Caleb
Capitolo 5
●Il peggior modo di sentire la mancanza di qualcuno è esserci seduto accanto e sapere che non l'avrai mai.●
Avevo pensato tutta la notte a cosa fare con quella ninfea dagli occhi viola.
Sapevo solo che mi aveva mandato fuori di testa quella sera, avevo avuto il cazzo duro come una roccia e meno male che c'era stata Mess che mi diede un po di sollievo. Me lo sono fatto succhiare alla grande dalla mia chery preferita.
Però, il fatto sta, che mentre la sua bocca avvolgeva la mia asta per lungo e lo leccava con voracità, nella mia testa si palesò un capo dai colori arancioni, e due labbra soffici da pornostar, che me lo prendeva tutto in bocca succhiando e leccando la mia cappella alla grande.
Sapevo che era una fantasia del cazzo e che dovevo smetterla di pensare a lei per tutto il tempo. Non era sano per la mia mente già precaria. Eppure non ci riuscii.
Quando aprii gli occhi, vidi dei capelli chiari, una bocca che non riusciva a prenderlo del tutto anche se ci provasse da tempo, e dua occhi marroni.
Mess era una vera troia, tra tutte le cheerleader, era la preferita del gruppo. Si faceva scopare da tre in una volta, e a noi piaceva da matti lei e i suoi bucchi.
«Sì streghetta, vai così.» la incitai spingendo la sua testa sempre più veloce lungo la mia asta. Reclinai la testa all'indietro e chiusi gli occhi finché non venni con grossi fiotti in gola a Mess che ingoiò tutto e si leccò le labbra subito dopo.
«C. Non mi hai mai chiamato con quel nome.»
Mi alzai di scatto della poltrona e tirai su i pantaloni, chiusi la cerniera e allaccai la cintura pronto per andarmene.
«Mhh... quindi?»
«Mi è piaciuto.»
Si avvicinò con fare lascivo e mi toccò il petto palpando i miei addominali. Mi scostai subito con un gesto brusco, che poi attutii carezzando la sua testa in un complimento tacito.
«Sei stata grande Mess.»
Imboccai la strada e mi avvia giù per le scale. Salutai prima sua madre che entrò in casa nello stesso momento e aprii la porta.
«Oh ciao Caleb.» mi salutò sorridendo.
«Arrivederci Mery» le dissi andandomene.
«Resta a cena se vuoi» mi invitò passandomi in rassegna da capo a piedi con uno sguardo che conoscevo fin troppo bene.
Che donna di merda, pensai.
Sapeva benissimo che sua figlia si era fatta strapazzare da me, eppure mi guardava in quel modo languido che mi generò un brivido di disgusto lungo la schiena.
«Un'altra volta Mery»
Me ne andai e mi avviai alla macchina, aprii la portiera, l'accesi e feci ruggire il motore sgommando via.
Raggiunsi casa immersa nel buio e dopo aver lanciato le chiavi sul bancone della cucina mi fiondai in doccia.
Quella violetta mi aveva fottuto il cervello e nonostante il pompino da dieci che mi aveva fatto Mess avevo il cazzo ancora duro come una roccia.
Iniziai a strofinarmelo sotto il sifone pensando alle sue tette e al culo e immaginai di sbatterglielo addosso fino a marchiarla con il mio seme.
Diedi un pugno alle piastrelle dalla rabbia e dalla frustraziono una volta raggiunto l'apice.
Perché ero tanto fissato con quella mocciosa?
Non ha voluto dirmi il suo nome, si è categoricamente rifiutata di scopare con me, e infine ha detto che piuttosto di farsi riempire era disposto a giocare duro.
Così sia allora.
Mi vestii e scesi di sotto, la casa era vuota, silenziosa e avvolta nell'oscurità.
Come sempre da quando avevo compiuto sedici anni a questa parte.
In realtà, la solitudine, il silenzio e tutto il resto mi piacevano.
Odiavo le persone e loro odiavano me.
Mio padre viveva a Washington DC praticamente da sempre dopo tutto il male che aveva così generosamente casusato, e a me andava più che bene. A volte mi telefonava giusto per chiedermi se ero vivo, a volte veniva a trovarmi senza mai fermarsi a dormire per paura di non svegliarsi mai più.
Meno lo vedevo meno c'era il rischio di ucciderlo a pugni.
Mia madre invece non era stata da meno. Una grande cagna la definirei. Mi aveva abbandonato quando ero piccolo per un altro magnante, non si era mai vergognata per avermi lasciato da solo, viveva la sua vita in giro per il mondo incurante della mia salute mentale o fisica, smaniosa di dimenticarsi di me ad ogni viaggio che faceva.
Durante gli anni aveva cercato di allacciare qualche parvenza di rapporto, ma non gliel'ho mai permesso.
Per me era morta e lo sarebbe stata per sempre.
Fanculo. Lei non era una madre. E lui non era un padre.
Aprii il frigo ed estrassi l'omelette che mi aveva preparato la domestica sta mattina, lo misi nel microonde e lo riscaldai.
Nella mia testa frullavano mille idee diverse, finalmente avevo scelto la mia preda perfetta per quest'ultimo anno ed ero entusiasta di fare la prima mossa.
Inizia a mangiare subito dopo con i pensieri che mi vorticavano in testa, e poi ci pensai. Avrei fatto l'annuncio in grande stile.
Con un sorriso da prepotente del cazzo estrassi il telefono e inviai un messaggio ai ragazzi.
Black Wolf: Ho un idea
Grey Wolf: Arrivo
White Wolf: Devo preoccuparmi?
Crazy Wolf: ... ... Sono fuori dalla villa.
Arrivarono tutti uno dopo l'altro e iniziammo a fare casino, Eliot aveva preso dell'erba che fummamo nella stanza dei giochi incuranti che a pocchi giorni sarebbe iniziato il campionato.
«Cazzo se ci devono fare le analisi come cazzo facciamo?» domandò Lenny.
«Troveremo una soluzione» rispose Dean passandomi la canna a flag che aveva preparato.
«Il campionato inizierà tra poco, avremmo tempo per escogitate un piano» dissi, aspirando a pieni polmoni.
«Cosa facciamo domani?» domandò Eliot.
Soghiggnai eccitato e gli spiegai il mio piano.
«Sasha sa fare i graffiti. Verrà una bella cosa.» disse in fine Eliot aspirando.
Passammo la notte a giocare alla play e a fumare erba per poi uscire fuori e fare qualche tiro di canestro fino a notte fonda.
Mi piaceva svagarmi giocando, era una delle poche cose che mi faceva sentire a tratti un essere umano senza marciume.
🐺
Avevo detto a Lenny e Eliot di andare dalla piccola Violetta e umiliarla quanto bastava, mentre Sasha si era dato da fare con il suo armadietto disegnando una Dalia Nera a dir poco enorme.
Prendeva completamente il suo armadietto per lungo e per largo. Il simbolo che rivelava all'intera scuola che era il bersaglio designato dei lupi. E ovviamente il biglietto d'ingresso per l'inferno.
Mi ero messo al secondo piano appoggiato alle ringhiere e osservavo la scena dall'alto insieme agli altri con un mezzo sorriso sulle labbra.
Vidi il suo amico farle scudo, ma era troppo forte per lasciarsi andare alle sue braccia. Aveva un aspetto terribile. I capelli erano sporchi di nero, petali e piume intinte nella vernice si erano appigliati ai vestiti e a quella orribili maglia di lanna cotta. La vernice scendeva giù fino alle sue scarpe, aveva anche le mani e il viso sporco. Sembrava appena uscita da un pozzo lercio.
Strinsi con forza la ringhiera di ottone mentre visualizzavo la situazione sotto di me.
Il piano aveva funzionato.
Lei che guardò il suo armadietto, lei che si mise le mani in testa, lei che si voltava urlando alla folla che si era accalcata intorno per vedere l'opera d'arte e che bisbigliavano tra di loro, chi la compativa, chi stava già pensando a come umiliarla.
«Andate via!» urlò stringendo i pugni lungo i fianchi.
Misi su la maschera che più adoravo facendo un sorriso che non coinvolgeva gli occhi e la osservai ancora per capire che cosa aveva intenzione di fare.
In genere ci era capitato che quando un bersaglio riceveva la dalia, vomitava, scappava, iniziava a piangere chiedendo pietà. Lei invece non fece nulla del genere.
Si limitò a dire qualcosa al suo amico e continuò ad osservare il graffito.
Dopo poco arrivò il preside che iniziò a sbraitare contro tutti i presenti e chiese alla Violetta se avesse idea di chi fosse stato a farlo.
Comunque sia, quella era una forma di vandalismo, ma la cosa risultò assai assurda perché quel coglione, lo sapeva molto bene che dietro a tutto eravamo noi lupi. Eppure non aveva abbastanza palle per affrontarci.
Che scena patetica. Come se non sappesse benissimo chi è stato a farlo.
La vidi allontanarsi verso i bagni e mi scappò un'altro sorriso.
Era il momento di entrare in scena.
Lasciai i miei amici e mi avviai alle scale. Tutti mi guardarono chi con paura e chi con ammirazione, oltrepassai i corridoi e mi infilai nel bagno delle ragazze.
Iniziai a battere forte il palmo su ogni porta per capire se c'era qualcuno oltre a lei. L'unica voce che sentii, fu la sua.
Tornai indietro e chiusi la porta principale a chiave. Non volevo che qualcuno ci disturbasse.
Stava borbottando qualcosa a voce bassa, ma sbattei il pugno nella sua porta e la senti gracchiare un: «Occupato»
Continuai a bussare ancora. «Ho detto che è occupato cazzo!» Sbottò.
Sorrisi divertito e attesi che lo aprisse.
Quando uscì, appena mi vide rimase ferma con il viso rosso dal pianto, si era lavata la faccia e si era pulito almeno le piume e i petali dai capelli che aveva raccolto in una coda.
Le sue guance erano rigate dalle lacrime che ora erano secche.
La passai in rassegna, aveva le labbra gonfie e rosee da quanto le aveva morse, indossava una canotta blu scuro che fasciava il suo corpo da urlo e teneva in mano quel maglione orrendo che le avevo visto questa mattina.
I pantaloni larghi erano macchiati di vernice come anche le sue scarpe.
Deglutii, era talmente bella che il cuore mi si fermò di colpo per poi riprendere la corsa impazzito.
Mi guardò torva e si avvicinò felina per poi darmi uno schiaffo violento che mi fece indietreggiare di poco. Mi aveva colto alla sprovvista, non che mi fece male, ma sentire le mani addosso mi generava un moto di grande ira. E dire 'ira' era assai riduttivo.
«Sei contento?» mi sbraitò contro.
Presi un lungo respiro prima di rilasciarlo. Cazzo era così piccola rispetto a me che se avessi fatto anche mezza cosa di quello che mi stava passando per la testa, l'avrei spezzata a metà.
Aveva di fronte una stazza di novantacinque chili di muscoli e un metro e novantasette di altezza, eppure riuscì a guardarmi in quel modo sprezzante che mi fece vacillare.
«Come ti chiami?» domandai fermo.
Volevo capire che cosa avrebbe fatto. La prossima risposta sarebbe stata importante. Mi avrebbe fatto capire con chi stavo giocando e quanto sarebbe stata in grado di sopportare.
«Lo sai già come mi chiamo, stupido imbecille!» buttò fuori in collera.
Abbozzai un sorriso di soddisfazione.
Oh mi sarei divertito da pazzi con la sua lingua volgare.
«Quindi sei disposta a continuare a giocare eh? Buono a sapersi.»
Mi avvicinai di un passo, lei indietreggiò appoggiandosi al muro di riflesso.
«I tuoi giochi infantili non mi faranno vaccillare Caleb War dei miei coglioni»
Il mio nome uscito dalle sue labbra non mi sembrò tanto orribile, nonostante l'insulto rivoltomi.
Feci un verso roco e mi avventai su di lei.
La agguantai per la sua gola esile e la avvicinai con forza a toccare il mio corpo. Le sue curve si rimodellarono al mio a prescindere dell'altezza e averla così vicina mi fece capire quando era piccola, fragile e spaventata.
Annusai il suo solito profumo che mi inebriò i sensi e la fissai negli occhi.
Per quale cazzo di motivo mi piaceva così esageratamente questa strega?
Mi venne la pelle d'oca quando i nostri occhi si schiantarono e io ci affogai in quelle iridi viola, talmente uniche.
La annusai come se fossi davvero un lupo. Cercò di allontarsi dalla mia stretta, ma la intrappolai agganciando l'altro braccio sulla sua vita stretta per tenerla ferma.
Esigevo la risposta e non me ne sarei andato senza sentire il suo nome uscire dalla sua bocca. Doveva capirlo.
Passai il pollice sulle sue labbra e un verso roco mi uscì dalla gola senza rendermene conto. Avrei tanto voluto baciarla per conoscere il suo sapore.
«Come ti chiami?» sussurrai.
La sua gola fece su e giù deglutendo con difficoltà.
«Lo sai.» singhiozzò.
Dio quando cazzo era cocciuta quella ninfea strega.
«Come ti piace? Forte? Piano? Alla francese? Senza inibizioni?» domandai subito dopo.
Spalancò gli occhi subito dopo aver capito l'allusione.
«Caleb! Porca puttana!»
Iniziai a scendere con la mano sul suo culo appoggiando il palmo e stringendo una chiappa soda con fermezza mentre la portavo a sbattere contro il muro.
«Lasciami o mi metto a urlare!» minacciò.
«Urla.» la canzonai.
«Togli quella mano dal mio fondoschiena adesso!» mi ordinò perentoria. I suoi occhi si addombrarono e vi scorsi del grigio.
Feci un'altro sorriso di scherno. «Rispondi alla mia domanda prima.»
«Tu mi hai umiliata!» sbraitò, «Ora sono lo zimbello di tutta la scuola. Per colpa tua verrò derisa per sempre e pretendi che io ti risponda? Piuttosto rispondimi tu? Dimmi quale cazzo è il tuo problema?»
Sentii la sua voce incrinarsi. E anche la mia non era da meno, piccole lame mi si conficcarono giù per l'esofago, la sensazione di disagio si propagò violenta nel petto e il mio cuore che ha sempre fatto finta di battere, nel sentire il suo di respiro, si fermò.
Deglutii aggrottando la fronte mentre la osservai con prepotenza.
Era talmente bella.
«Continuerò a giocare, ricordi? Hai accettato ieri sera quando hai deciso di non dirmi come ti chiami.»
«Se ti dico il mio dannato nome la smetti?» domandò
«Tu per me sei senza valore», le dissi a denti stretti avvicinandomi al suo viso. «Quindi cosa ti fa pensare che la smetterò una volta che me lo dirai? Devi essere disposta a fare molto di piu se vuoi uscirne indenne.»
Il freddo e il gelo nel mio sguardo lo fece sussultare e deglutire.
In realtà, più la strinsi a me, più mi resi conto che mi sentivo in pace e mi piaceva tenerla stretta per questo motivo quella consapevolezza mi taglio il respiro di netto.
La lasciai andare come se fossi stato scottato, le sue sopracciglia si piegarono perplesse, ma la vidi fare un resipro profondo. Feci alcuni passi lontano da lei e la osservai con le narici frementi.
«Dillo!» urlai fuori di me.
Lei sussulto e si appiattì alla parete come a volersi difendere dalla rudezza della mia voce.
«Vaffanculo!» Rispose con le narici frementi.
Feci due passi nella sua direzione incazzato come una iena. «Ti farò pentire per ogni cazzo di parola che è uscita dalla tua bocca. Me la pagherai»
«Fottiti Caleb stronzo dei miei coglioni»
Risi appena, era impossibile che io mi divertissi da questa situazione, ma era così, e... volevo vendicarmi. Ci sarei riuscito alla grande, questa era una promessa.
«Sarai un'altra troia che spalancherà le gambe per me. Perché lo farai, di questo ne sono più che certo, e sai perché? Perché io ti manderò fuori di testa, farò in modo di umiliarti e salvarti allo stesso tempo. Sarò il tuo venelo e il tuo antidoto, ti renderò talmente dipendente di me, che non capirai più niente di ciò che accadrà. Ti faro innamorare Violetta. Ti faro odiare te stessa più di quanto tu possa mai immaginare. Io ti renderò dipendente di me. E quando ci riuscirò, ti guarderò dall'alto e ti mettero nel tuo esatto posto.»
Presi un resipro e continuai: «Sai dov'è il tuo posto? Te lo dico io. Il tuo posto sarà insieme a tutti gli altri, prostrata ai miei piedi.»
«Continua pure a sognare coglione. Il giorno che io mi innamorerò di te, sarà l'ultimo giorno di me da viva sulla faccia della terra. Preferisco essere accoltellata che associare la parola amore a una persona infantile, subdola e con un ego smisurato come la tua. Mi fai schifo. Le cose che fanno ribrezzo di solito le getto via e tu, lupo nero dei miei stivali, sei semplicemente una piccola parentesi insignificante nella mia lunga e meravigliosa vita. I bulli come te non mi terrorizzano. I bulli come te li patisco, perché non capiscono di essere dei meri coglioni senza uno scopo nella vita.» sputò fuori velenosa.
Il colore viola dei suoi occhi si intensificò, lucicarono prepotenti e mi rubarono l'ultimo resipro che mi rimase. Era talmente seria...
«Ora levati dalle palle e non provare mai più a mettermi le mani addosso o ti cavo gli occhi! Mi hai capito!» sentenziò sicura su sé.
Non le avrei fatto capire che le sue parole mi avevano toccato come nessuno aveva mai fatto. Non le avrei detto che la sua lingua era tagliente come un coltello, nemmeno che i suoi occhi erano due pagliuzze magiche capaci di trascinarti nel più profondo degli abissi.
Sorrisi per nascondere tutte le mie insicurezze e sospirai andadole incontro. La intrappolai di nuovo tra il mio corpo e il muro e le presi quella coda che avvolsi nella mano con forza.
Cercò di mandarmi via, ma ne approfittai per infilare un ginocchio in mezzo alle sue cosce divaricate e la tenni ferma reclinando la sua testa all'indietro.
Respirai ed espirai con affanno piegandomi verso la sua gola che si muoveva su e giù con difficoltà.
«Ma allora sei un coglione! Lasciami!»
Non le diedi retta e mi piegai per annusare il suo collo che sapeva di cannella, tutto di lei profumava di note legnose.
Con la punta del naso le sfiorai la clavicola per proseguire fino alla carotide, senza mai far toccare le mie labbra con la sua pelle, solo la punta del naso. Le venne la pelle d'oca.
Il suo profumo mi mandò una scarica di adrenalina dritto al cazzo e quando sentii stringere la patta dei jeans la morsi.
Forte.
Aprii la bocca e infilai i denti nella sua gola che si riempì di pelle d'oca. Le diedi un morso talmente forte che la scarica di eccitazione che mi si espanse dalle dita dei piedi fino ai capelli mi generò brividi caldi sulla pelle, il cuore mi si fermò per poi iniziare a battere fortissimo, e dalla gola mi uscii un verso roco di eccitazione quando la senti gemere e urlare in un mix di passione.
Non se l'aspettava.
Il suo corpo d'istinto si piegò verso di me, le sue cosce mi strinsero il ginocchio e le sue mani mi si conficarono nei bicipiti per fare leva e allontanarmi.
A mia volta feci aderire il ginocchio con la parte più sensibile di lei e la sentii così maledettamente calda anche attraverso i pantaloni logori che aveva addosso.
Iniziai a succhiare la sua gola, alternando morsi saldi con leccate umide. Aveva la pelle d'oca, ansimò diverse volte generando in me una furia cieca di prenderla immediatamente. Non si rendeva nemmeno conto che stava ansimando apposta per mandarmi il cervello in pappa.
«T-ti prego, v-vattene via...» sussurrò con la voce rotta.
Intorno a noi l'aria crepitava di eccitazione e promesse. Il gioco che stavamo conducendo era incredibile.
Stavo andando fuori di testa, più mi diceva di non volermi, più io volevo farle capire che non esisteva un essere umano che non mi avrebbe voluto.
Perché l'unica persona che non voleva sé stesso ero io. E tutti gli altri avevano l'obbligo di compensare ciò che io non riuscivo a dare a me stesso.
Tutto il marcio e le crepe in un modo o nell'altro dovevano essere rimarginate.
I nostri corpi si stavano quasi per fondere insieme, era totalmente nel mio controllo, quando la vidi muoversi impercettibile sul mio ginocchio come a dare sfogo al fuoco ardente che aveva in mezzo alle cosce, capii di aver raggiunto il mio scopo.
Si era eccitata.
Mi staccai da lei con uno scatto e mi leccai le labbra assaporando ancora il suo profumo e la sua pelle. Feci un sorriso di vittoria e la guardai.
Aveva le gote rosse, gli occhi lucidi e languidi, la coda era disordinata e il pezzo forte, sulla clavicola aveva il segno dei miei denti.
L'avevo appena marchiata.
Non era ancora mia, ma lo sarebbe diventata.
Voleva piangere, distolse lo sguardo da me e si morse con forza il labbro inferiore per non farlo tremare stringendo i pugni lungo i fianchi. Chiuse gli occhi e volto lo sguardo come se non sopportasse la mia vista.
La presi di nuovo per la vita e la voltai verso lo specchio, reclinai il collo e le feci capire di aver lasciato la mia impronta su di lei.
«Che cosa mi hai fatto?» bisbigliò incredula.
Ragelò, strinse forte le mani ai lati del lavandino e abbassò la testa per nascondermi le sue lacrime.
Sapevo che mi stavo comportando come uno stronzo. Deglutii la pallina che avevo in gola e chiusi gli occhi annusando i suoi capelli prima di lasciarla andare.
Separarmi da lei mi fu doloroso, eppure mi diedi uno schiaffo nella mia testa per la disperata e perenne voglia che avevo di stringerla a me.
Mi misi su la solita maschera da egocentrico strafottente e la derisi.
«Bene, ottimi progressi piccola mocciosa. Ora sai a chi appartieni.»
«Vaffanculo, stronzo!» strillò incazzata gettando il sapone che era sul lavandino nella mia direzione. Non mi mossi perché aveva una mira pessima, ma la guardai da sotto le ciglia con un sorriso di vittoria prima di fare l'occhiolino in modo ironico e aprire la porta.
Sono due a zero per me Violetta.
Mi fiondai fuori dal bagno respirando con affanno, presi lunghi respiri d'ossigeno per dissetare i miei polmoni per tutto ciò che era appena successo. Non lo diedi a vedere ma mi aveva devastato allo stesso modo.
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