutti.», disse con una calma plateale.
Sgranai gli occhi, ma ero troppo debole. Mi stava girando il mondo. Sbattei le palpebre pronta a dirgli di no, che doveva smettere di essere così cattivo, ma il prato verde si mise in orizzontale ed io stavo rovinando a terra.
Stavo per cedere. Dovevo andarmene a casa o avrei perso i sensi su quel prato a breve. Non riuscivo a respirare, mi faceva male dappertutto, tremavo in baglia a spasmi di dolore. Ma sentii il calore del palmo della sua mano quando mi alzò il volto senza lasciarmi toccare terra, una mano mi strinse delicatamente le costole, grugni per il dolore.
«Guardami bimba. Ci sono io adesso okay. Non ti lascerò cadere. Mai più». Disse sussurrando. Mi girava la testa, non riuscivo più a concentrarmi.
«S-sei usc-uscito...» bisbiglia poggiando la testa sul suo petto. Il cuore gli batteva forsennata. Lui rise, una risata leggera che gli scosse il petto. «Credevi che mi avrebbero tenuto lì dentro? Allora non mi conosci affatto se pensi una cosa del genere.»
Annuii, sì, aveva ragione. Forse non lo conoscevo affatto. Mi girava la testa, il dolore si fece più intenso, la gambe mi stavano tremando.
«H-ho paura...»
Caleb mi strinse al suo petto. «Cosa ti ho sempre detto bimba?» mi chiese sorridendo flebilmente.
Oh c’era la fossetta anche sulla guancia sinistra. Quella non l’avevo mai vista prima. Era bellissima. Lui era bellissimo.
Era per caso un sorriso sincero?
«Che con te non sarei mai al sicuro. Che tu mi avresti sempre fatto del male...» sussurrai, ma mi uscii un rantolo di dolore. Non riuscivo a parlare. Avevo la gola secca. Ero stanca. E compresi di non aver mai detto parole più false di quelle.
«Anche», rispose abbassandosi, il suo naso toccò il mio: tratteni il respiro. «Sicuro, bimba...»
Che cosa stava facendo?
Oh…
Mi prese in braccio, e per una volta non opposi resistenza. Ero distrutta.
«Ma quello d’ora in poi vige dal tuo diciottesimo in poi. Per adesso, serie capace di radere al suolo questa fottuta scuola per te. E forse lo farò prima di andarmene».
«Mh…» risposi. Non ero nelle facoltà mentali per capire le sue parole. Avevo bisogno di coricarmi a letto. E domani avrei gestito la situazione. Con tutti, e soprattutto con me stessa.
«Perdonami bimba. Perdonami. Perdonami. Perdonami. Perdonami.» bisbigliava in trance sul mio orecchio. Sentivo la sua voce roca, intrisa di paura. «Tieni gli occhi aperti. Ti prego, fallo per me, voglio vedere quel colore viola. Ti prego Lilla. Tu starai bene e me lo farai pagare. E io ti lascerò infliggermi qualsiasi dolore tu voglia. Però devi aprire gli occhi. Su bimba tieni gli occhi su di me, non chiuderli. Starai bene. Ti prego...». Sentii la sua voce lontana chilometri, era come se fosse qualcuno estremamente disperato che parlava, e non il ragazzo freddo e pronto a uccidere solo pocchi secondi fa.
Forse avevo una commozione perché sentivo il freddo infilarsi nelle mie ossa come un serpente striscia sul suolo.
Poggiai la testa sul suo petto e inalai il profumo di cedro. Profumava sempre di agrumi e lo adorai. Chiusi gli occhi, non mi avrebbe fatto del male. Lui li aveva presi tutti a calci.
Per me.
Ti perdono...
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