Lilla
Capitolo 31
Facciamo ciò che dobbiamo, per sentirci almeno un po' umani.
Cd: Kappa_07
Caleb era appena stato arrestato! Dean aveva fatto arrestare Caleb per colpa mia. Io avevo fatto arrestare Caleb.
Il cuore mio scoppiava nel petto e i polmoni si chiusero di scatto impedendomi di respirare. Guardavo la porta come se da un momento all'altro Caleb stesse per rientrare col suo andamento sicuro e senza i poliziotti al guinzaglio, ma sapevo che era un sogno non realizzabile essendo che era appena uscito con le mani ammanettato dietro la schiena.
Rivolsi lo sguardo di scatto verso Dean che era rimasto sulle scale indifferente a tutto il caos che si era scatenato.
Decisa andai nella sua direzione con le mani strette a pugno. Sentii la voce di Shon chiamarmi dietro ma non mi fermai. Sapere che stava bene era un vero sollievo, ma avevo il veleno della rabbia nel circo e nulla mi avrebbe fermato.
Feci i primi quattro gradini e mi fermai di fronte a lui.
«Che cosa hai fatto!» esclamai sconvolta. Dean mi guardò dall'alto della sua statura mentre faceva un respiro profondo.
«Quello che tu non hai avuto il coraggio di fare. Denunciare Caleb» rispose volgendo lo sguardo altrove. Aggrottai la fronte incredula.
«Non dovevi farlo! È il tuo migliore amico. Davvero vuoi condannarlo in carcere? Non ti avevo detto quelle cose perché tu ti ergessi da giudice e giuria. Avevo solo bisogno di sfogarmi!»
Quale era il mio problema? Perché c'è l'avevo a morte con Dean? Alla fine dei conti aveva fatto ciò che era giusto. Mi aveva difeso.
«Guardati...», disse guardandomi dalla testa ai piedi mentre il mormorare nel corridoio si faceva sempre più grande.
La gente stava commentando incredula, ma non gli diedi importanza. «Guardati Lilla! Sei distrutta. Caleb ha esagerato. Lui doveva essere punito.»
Sentii il petto cessare di battere, poi con la prepotenza di un martello che si abbatteva sul suolo iniziò a pompiere contro la gabbia toracica con insistenza.
«Se non lo fermi ora, ti distruggerà. È il mio migliore amico, sì e gli voglio bene come se fosse mio fratello. Ma devo farlo ragionare. Deve capire che il suo obbiettivo non sei tu. Che fare del male a te non gli ridarà ciò che ha perso».
Deglutii gli aghi che avevo in gola e lo osservai con il respiro corto.
«Non è tua la battaglia tra noi. E sappi che negherò tutto Dean. Tutto. Tu... come hai potuto!» esclamai con le lacrime agli occhi stringendo fortissimo le msni in pugno.
Dean sorrise. Sembrava un sorriso triste il suo. Oppure sembrava convinto di sapere qualcosa che io non sapevo ancora.
«Da quant'è che sei innamorata di lui Lilla?» mi chiese scendendo un gradino.
Chiusi la bocca di scatto. Un dolore accecante mi si riverberò nelle ossa.
"Ti sei innamorato di lui!" mi disse mia zia ieri.
"Da quant'è che sei innamorata di lui Lilla?"
Ero innamorata di Caleb? Nooo, no che non lo ero. Non volevo che lo imprigionassero per colpa mia, certo, ma non ero innamorata di lui.
Strinsi forte le mani a pugno e a fior di labbra risposi: «Io non lo amo!»
Dean fece un ghigno che non gli avevo mai visto prima. Piegò la testa di lato assottigliando i suoi occhi grigi.
«Eppure sei qui a rimproverarmi occhi Viola. Sei qui a condannare me, invece che il tuo stupratore. Quindi mi domando...», fece un respiro, il suo petto ampio sembrò allargarsi. «Se sia tua quella che non sa cosa vuole. Mi domando se in realtà tutto ciò che Caleb ti ha fatto finora: sia stato il mezzo per soffocare i tuoi sentimenti per lui. E le tue lacrime, il tuo rifiutarto costante, non sia solo rabbia repressa perché l'unica cosa che vuoi davvero dal lupo nero, è che ti dimostri... amore.»
Una lacrima mi scese lungo la guancia, e sentii lo stomaco serrarsi come se lui mi avesse dato un pugno in pieno con tutte le forze che aveva. Negai, mentre sentivo le gambe tremare.
Dean scese un passo e io mi sentii soffocare. Non lo volebo vicino. Mi aveva ferita in un modo inequivocabile. «Ti voglio bene Lilla. Tutto quello che ho fatto, non l'ho fatto per odio oppure per ripicca. Semplicemente te l'ho detto. Non meriti di essere trattata in quel modo da lui. Non meriti di avere gli incubi. Non meriti gli attacchi di panico e soprattutto non meriti lo stupro.» Mi sentii caldissima, e la rabbia iniziòa traboccare da ogni poro del mio essere.
"Lui non mi aveva stuprata".
«Perché sei buona e io mi sono giurato di proteggere le persone indifese e buone. Quindi perdonami per aver rotto la tua fiducia nei miei confronti. Ma dovevo farlo».
Rimasi lì ad osservarlo, poteva avere ragione da vendere su tutto. Su ogni cosa. Ma c'era un seme nella mia testa che mi diceva che lui aveva sbagliato, che ora sarei stata nel mirino di Caleb in un modo totalmente nuovo. Ora avrebbe avuto davvero un motivo valido per annientarmi. E, non volevo mandarlo in prigione. Io non potevo.
Con le lacrime agli occhi, scesi le scale e mi diressi spedita al mio armadietto per mollare lo zaino.
«Ehi Lilla!», mi scontrai con Shon, che sembrava ancora dolorante mentre mi osservava incredulo e terrorizzato allo stesso tempo col gli occhi dilatati, le labbra serrate e le spalle ricurve. Mossi il capo convulsamente.
«Io devo andare da lui Shon. Devo fermare questa follia altrimenti...» vidi il mio amico trattenermi per una spalla, ma mi sfila lo zaino e glielo lasciai ai piedi.
«Non andare Lilla. Non andare...», mi supplicò Shon con gli occhi tristi. Ma non lo ascoltai.
«Devo, altrimenti si scatenerà il caos. E tu...» "soffrirai per colpa mia". Mi interruppi, la voce si spezzò all'istante e guardandolo con lo sguardo più dolce che riuscivo ad esprimere, me ne andai.
Uscii dalla porta, scesi i gradini, guardai a destra e a sinistra come per scorgerlo, ma non vidi nessuno, tranne un paio di studenti che stavano animatamente parlando nel cortile gesticolando verso la strada. Col cuore in gola, corsi verso la direzione di Little Falls basso, alla centrale di polizia.
Non sapevo se lo avrebbero trattenuto, non sapevo nulla. Sapevo solo che dovevo dirgli che non ero stata io. Il suo sguardo era qualcosa di terribile ed esprimeva così tante promesse sinistre che, mi dispiacque ammetterlo a me stessa, ma avevo paura. Una folle paura che mi stava corrodendo da dentro e da fuori. E in un modo o nell'altro doveva saperlo.
Corsi per un quarto d'ora, fino ad arrivare al ponte. Mi fermai per riempire i polmoni di ossigeno, e scorsi la diga, l'acqua era strabordante, e sapevo che l'avrebbero liberata da lì a poco. Mi fermai a osservare l'acqua come se fosse la risposta a tutti i miei problemi. E dopo essermi calmata a dovere, ripresi a camminare di nuovo.
Allungai il passo, il freddo di quella mattina mi schiaffeggiava il volto, ma non era sufficiente per farmi desistere dal mio obbiettivo finale. Oltrepassai il parco e per la prima volta in vita mia non mi fermai per sincerarmi se gli animali fossero al sicuro.
Sapevo che era così, tirai dritto fino a superare casa mia e la casa di Shon. Arrivai dopo una buona mezz'ora di fronte al dipartimento della polizia. Mi fermai di colpo. Il cuore prese di nuovo la sua corsa e le mani iniziarono a sudare.
Chiusi gli occhi, mi sciolsi i capelli che avevo raccolto quella mattina e feci un sospiro deciso prima di salire i gradini spedita all'accettazione.
Appena entrai, mi volsi a destra verso il poliziotto che se ne stava dietro lo sportello. Quest'ultimo mi osservò in silenzio per qualche secondo prima di chiedermi che cosa volessi.
«H-hanno appena arrestato un mio... amico. Vorrei vederlo se possibile».
Chiesi mentre mi torturavo le unghie. Sapevo che poteva tranquillamente mandarmi via, ma non avrei mollato. L'uomo brizzolatosi toccò i baffi scuri.
«Chi è il tuo amico?» chiese insospettito con gli occhi marroni socchiusi.
«C-Caleb War», balbettai con un filo di voce. Il poliziotto strinse maggiormente lo sguardo dubbioso.
«Non è possibile vederlo, lo stanno interrogando. Se vuole aspettare fa pure, ma le assicuro che nessuno glielo farà vedere, quindi vuole il mio consiglio?» non attese che gli rispondessi, perché parlo subito dopo. «Se ne vada, tanto quel ragazzo nel giro di mezz'ora sarà fuori di qui».
Deglutii la pallina da pingpong che avevo in gola e richiusi la bocca indecisa sul da farsi. Sospirai, portando i capelli all'indietro.
«Ma io devo vederlo, per favore, mi permetta di vederlo» gli chiesi quasi supplicando.
L'uomo stava per rispondermi ma all'improvviso Lizzy, la donna che mi aveva interrogato soltanto ieri, uscì da una porta e i suoi occhi mi catturarono all'istante.
«Lilla!», esclamò, «Stavo proprio per telefonare a tua zia. Abbiamo bisogno di te per inchiodarlo. Se qui per testimoniare?»
Sgranai gli occhi mentre muovevo il capo con veemenza.
«No, no, sono qui perché voglio vederlo. Fatemelo vedere.»
Lizzy si accigliò. «Lilla, quel ragazzo è accusato di stupro! E tu sei la vittima in questo caso. Ci hanno chiamato questa mattina dicendoci che lui ti stava facendo del male! Non posso fartelo vedere.» Mi strinse il braccio enfatizzando le sue parole. «Sei qui. Quindi testimonia. Non avrai mai più un'altra occasione. Il suo avocato sta arrivando proprio ora. E credimi. Lui uscirà senza il tuo–»
«Voglio vederlo!», esclamai con il cuore a mille. «Per favore. Ho bisogno di parlare con lui. Altrimenti non dirò niente.» le dissi seriamente, anche se ogni mia terminazione nervosa era in collisione. Stavo per crollare.
Il corpo dell'essere umano non era fatto per sopportare così tanto stress addosso. Stavo per impazzire.
Lizzy aggrottò la fronte, sembrava titubante, ma cercai di mostrargli tutta la mia supplica.
«Non testimonierai mai contro di lui vero?» mi chiese arrendendosi. Mossi il capo.
«Dai vieni.», tirai un sospiro di sollievo, mentre mi conduceva lungo il corridoio, superammo diverse porte, prima di svoltare a destra. L'agente si fermò di fronte a una porta grigia chiusa, e il mio stomaco si serrò d'istinto. Avevo il respiro corto ma cercai di darmi una calmata.
Dovevo solo dirgli che non ero stata io sperando che poi mi avrebbe lasciata in pace.
«È qui dentro. Hai solo cinque minuti. E se prova a farti del male sono qui fuori okay.»
Annuii: "Non mi avrebbe fatto del male".
Lizzy estrasse una carta dalla fodera della tasca dei pantaloni e lo striscio sul metallo della maniglia. Quest'ultima si aprì con un semplice click. Rassicurai l'agente annuendo che sarei stata bene, lei mi guardò stringendo le labbra in disappunto e si allontanò appena per farmi entrare.
Appena entrai dentro sentii ogni terminazione nervosa ghiacciarsi e un brivido mi corse lungo la schiena quando lo vidi seduto alla sedia, con le gambe divaricate, la testa era bassa e quei capelli neri come le piume di un corvo, gli ricadevano sulla fronte.
Sentivo l'eco dei miei passi malfermi rimbombare nelle orecchie. Aveva le mani congiunte sopra il tavolo di ferro grigio, e alzò appena il volto per mettermi a fuoco di sbieco.
Deglutii: «N-non sono stata io», bisbigliai mentre sentivo le lacrime racimolare agli angoli degli occhi. Caleb restò muto, mentre mi fissava imperturbabile. La sua metà del volto visibile era una lastra di ghiaccio.
I suoi occhi non esprimevano nulla. Ne rabbia, ne dolore. Niente. Feci un altro passo restando a debita distanza. Sentivo le ginocchia doloranti per via della corsa. Avevo fatto più di cinque miglia a piedi e ora che avevo smesso di far funzionare i muscoli, sentivo ogni tendine teso bruciare.
«N-non volevo...», bisbigliai abbassando la testa per nascondere una lacrima che mi era scesa. Lo ripulì velocemente.
«Ti odio, ma non avrei mai...», mi morsi le labbra per trattenere ogni emozione a bada.
«Siediti» disse col suo timbro potente e perentorio. Deglutii involontariamente guardandolo. Caleb alzò la testa indicando la sedia di fronte a lui con gli occhi azzurri. Tentennai, ma alla fine mi avvicinai lentamente prendendo posto di fronte a lui. Si tirò su mettendosi comodi sulla sedia.
«Perché sei qui?» mi domandò stringendosi nelle spalle e guardandomi con un cipiglio in volto.
Strinsi le cosce sotto il tavolo mentre mi sfregavo le mani contro i jeans.
«Per dirti che non sono stata io a denunciarti», risposi come un automa. Non avevo più alcuna forza. Mi sentivo distrutta.
Lui ghignò facendo un respiro lungo. Il giubbotto di pelle si alzò a quel gesto. Deglutii sbattendo le ciglia.
«Non sono stata io okay. Sono qui per chiederti di non fare del male a Shon, o a chiunque per colpa mia. Ti prego.»
Caleb alzò gli occhi sul soffitto, sospirando rumorosamente. «Perché sei qui Viola?», chiese di nuovo tornando con lo sguardo nel mio. Il respiro mi si fermò in gola.
«Te l'ho detto.» gli dissi abbassando la voce.
«No», mosse il capo per nulla convinto. «Stai dicendo cazzate occhi viola. E se devi dire cazzate a me, è meglio se te ne vai!» parlò serioso.
Il cuore mi giunse in gola e strinsi le mani a pugno per restare calma.
«Te l'ho detto. Sono qui per dirti che non sono stata io! Non c'è un altro motivo».
Caleb si appoggiò alla sedia di ferro e raccolse le mani sul petto. «Allora puoi andare. Vattene!» ogni sua parola era un proiettile intriso nel veleno e poi conficcato nel mio stomaco. Strinsi forte la mascella per la rabbia che mi stava facendo nascere dentro.
«Che cosa vorresti sentirti dire? Che sono qui perché ero preoccupata a morte per te? Per te che non fai altro che rendermi la vita impossibile?» domandai in preda alla rabbia.
Sentivo il petto bruciare, chiusi gli occhi per controllarmi. Lui strinse gli occhi, osservando ogni minima imperfezione del mio volto. Il suo sguardo si illuminò per un istante prima di tornare di nuovo col cipiglio serio.
«Voglio sentirti dire la verità bambina. Dimmi la verità oppure vattene via, perché questa tua affermazione non mi serve a nulla. Lo so che non sei stata tu. L'agente me lo ha detto. Quindi per cosa sei qui?»
Sospirai chiudendo gli occhi. Avevo sbagliato tutto. Non dovevo venire qui.
«Sai cosa ti dico? Va all'inferno.»
Mi alzai di scatto dalla sedia facendola strisciare sul pavimento di marmo. I suoi occhi mi seguirono e mi guardò da sottinsù per nulla convinta.
«Lo sono già. All'inferno intendo. Lo sono già da un pezzo.» esclamò tranquillo. «Ora, il punto è; se tu vuoi venire all'inferno con me oppure no, piccola!» Esclamò imperturbabile mentre continuava a fissarmi in quel modo strano.
Deglutii e aggrottai la fronte. A volte non riuscivo a capire che cosa volesse da me. A volte tutta questa storia, mi sembrava qualcosa di insipido e di incomprensibile. Lui aveva questo potere di essere ambiguo anche quando non lo faceva apposta.
«Ascoltami!» esclamai piegandomi appena verso di lui. «Sono qui, soltanto per sincerarmi che tu non faccia più del male a nessuna delle persone a me care. Non me ne frega nulla dei tuoi demoni interiori, o dei tuoi problemi genitoriali. Voglio essere lasciata in pace. Tutto qui.»
Assottigliò quegli occhi azzurri che per un momento mi sembrarono stanchi. «Va bene, a patto che tu accetti il patto che ti feci sabato. A patto che tu ora, mi dica la verità del perché sei qui.» era talmente calmo che mi diede sui nervi.
Perché diavolo insisteva così tanto con questa storia? Che cosa li cambiava sapere il perché? E per quale motivo non accettava la mia spiegazione! Dannazione a lui e a me per essere così impulsiva da non riuscire a comprendere quando esageravo.
«Che differenza fa? Tanto domani mi torturerai di nuovo». Asserii stringendomi nelle spalle.
Caleb schioccò la lingua. «No, no, no. Abbiamo appena detto che non ti toccherò più. Almeno non prima dei tuoi diciott'anni». Strinse gli occhi per mettermi a fuoco. Avevo le guance che mi avvampavano. Sentivo il calore avvolgermi come una coperta di fiamme.
«Non ho detto che accetto il patto.»
«Ma lo accetti.» rispose prontamente sicuro di sé. Restai zitta. Se significava vendere me stessa per salvare il mio migliore amico lo avrei fatto. Non avevo ancora deciso, ma mi conoscevo. So che lo avrei fatto.
«Ora mi dirai perché sei qui?» domandò quando vide che non gli stavo rispondendo.
«Ero preoccupata!» esclamai di getto. «Io ero preoccupata per te! Lo so che non dovrei perché tu mi hai rovinato la vita, ma è così. E non fraintendere, non lo faccio per chissà che cosa, semplicemente lo so che sei una persona sola Caleb! Perché è così, tu sei solo! E io non potevo accettare di essere la causa della tua prigione. Perché tu...» deglutii chiudendo gli occhi, mentre il cuore mi batteva forte nel petto. «Sei solo Caleb. E stai soffrendo. Non sento compassione, è solo...» portai le mani in aria, incredula di me stessa per ciò che gli stavo dicendo.
«So che hai sofferto da bambino. E non voglio essere un altro demone da sconfiggere nella tua vita. Tutto qui. Sei libero di non credermi se vuoi. Ma non m'importa». Mi strinsi nelle spalle, guardandolo negli occhi.
Caleb aveva il volto in una lastra di ghiaccio. La sua mascella era ben serrata e gli occhi fissi su di me mentre mi contorcevo le mani in un gesto di nervosismo al verosimile. Mi ero massacrato le unghie, sentivo caldo e freddo allo stesso tempo e l'unica cosa che volevo era quello di scappare via da lì.
«Non sei un demone occhi viola. Tu sei un fiore. Tu sei la mia ultima dalia nera». Disse sorridendo con l'angolo della bocca.
«Una volta a Dean ho detto che se qualcuno si azzarda a toccarti, lo avrei ucciso. E sai perché?» mi chiese leccandosi le labbra mentre mi guardava in quel modo strano con gli occhi che brillavano di luce propria.
Mi mancò il fiato, il mio petto si gonfiava a scatti. «Perché sei mia Lilla Baker. Tu sei già, inesorabilmente e fottutamente soltanto, mia.»
«Io non sono di nessuno Caleb. E tantomeno tua.» risposi di getto, per via della rabbia, anche se a questo punto avevo dei grossi dubbi che mi stavano spaccando il cranio a metà. Lui fece una risata amara, il timbro era roco e basso.
«Va bene. Se vuoi continuare a negare, chi sono io per dirti il contrario?»
Aggrottai la fronte confusa. Questo ragazzo mi confondeva, in tutto questo tempo, non aveva fatto altro che cercare di catturarmi in tutti i modi più ambigui che conoscevo, ma ora. Era come se avesse già deciso sul da farsi.
Sembrava stanco morto, mi fermai a osservare il suo volto, e notai le occhiaie che stavano comparendo sotto i suoi occhi, il volto era scavato anche se cercava di sembrare deciso e intimidatorio. Lui era stanco.
«Ora ascolti me invece!» mi avvicinai decisa, ma qualcuno aprì la porta di scatto. Ci voltammo entrambi. Era Lizzy che ci guardò con la fronte aggrottata.
«Lilla devi andartene, è appena arrivato il suo avocato e se non hai deciso di fare ciò che ti ho consigliato, uscirà a breve e potete parlare.»
Caleb deglutì, vidi il suo pomo d'Adamo fare su e giù mentre guardava Lizzy senza mai voltare lo sguardo verso di me.
Annuii in silenzio. E senza rivolgergli più nessuno sguardo, mi avviai alla porta.
Lizzy mi osservò in silenzio, era una domanda muta, oppure un'affermazione il suo sguardo severo, ma non mi preoccupai. Io non lo avrei mai denunciato.
«No! Non ho intenzione di denunciare nessuno. Dal momento che non mi ha fatto niente.» Le dissi decisa.
Lizzy sembrò dispiaciuta, ma rispettò la mia decisione.
«Tua zia è fuori. Ti aspetta.» mi disse indicando l'uscita.
Chiusi gli occhi facendo un respiro profondo e annuendo lasciai la stanza e mi avviai all'uscita.
Una volta fuori, vidi mia zia con indosso un tailleur nero, si stava torturando le mani, ed era in compagnia di Robin. Aggrottai la fronte. Conoscevo quell'uomo, quando ero piccola veniva spesso a casa nostra, lui aveva qualcosa di strano, perché ogni volta mi evitava come la peste. Stavano parlando fra loro ma quando scesi il primo gradino, mia zia si volse verso di me.
La preoccupazione le dipingeva il volto. Aveva gli occhi verdi dilatati, le guance scavate, e si torturava le mani. Mi venne di fronte velocemente facendo i gradini a due quasi. «Amore mio!» esclamò tirandomi in un abbraccio caloroso stringendomi forte. Lo strinsi a mia volta. Chiusi gli occhi cullata fra le sue braccia e mi sentii a casa. Lei era la mia casa.
«Mi dispiace zia.», sussurrai nascondendomi nel suo petto. Lei mi strinse la testa mentre mi dava dei baci sui capelli.
«Piccola mia stai bene? Per cosa ti dispiace?» mi domandò cullandomi.
«Non posso denunciarlo.» sussurrai, sapevo che mi stava ascoltando. Restò muta, ero consapevole che non era d'accordo con la mia decisione, ma per lo meno lo accettava.
«Va bene. Ne usciremo, te lo prometto.»
Non risposi. Ne saremmo uscite? No certo che no, Caleb aveva messo le carte in tavola e aveva deciso. Io sarei stata sua il giorno del mio diciottesimo, che voleva dire tra un anno e due settimane esatte. Forse avrebbe cambiato idea, forse si dimenticherà di me, andrà al college l'anno prossimo, chissà cosa avrà deciso per la sua vita. Ma c'era una voce nella mia testa che mi diceva che lui non avrebbe dimenticato questo patto. Lui aveva scelto così per un tornaconto personale e io ero solo una semplice pedina.
Una pedina che stava iniziando a sentire qualcosa per il ragazzo più cattivo di tutta la città.
Spensi i pensieri, e sciolsi l'abbraccio osservando l'uomo di fianco a mia zia che ci stava guardando in silenzio.
«Ciao», gli dissi.
«Ciao Lilla. Stai bene?», mi domandò aggrottando la fronte. I suoi occhi erano di un intenso blu, sembrava il blu dei ghiacciai. Annuii in silenzio.
«Siete venuti qui insieme?» domandai perplessa.
Perché mia zia era con Rob? Una rotella stava girando nella mia testa.
Le guance di Shannon divennero rosse di un colore talmente acceso, che fui costretta ad alzare un sopracciglio.
«State insieme?» domandai incredula. Ero prossima a una risata isterica. Uno perché mi sarei aspettata di saperlo da mia zia. E due. Beh, era Rob. Cioè, l'uomo più riservato e il più ambiguo della città. Lui aveva un passato torrido, e nessuno al mondo li veniva in mente di rompergli le scatole.
Aveva una fama. Era stato il ragazzo promettente della città di Little Falls, e poi all'improvviso aveva deciso di rintanarsi nella casa in fondo vicino alla diga. Era un mistero, e di certo, non avrei mai immaginato che si mettessero insieme.
Mia zia deglutii, sembrava a disagio.
Feci una risata, per lo stupore.
«Davvero lo scopro così che state insieme?», la pallina che si era dissolta, ritornò in gola, e nel petto sentii l'acido diffondersi per l'amarezza di essere l'ultima al mondo che sapeva le cose.
«E quando avresti avuto l'intenzione di dirmelo?» le domandai con la rabbia nel circolo.
Shannon chiuse gli occhi, come se si aspettasse questa mia azione. «Lilla, ne parleremo. Credimi...», si strinse nelle spalle, in un gesto di autodifesa.
«E quando? Quando deciderete di andare a convivere insieme? Oppure fra due anni, quando me ne andrò al college?» ero arrabbiata? Sul serio?
Non potevo essere semplicemente felice per mia zia? Finalmente aveva trovato qualcuno ed io che facevo? Me la prendevo con lei? Che patetica che ero.
«Lilla ti prego. Ne riparleremo a casa.» disse Shannon dispiaciuta.
Feci un'altra risata isterica. «Certo. Certo. Parliamone a casa.»
«Io la amo». La vice di Rob mi fece fermare i passi all'istante. Avevo un groppo in gola e silenziosamente mi rivolsi a lui. Lo osservai in cagnesco. Perché mi stavo comportando così? Ero gelosa per caso?
Oh mio dio. Sì, ero gelosa di lui.
Sbattei le palpebre e notai mia zia trattenere il fiato e sciogliersi nel sentirlo parlare.
«Per favore Lilla. Dammi la possibilità di dimostrarlo. Io la amo.» disse avvicinandosi a me. Restai col respiro fermò a metà perché la cosa era assai imbarazzata, per di più di fronte alla centrale della polizia.
«Allora dovremmo discuterne Rob!» gli parlai a denti stretti. Notai un sorriso divertito spuntare sulle sue labbra, ma poi li arricciò e annuì per nasconderlo.
Feci un respiro lungo per calmarmi.
Ne avevo passate davvero troppe oggi e il peggio era che erano solo le nove del mattino e dovevo tornare a scuola.
«Se abbiamo finito qui, direi che noi due possiamo andare. Avrei altre occasioni per mettere sotto torchio Rob. Ora fila in macchina.»
Senza dire più nulla, me ne andai verso la Ford. Aprii la portiera ma prima di salire mi rivolsi a Rob.
«Questa domenica ti voglio a casa mia.»
Mia zia alzò gli occhi al cielo e Rob annuì cercando di trattenere un sorriso. «Ai tuoi ordini.» rispose.
Mi morsi l'interno della guancia per non ridergli in faccia ed entrai dentro la macchina.
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