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Lilla

Capitolo 29

“Anche se uno sapesse cosa fare, non saprebbe cosa fare comunque. Non saprebbe se lo vuole fare o no.”

CORMAC MCCARTHY

La vita a volte ci sorprende. In genere la mia vita era sempre stata pragmatica e monotona. Mi svegliavo andavo a scuola, andavo a lavorare, studiavo e dormivo.

Non c’era mai stato niente di interessante a farmi perdere il sonno, oppure farmi perdere la ragione. E ripensandoci, lo adoravo.

Si diceva che; basta che una farfalla battesse le ali e si sarebbe scatenato l’inferno. Ebbene, sicuramente la farfalla che apparteneva a me le aveva decisamente battute quelle dannate e meravigliose ali. Non una volta, ma molte, innumerevoli volte per rivoltarmi la vita sottosopra in pochissimo tempo.

Quale fosse il motivo delle azioni dell’universo nei miei confronti a me era sempre rimasto ignoto. Prendiamo per esempio la morte dei miei genitori, perché quel dannato treno doveva uscire dai binari dodici anni fa? Perché doveva toccare proprio a loro? Perché l’universo aveva deciso di rendermi orfana?

In realtà, non ricordavo nemmeno il volto dei miei genitori per quanto mi facesse male ammetterlo, se non per le foto che conservavo con grande gelosia Non saprei nemmeno dire come fosse fatto mio padre. Gli dei, erano stati molto ingiusti con me.

Ma si diceva che loro giocassero con la vita delle persone gettando una moneta in un pozzo profondo. Per ogni bambino che nasceva al mondo loro la facevano girare e girare, e se da un lato usciva la parte che pesava di più dall’altra c’era quella che doveva essere la mia. Quella vuota, quella che non pesava un granché. Quella che conteneva tutti i mali e le sofferenze del mondo

Doveva sicuramente essere così.
Maledissi gli dei e la loro medaglia del cazzo mentre piangevo rannicchiata nel letto per il dolore inconcepibile della sconfitta. Loro avevano permesso a una persona ignobile di entrare nella mia vita. Di sconvolgermela e di farmi soffrire. Dio santissimo. Avevo uno stalker in pieno giorno! E ora aveva pure deciso di intrufolarsi a casa mia per il suo mero ego senza misura.

Volevo rompergli i denti dalla frustrazione che mi aveva aggrappato il petto dopo ciò che mi aveva fatto. Come se io fossi un mero giocattolo senza sentimenti e facoltà di scelta. Lui, quello stupido lupo che tutti amavano e allo stesso tempo temevano ci era riuscito a fare ciò che più voleva con me.

Lo odiai, e continuai ad odiarlo finché non richiusi gli occhi. Ma più di tutti odiavo me stessa perché sapevo che mi stava entrando in testa, e senza nemmeno volerlo, stava pure prendendo possesso della mia libido.

“Oh, quanto ti è piaciuto Lilla”.

Diedi un pugno fortissimo al cuscino per soffocare la frustrazione e le lacrime che mi rigavano le guance nel vano tentativo di eliminare dalla testa il ricordo della sua bocca nella mia vulva. O del suo grugnito di pura soddisfazione quando venni nella sua bocca calda.

Poi quel patto del cazzo che aveva deciso di fare con me come se fossi una marionetta. Mi veniva da mettermi le mani in testa dalla disperazione. Quel coglione mi aveva messo all’angolo e la cosa mi generava una tristezza e una rabbia cieca. Ma allo stesso tempo, non ci sarebbero stati più problemi in parte.

Shon non sarebbe più preso di mira e io avrei finito la scuola in pace. Mancavano solo otto messi. Otto dannati mesi prima che lui se ne andasse per sempre. Eppure mi sembravano un’infinità. Dovevo pensare a come agire. Ciò che era certo, rimaneva il fatto che mia zia avrebbe fatto di tutto per distruggere Caleb.  E lui allo stesso tempo, avrebbe mandato a puttane tutta la mia vita.
Deglutii odiandolo e mi addormentai soffocando ancora una volta le lacrime.

🟣

Avevo avuto un mal di testa atroce e mi ero svegliata diverse volte la notte urlando. Mi ricordai benissimo i miei incubi, ma decisi di tenere la bocca chiusa, poiché se avessi pronunciato il suo nome a voce alta, sapevo che sarei stata prossima a un attacco di panico.

Mia zia era troppo apprensiva nei miei confronti, tanto da andare al commissariato per denunciare Caleb nonostante i miei vani tentativi di lasciare perdere. Non riusciva a rilassarsi un attimo. E sapevo che aveva preso la decisione di farmi parlare con uno strizzacervelli.

All’inizio ero contraria a tutte e due le cose, ma ripensandoci, dovevo farlo, aldilà della mia libido, o della mia fica pulsante ogni volta che pensavo alla sua bocca, dovevo mettere la parola fine a questa storia. Lui mi avrebbe torturata sempre. E per di più, ero minorenne e lui no, essendo che aveva diciannove anni e io soltanto quasi diciassette tra meno di un mese.  

Quindi sarebbe stato un buon attacco per avere un ordine restrittivo nei suoi confronti. Non avrei mai creduto che l’avrebbero sbattuto in prigione, lui era potente. Ma forse, mi avrebbe lasciata in pace e soprattutto non si sarebbe più fatto vedere a casa mia.

Mentre camminavo con mia zia verso la caserma di polizia, sentii un nodo aggrovigliarmi la gola, e sentivo le gambe farsi sempre più pesanti ad ogni centimetro che facevo. Nella testa il dubbio di stare sbagliando si impossesso di me e la paura che lui potesse in qualche modo farmi del male mentalmente dopo questa decisione mi spezzò in due.

Mia zia dal canto suo, sembrava decisa, i suoi tratti erano neri di rabbia, gli occhi solitamente verdi, erano adombrati e le labbra strette in una linea dura sottolineavano che era su tutte le furie per ciò che successe proprio nel suo studio. Ed era ignara della sera precedente.

Chiusi gli occhi, e un rivolo di sudore mi scese lungo la tempia. Ero agitata, stringevo le mani a pugno per restare calma e per convincere me stessa che nulla mi sarebbe capitata dopo questa decisione. E Caleb stava bluffando.

“Quando mai Caleb bluffa Lilla?” la voce di Dean mi giunse nella corteccia del cervello.
Lui avrebbe saputo gestire la situazione, ma Shannon era irremovibile.

Mi zia, mi rivolse uno sguardo prima torvo, poi i suoi tratti fini e spigolosi si addolcirono. Eravamo ad un passo dalla struttura delle forze dell’ordine e il mio cuore si impennò maggiormente.

«Rilassati, raccontagli ciò che ti ha fatto ieri sera al bar e raccontagli anche di essere stata presa di mira a scuola. Non hai nulla da temere amore mio. È un tuo diritto tutelarti.» mi sorrise dolcemente, ma non aiutò in alcun modo il mio stato di agitazione, stavo respirando a fatica e il cuore mi rimbombava nelle orecchie.

Stavo facendo bene? Caleb doveva essere denunciato? Mi importava di lui? Avrei rovinato per sempre la mia amicizia con Dean se l’avessi fatto?

Avevo sempre messo in primo posto il bene degli altri, e per quanto mi faceva schifo ammetterlo, ero stufa. Stufa di essere trattata come un oggetto, stufa di essere perseguitata, stufa di svegliarmi la notte con le urla perché tutto ciò che sognavo era Caleb che mi faceva del male, mi portava all’esaurimento nervoso e mi strappava anche l’ultimo briciolo di buonsenso.

Feci un lungo respiro annuendo con la testa. Sì, forse Dean si sarebbe arrabbiato, ma per una cazzo di volta, volevo mettere me stessa al primo posto. Fanculo Caleb.

«Ce la posso fare.» bisbigliai deglutendo. Mia zia mi accarezzò la guancia e annuendo un paio di volte entrò dentro la caserma ed io la seguì in silenzio. Ad ogni passo, il marmo scuro della caserma mi faceva accorciare il respiro, il freddo delle stanze mi strisciò sottopelle e ogni paio di occhi che mi mettevano a fuoco, mi facevano impennare i battiti del cuore.

Stavo soffocando, vedere tutte quelle persone vestite in divisa, che mi fissavano e mi seguivano ad ogni passo mi mettevano in soggezione. Strinsi forte le mani a pugno, facendomi piccola incurvando le spalle.

Abbassai la testa e seguii mia zia, quando una donna ci venne di fronte.

«Shannon, cosa ci fai qui?», le domandò l’agente fermandosi proprio di fronte, mi scrutò appena coi suoi occhi neri prima di voltarsi di nuovo verso mia zia.

«Ho bisogno di parlarti Lizzy», le disse mia zia indicandomi.
L’agente annuì aggrottando la fronte, e si volse verso un ufficio con le vetrate trasparenti.

«Venite.» lo seguimmo in silenzio su una stanza a destra dove c’era un tavolo in mezzo e delle sedie, tre in totale.

La stanza era piccola e il tavolo di ferro aveva degli agganci per le manette in centro. Un nodo mi strinse la gola. I piedi erano ben saldati a terra con dei bulloni enormi e i muri grigi e tetri mi fecero soffocare il respiro. Mia zia prese posto su di una sedia e mi invitò a fare lo stesso. Mi stavano tremando le ginocchia e il cuore batteva impazzito.

Volevo farlo? Se lo meritava certo, ma dopo ciò che mi aveva confessato ieri sera e dopo avermi proposto un patto decisamente svantaggioso per me, potevo non prenderlo in considerazione? Era brutto sentirsi prigionieri e da un lato lo ero, perché Caleb è sempre stato astuto ma dall’altra parte, mia zia non avrebbe accettato di restare a guardare.

Lizzy prese posto di fronte a noi, i suoi occhi scuri mi trafissero come se sapesse bene di cosa avremmo parlato. Possibile che la zia avesse già raccontato tutto a lei? Sapevo che erano amiche perché l’avevo vista un paio di volte al Wolves con dei suoi colleghi, ma arrivare anche a chiamarla per telefono?

«ciao Ludmilla, vorrei che tu mi raccontassi tutto.»
Il torace mi stava schiacciando le vie respiratorie e la testa mi pesava come un macigno nelle spalle. Mi pulii le mani sudate nei jeans.

«Io…», non riuscivo ad emettere fiato, era come se stessi per commettere un errore imperdonabile. Volevo davvero sbatterlo in prigione? Quali sarebbero state le conseguenze?

Dio, mi stava scoppiando la testa e il sudore mi aveva bagnato la canotta sotto il maglione.

«Dì ciò che è successo nel mio ufficio Lilla. Raccontale tutto.» mi spronò mia zia.
Volsi lo sguardo con veemenza nella sua direzione sgranando lo sguardo. Aveva le sopracciglia aggrottate. Come anche Lizzy. Entrambe sapevano tutto. Decisamente si erano parlate.

«Io...» deglutii di nuovo, sentivo la gola secca e il cuore rimbombare nelle orecchie, mi strinsi lo stomaco che si contorceva con una mano come a placare la sensazione brutta che mi stava attraversando il corpo.

«Caleb War la stava per stuprare.», disse mia zia, la sua voce mi arrivò ovattata e sgranai lo sguardo, in preda al panico.

“No, no, no, no”.

«Dimmelo Lilla ho bisogno di sentirlo dalla tua bocca, altrimenti non potremo avere un mandato»

Il petto mi doleva, le orecchie mi fischiavano e la paura si impossessò di me.

“Non è cattivo, lui non è cattivo!”

cercavo di convincermi, mentre l’attacco di panico si arrampicava sempre di più fino al mio petto bloccandomi le vie respiratorie.

«Amore, rilassati, stai calma», sentivo mia zia consolarmi anche se stavo boccheggiando.

«Lui non ti potrà fare più niente…».  Disse Lizzy, alzai lo sguardo su di lei e negai col capo in preda al delirio.  «Una denuncia di stupro è un accusa grave e stanne certa che anche se riuscirà comunque ad uscire di pigione, faremmo il possibile per trattenerlo.»

Dio, stavo uscendo fuori di testa, mi doleva il petto e avevo il respiro bloccato in gola. Sentivo tutto in slowmotion  e l’unica cosa che volevo era andare via da lì.

Mi alzai di scatto dalla sedia fredda, gli occhi di mia zia si dilatarono nel vedere il gesto convulso che avevo fatto e Lizzy restò ferma a osservarmi imperturbabile.

«Lilla!», esclamò incredula. Negai con veemenza, come se bastasse solo lo sguardo per farle capire il turbinio di emozioni che sentivo dentro.

«Tu devi denunciarlo!.» si impose. Sgrani lo sguardo mentre respiravo a fatica. Il petto mi doleva e l’attacco di panico era imminente. Negando per l’ennesima volta presi a correre.

«Lilla!», esclamò mia zia, ma corsi, corsi più che potei. Uscì dal corridoio stretto a dove ero arrivata, passai di fronte agli altri agenti che non smisero di guardarmi, spinsi la porta d’ingresso e corsi, corsi fino a non avere fiato svoltando a sinistra verso il parco dove c’era Lucciola.

Me ne andai, correvo e piangevo dalla disperazione, dal fatto che qualsiasi cosa io avessi potuto fare si sarebbe ritorto contro di me. Corsi perche l’idea di vederlo in prigione mi faceva vomitare, corsi perché ieri notte lo sognavo, sognavo le sue parole del cazzo e sognavo lui prostrato ai miei piedi.

Corsi, continuai a correre rifiutandomi di voltarmi indietro per vedere se qualcuno mi stesse inseguendo. La città mi sfrecciava davanti, ma non riuscivo ad alzare la testa dai miei piedi e in fine raggiunsi il parco.

Ero senza fiato, i polmoni ben serrati che implorano ossigeno le ginocchia mi tremavano.
Volevo solo restare da sola.

Mi addentrai nel parco e seguii il sentiero a destra dove io e Shon avevamo costruito una casetta di legno a Lucciola, mi ripulii le lacrime che continuavano a scendere copiose quando la gattina miagolo.

Mi fermai di botto. Non era sola. La mia gattina non era da sola, ma si trovava in braccio a un uomo che non avevo mai visto prima d’ora. Aveva I tratti duri, un volto che non lasciava trapelare nulla e indossava jeans e camicia scura. I capelli erano di un colore rosso e abbastanza lunghi da essere raccolti in una coda. Mi guardò.

Aveva un occhio marrone e un occhio verde. Era, bello e inquietante allo stesso modo. La gattina, miagolo di nuovo, e scappò dal suo braccio. O forse fu lui a lasciarla andare, venne nella mia direzione e tenendo gli occhi ben piantati nei suoi mi accucciai e presi in braccio Lucciola che si adagio perfettamente.

«È suo il gatto?» aveva la voce roca e un timbro potente. Mi scrutava in continuazione.

Annuii. «Chi è lei, perché teneva in braccio la mia gatta?»

L’uomo sorrise infilando una mano nella tasca dei jeans. «Ho visto una casetta lì...» mi indicò l’albero di pioppo dove avevamo costruito la casa di Lucciola. «Ci sono altri gattini neonati. Lo hai costruita tu?»

Deglutii, e annuì di nuovo.
«Stavo passeggiando e ho visto il gatto che mi venne di fronte. Forse in cerca di cibo, poi ho visto la casetta. Non temere, ero solo curioso di cosa ci facesse una casetta in mezzo al parco.» disse sorridendo.

«Ci sono altre casette, ma molti gatti sono stati adottati.» gli dissi.

L’uomo sorrise lievemente. Il suo occhi marrone sembrava cambiare colore per via del sole. Erano incredibili.
«Allora se mi capiterà passare di nuovo da queste parti porterò qualcosa da mangiare ai tuoi gattini», disse prima di voltarsi e andarsene.

Deglutii di nuovo e lo osservai scomparire oltre il sentiero a sinistra adiacente alla strada.
La tristezza e la rabbia tornarono a galla di nuovo. Avevo lasciato mia zia in commissariato…
Non avevo avuto le palle per denunciarlo e questo era l’ennesima conferma del potere che esercitava in me.

Strinsi forte la gatta e una lacrima mi scivolo giù per la guancia.
«Cosa devo fare Lucciola? Ti prego dimmelo.» parlai con l’animale come se potesse veramente rispondermi.

La lasciai andare e mi avvicinai ai gattini meravigliosi che stavano dormendo. Erano stupendi, e la voglia di portarli a casa ultimamente era troppo forte. Per ogni gattino avevamo messo dei fiocchetti colorati. Blu, azzurro e rosso per i tre maschietti. Viola e rosa per le due femminucce.

Li accarezzai uno ad uno e senza indugiare oltre, mi voltai a sinistra dove avevamo nascosto le crocchette per Lucciola, tolsi la pietra che faceva da camuffamento, la pianta falsa sopra e presi una manciata per darglielo. Avevo il cuore a pezzi e la frustrazione mi spaccava a metà, ma non volevo e soprattutto non potevo denunciarlo. Lui mi avrebbe rovinato la vita. E di questo non c’erano dubbi.

Restai fuori per tutta la mattina, sapevo cosa mi sarebbe aspettato una volta a casa. Shannon non me l’avrebbe fatta passare liscia. Mi sdraiai su una panchina nel parco, non avevo più nessuna forza, i pensieri erano in tumulto, la testa mi faceva male e le gambe mi dolevano per la corsa che avevo fatto.

Strinsi forte il legno della panchina, tanto da sentire diverse schegge conficcarsi nel palmo e sbuffai con i sentimenti in tumulto. Dovevo andare a casa. In un modo o nell’altro dovevo subire ciò che mia zia aveva da dire. Era inutile tergiversare e perdere tempo.

Feci la strada a piedi, senza correre stavolta, avevo caldo e il respiro mi si bloccava in gola ad ogni passo che facevo, ma non volevo pensare a Caleb, e al suo patto del cavolo. Almeno per il momento volevo avere la capacità di erigere una barriera per i miei molteplici pensieri senza fine.

Una volta a casa, rientrai in giardino, la Ford era parcheggiata nel vialetto e sapevo che avrei dovuto dare delle spiegazioni a mia zia. Ma cosa le dovevo dire? Non lo sapevo neppure io. Quando rientrai in casa trovai mia zia in cucina, si stava facendo un thè. L’acqua bolliva sotto la fiamma del gas producendo del vapore che fuoriusciva dalle bocchette. Mia zia stava osservando fuori dalla finestra, sembra in sovrappensiero. Deglutii facendo un passo in avanti mentre mi mangiavo le unghie per l’agitazione.

«Sei tornata», disse col timbro deciso. Aveva le spalle teste, si volse verso di me e mi trapasso col suo sguardo verde boschivo.

Annuii senza avere il coraggio di proferire parola.
«Mi spieghi che cosa ti è preso in commissariato?» Mi domandò poggiando le mani sulla penisola del balcone.

Deglutii di nuovo, mi sentivo la gola arida, era come se avessi ingoiato mille aghi che si erano incastrati nell’esofago. Aprii e richiusi la bocca restando muta e ferma.

«Ti sei innamorata di lui»? La sua era una constatazione più che una vera domanda e mi mandò il cervello in pappa. Come cazzo riusciva anche solo immaginare una cosa del genere.

«No, certo che no! Io lo odio!», alzai il tono della voce. Mia zia assottigliò lo sguardo.

«Risparmiami le tue bugie del cazzo Lilla!» La sua voce dura e sprezzante era un coltello conficcato nel mio petto già sanguinante. Mi mortificò il fatto che lei non ci credeva e il groppo che sentivo in gola si fece più grosso.

«Non ti sto dicendo una bugia.» le dissi sostenendo il suo sguardo. Lei fece una risata ironica e sospirò voltandosi verso i fornelli per spegnere il bollitore.

«Facciamo il punto della situazione ti va?», disse prendendolo in mano e versando l’acqua nella tazza che aveva preparato. Una volta riempito si volse verso di me appoggiandosi al bancone.

«Siediti.» mi ordinò indicando la sedia di fronte. Non osai a ribellarmi. I suoi occhi mi inchiodarono al posto, la feci strisciare e mi sedetti sulla sedia di legno fredda di fronte al tavolo. Gli occhi sempre fissi nei suoi.

«Un giorno sei venuta a casa ricoperta di salsa di pomodoro, giusto?» anche stavolta era una domanda retorica, ma annuii convenendo con lei. Strinsi forte la sedia fino a sbiancare le nocche.

«Poi un’altra volta sei arrivata a casa in tutta fretta, ti sei intrufolata nella tua stanza e mi hai evitata per tutto il giorno corretto?».

Annuii di nuovo. Era stata quella volta che Dean mi aveva dato la sua camicia dopo la bravata di quelle ragazze.

«E poi c’è stato venerdì che hai dormito da lui. Ti ha toccata?» domandò serissima con le sopracciglia piegate e lo sguardo severo.

Sentii la pelle bruciare, e questa specie di interrogatorio mi diede sui nervi. Mi alzai di scatto. Mi sentivo umiliata dalla mia stessa famiglia.

«Zia! No!» mentii spudoratamente.

Shannon strinse gli occhi per mettermi a fuoco e le sue labbra sempre piene e a forma di cuoricino divennero una linea dura.

«Sai che c’è, non mi va di subire un quarto grado da parte tua!» esclamai a mia volta.

Shannon depose la tazza che aveva in mano, sul bancone e ai avvicinò ordinando di sedermi. Tentennai titubante. Che cosa stava facendo?

«E ieri sera, ti trovo nel mio ufficio legata per le mani e con un attacco di panico in corso e pensa un po’, eri con Caleb War!» alzò la voce sul finale. «Quindi dimmi Lilla, perché oggi tu non lo hai denunciato?» si passò le mani fra i capelli.
«Spiegami per che cazzo tu non hai detto alla polizia che lui ti sta molestando sessualmente e se ieri sera io non fossi tornata nel mio ufficio, avrebbe fatto quello che io ho interrotto! Spiegamelo!» mi urlò contro.

Le lacrime salirono in superficie e sentii le viscere tremare. In quasi diciassette anni di vita, non avevo mai e dico mai visto mia zia perdere il controllo come in quel momento. Strinsi di nuovo forte gli angoli della sedia. Non sapevo cosa risponderle. Se svuotavo il sacco sapevo che ci sarebbero state conseguenze disastrose per entrambe le parti. Conoscevo mia zia. Non aveva mai permesso a nessuno di trattarmi male. Era sempre stata estremamente protettiva nei miei confronti. Sempre.

«Parla Lilla!» mi incalzò poggiando le mani sopra il tavolo e piegandosi appena sopra di me.
«Voglio che tu mi dica tutto. Ogni cosa, ogni sotterfugio. Ogni volta che lui o altri l’abbiano presa con te. Raccontami tutto!»

Sentivo il collo andare in fiamme e lo stomaco stringersi a morsi a causa della pressione che stava avendo su di me. Raccontare tutto, non era contemplato. In assoluto no. Se lei avesse saputo della scommessa, del gioco, del fottuto patto di ieri sera, avrebbe fatto in modo che Caleb marcisse in prigione. Ma avrebbe fallito. Lui era un nemico troppo potente pure per mia zia.

«Non c’è niente da dire, ora lasciami in pace!» esclamai alzandomi dal tavolo, la testa mi stava scoppiando ed ero prossima a un crollo nervoso. Feci le scale fino alla porta della mia stanza e mi rinchiusi dentro. Sentivo i passi di Shannon dietro di me mentre inveiva contro.

«Sei innamorata di lui! Come hai potuto. È un pazzo!» bussò un paio di volte ma avevo chiuso a chiave.

«Lilla parliamone okay, scusami non volevo essere dura con te, ma dobbiamo fermarlo. Lilla…» bussò ancora.

Mi coprì le orecchie travolta da una disperazione che mi aveva afferrato il petto e seduta per terra dove lui c’era stato ieri sera piansi, piansi dal dolore che mi dilaniava il petto, piansi perché ero un impotente del cazzo e piansi perché mia zia credeva una cosa non vera e ne era piuttosto convinta.

«Io non lo amo, io non lo amo. Io non amo Caleb.» canticchiavo mentre mi dondolavo avanti e indietro disperatamente con le lacrime salate che mi velavano gli occhi. Sentivo male dappertutto. Mi sentivo inadeguata e il cuore rimbombava nella cassa toracica con forza.

«Lilla ti prego perdonami.» disse Shannon attraverso la porta. «Ti prego piccola perdonami. Sono solo troppo apprensiva tutto qui.» parlò ancora. La sua voce era flebile e disperata.

Mi rannicchiai ai piedi del letto con le ginocchia stretta al petto e cercai di calmarmi. Mi sentivo come se fossi stata investita da un treno. Stanca e mi faceva male tutto.

«Sto bene» risposi, ma fu più un sussurro.

«Starò qui. Quando vorrai parlarmi ci sarò…», disse prima di sentire le scale scricchiolare.

Mi alzai reggendomi al bordo del letto e mi issai su, sotto le coperte. Mi sentivo a pezzi e l’unica cosa che volevo era restare fuori dal mondo. Avevo bisogno di spegnere la mente e di non pensare più a nulla.

🌺

Mi risvegliai di soprassalto. Il mio cellulare stava facendo un baccano insopportabile. Tastai con gli occhi semi aperti il comodino nel vanno tentativo di raggiungere alla prima il telefono dalla suoneria infernale e dopo mille imprecazioni lo presi. Senza nemmeno vedere chi fosse lo portai all’orecchio.

«Lilla ma che cazzo è un’ora che ti chiamo!»

Dovetti allontanare il telefono perché la voce squillante e arrabbiata di Shon mi stava rompendo i timpani.

Sbuffai dando un’occhiata all’orologio del telefono. Erano le sette e mezza di sera. Avevo dormito per tutto il giorno. Mi tirai su di scatto.

«Che cosa è successo? Stavo dormendo.» gli dissi sbadigliando.

«Devo raccontarti una cosa.» disse.
Assottigliai lo sguardo, annuendo come se potesse vedermi. «Lilla?» mi chiamò il mio amico.

«Sì sono qui. Che cosa è successo ora?»

«Ho due notizie e so per certo che una ti elettrizzerà. Anche la seconda… forse.» abbassò la voce come se stesse meditando se sarebbe così oppure no.

Feci un respiro profondo e mi alzai per aprire la porta. Avevo una sete da matti e il bisogno di andare a fare pipì. Così misi in attesa Shon che aspettò di buon grado.

Mi accorsi che in casa non c’era nessuno a parte me, dedussi che mia zia fosse andata al Wolves. Mi rattristii immensamente questa situazione tra me e lei, ma avrei pensato a qualcosa prima di domattina.

«Eccomi ci sono.», gli dissi.

Sospirò: «Finalmente.  Ora ti racconto una. Hai presente i magazzini abbandonati che costeggiano il fiume della città?» domandò in attesa della mia risposta. «Ecco, li hanno demoliti tutti. E sai cosa stanno facendo?» la sua voce era un tripudio di emozioni.
«No, cosa?.» domandai aggrottando la fronte mentre aprivo il frigo.

«Hanno intenzione di fare un rifugio per gli animali abbandonati Lilla!» esclamò entusiasta. Mi sorpresi di colpo.

«Cosa? Davvero?» domandai felicissima di questa notizia.

«Sì, e sai che cosa stanno facendo? Stanno cercando personale. Oh Lilla Baker credo proprio che il tuo sogno si sta avverando.», disse contento.

Sorrisi, amavo gli animali, perché tutto il bene del mondo si nascondeva nei loro occhi, e nelle loro gesta.

«Davvero? Dici che prenderebbero in considerazione la mia candidatura?» domandai sorridendo.

«Assolutamente, ne sono convintissimo e per di più ti dirò. Col blog siamo pure riusciti a dare in affidamento tanti gatti giusto? Magari se sapessero che lotti contro l’abbandono degli animali ti prenderebbero ad occhi chiusi.»

Un moto di agitazione mi acchiappò il petto. E se invece non mi prendessero? Dio avrei dato un braccio per poter lavorare lì fino al diploma.

«Speriamo. Ma quel terreno è vastissimo, avrebbero potuto fare uno zoo, peccato.» gli dissi al mio amico mentre tiravo fuori dal frigo del formaggio e del miele. Presi una fetta di pane dal cestino nella mensola a sinistra, aprii il tappo del miele e mi posizionai meglio il telefono all’orecchio.

«Forse lo faranno, chi lo sa. Per ora è questo che si dice in giro.» aggiunse.

Annuii di nuovo, mi tagliai un pezzo di formaggio e lo misi in bocca.

«E la seconda cosa?» domandai con la bocca impastata.

Shon attese qualche secondo. Aggrottai la fronte perplessa. «Penelope mi ha mandato la richiesta di amicizia e quando l’ho accettato mi scrisse un messaggio…» non sembrava per nulla felice di questa notizia.

Stava succedendo qualcosa al mio migliore amico, e il fatto che lui non sentisse il bisogno di dirmelo mi uccideva. Qualsiasi cosa fosse stato, sapeva che sarei stata sempre accanto, ma non volevo forzarlo.

«Cosa c’è Shon?.» chiesi udendo solo il silenzio dall’altra parte.

«Nulla, nulla. Mi ha fatto piacere. Mi ha chiesto se usciamo una sera. In realtà ci ha invitati tutti e due a casa sua.» disse.
Alzai le sopracciglia mentre mordevo la crosta di pane con sopra il miele.

«Anche io? Perché? Non siamo poi così amiche.» gli dissi masticando.

«Non saprei, ma hai ragione. Comunque a me sembra troppo una brava ragazza per usare casa sua per una trappola da parte dei lupi. Tu lo sai di quale casa stiamo parlando vero.»?

“Ecco che ci risiamo, lupi, lupi, lupi. Caleb.”

Mi strozzai con una briciola di pane e tossii fino all’infinito. Mi bruciò la gola e piansi lacrime di dolore. Brevetti un goccio d’acqua per calmarmi mentre Shon si preoccupava per la mia salute.

«S-sto bene.», gli risposi dopo essermi calmata. «Mi è andata una briciola di pane di traverso.»

«Accidenti, per un momento ho pensato di averti persa per sempre.» mi sbeffeggia Shon. Al che io li faccio il dito medio, ma so che non poteva vederlo.

«Ah, ah ha. Divertente.» risposi ironica.

«Va tutto bene?» Mi domandò di getto.

«Sì, tranquillo, sto bene.» risposi sospirando.

“non va bene per un cazzo”.

«Domani mattina aspettami fuori casa. Verrò a prenderti in macchina.»

Sorrisi: «Bene bene beneeee. Finalmente». Dopo aver scherzato per un po’ con Shon e della sua nuova macchina richiusi la telefonata. Mangiai e mi feci una doccia veloce, non volevo andare al Wolves, ma di sicuro avrei aspettato mia zia sveglia. Avevo bisogno di parlarle e di dirle che non c’era da preoccuparsi. Avevo preso la decisione di subire in silenzio da adesso in poi, ma non gli avrei mai dato la soddisfazione a Caleb di sottomettermi.

All’improvviso sentii dei rumori strani fuori in giardino, sgrani gli occhi, e la paura mi si manifestò nelle più profonde delle mie viscere. Diversi ululati mi spaccarono i timpani.

Raggelai.

I lupi!

Una volta destata dall’impulso di non avere le facoltà per muovermi corsi fino alla porta e la sbarrai avevo il cuore in gola mentre un baccano insopportabile si manifestava dalle marmitte delle loro moto sulla strada.

Salii fino alla mia camera e chiusi la portafinestra sbarrandola completamente. Dio, avevano deciso di perseguitarmi.

Una volta assicurata la casa rimasi dietro la porta d’ingresso con il sangue che pompava nelle mie vene ad un ritmo da cardiopatia. Stavo per svenire. L’attesa, gli ululati, il rumore delle moto. Il tutto, mi stava portando ad avere un collasso nervoso. Mi tappai le orecchie e mi rannicchiai vicino alla porta.
La paura strisciava sottopelle come un dannato veleno che mi corrodeva dall’interno.

Poi all’improvviso tutto cessò. Gli ululati sparirono e uno ad uno, il rumore delle marmitte scomparve altrove. Mi alzai titubante, avevo le ginocchia che mi tremavano, tolsi la sbarra della porta e salii fino in camera con un solo pensiero fisso.

Caleb War, ti fotteva, in un modo o nell’altro.

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