1° Writing Contest: 👑 -nemvsis
Capitolo dedicato a -nemvsis,
vincitrice del primo contest de "La Pergamena di Clio"!
Ecco i lavori con cui ha trionfato.
ANDATE A SEGUIRLA!
1° TEMA: Primo appuntamento Percabeth
IL PRIMO APPUNTAMENTO NON SI SCORDA MAI
Ero in ansia.
Quel giorno, domenica sei settembre, avrei avuto il mio primo appuntamento con Annabeth.
Tutta la mia dignità era nelle mani della mia capacità di non fare brutte figure, di Grover e Clarisse, quelli che avevano preparato il tutto - Clarisse ci aveva costretto ad approvare.
Speravo solo che il mio regalo fosse abbastanza per lei.
Ad ogni modo, quando arrivai al Campo ero in anticipo rispetto all'ora dell'appuntamento - le sette e mezza -, mentre Annabeth sarebbe arrivata più avanti.
La mia Cabina era silenziosa e non c'era nessuno.
Avevo appoggiato il completo nero su uno dei letti vuoti - a detta di mia madre, i vestiti scuri mi stavano bene - e avevo iniziato ad aspettare.
Alle sei e un quarto mi stavo già annoiando.
La sera prima aveva dormito pochissimo per l'ansia e non ero riuscito a riposarmi; così, appena mi distesi sul letto, mi addormentai.
Pessima mossa.
Mi alzai solo quando la porta della mia Cabina venne sbattuta con foga da Clarisse.
Quest'ultima si avvicinò al letto e mi urlò che era tardi e che mi avrebbe picchiato se non mi fossi mosso subito.
Fui preso dall'ansia e dal panico. «Sono tanto in ritardo?» chiesi in fretta, scattando in piedi e dirigendomi in bagno per sciacquarmi la faccia.
«SONO LE SETTE E UN QUARTO!» strillò dall'altro lato della Cabina «RITIENITI FORTUNATO CHE ANNABETH CI HA AVVERTITI CHE C'È TRAFFICO, ALTRIMENTI TI SARESTI RITROVATO UNO DEI TRIDENTI DI TUO PADRE IN CULO!».
Mi asciugai velocemente e afferrai il mio abito.
«Hai cinque minuti per sistemarti» mi intimò con rabbia.
Poi uscì sbattendo la porta.
Ci misi poco per cambiarmi.
Appena fuori, sentii la forte presa di Clarisse afferarmi il polso e trascinarmi via.
«Giuro su mio padre che se rovini tutto ti faccio fare un bagno nel cesso!» mi avvertì, ringhiando.
Non potei far altro che sorridere.
«Se volevi un'altra doccia con l'acqua del water, bastava chiedere».
Lei mollò la presa e si portò le mani, strette a pugno, alla bocca.
«Ritieniti fortunato che l'appuntamento te l'ho preparato io, altrimenti ti avrei già dato un calcio nello stomaco!» sbraitò «E ora vattene!» e se ne andò.
«Ma non so dove andare!» esclamai.
«VAI ALL'ENTRATA E ASPETTA ANNABETH!» mi urlò.
«Ma-» provai a dire.
Lei mi ringhiò.
Andai all'entrata ad aspettare Annabeth.
Era passato un po' quando mi resi conto che...
«Il regalo!» me ne ero dimenticato.
Stavo pensando di correre verso la Cabina tre, ma la dolce voce della mia ragazza mi richiamò.
Cavolo, non ora.
Mi girai, cercando di rimanere calmo, e mi ritrovai la figla di Atena tra le braccia.
Ricambiai l'abbraccio.
«Ti sono mancata?».
Le sorrisi.
«Tantissimo».
Poggiò le sue dolci labbra sulle mie e non potei fare altro che pensare a quanto fossi fortunato ad averla.
Grover fece la sua comprase. Era vestito come un cameriere e dovetti fare uno sforzo immane per non scoppiare a ridere.
«Seguitemi». Ci portò sulla spiaggia, che era decorata per un'appuntamento romantico.
C'erano pure delle candele.
Mi chiesi quanto tempo ci avrei messo per mandare tutto a fuoco.
«Prego, sedetevi».
Mi avvicinai alla sedia di Annabeth, tirandola indietro e facendoci sedere sopra la mia ragazza.
«Grazie» mi sorrise.
«Di nulla, signorina».
Lei rise. Era il suono più bello che si potesse sentire.
Dopo aver chiesto a Grover di portarmi il regalo nella Cabina verso la fine dell'appuntamento, mi sedetti anch'io e aspettammo la cena.
Prima di essa, un figlio di Ares con un occhi nero coperto dal trucco - c'era lo zampino di Clarisse e dei figli di Afrodite - ci portò l'acqua, ma la rovesciò.
Impallidì, probabilmente non per il disastro appena combinato.
«Scusatemi».
«Non preoccuparti» disse Annabeth, che stava già cercando di asciugare, ma la sua voce la tradiva.
Poco dopo era più o meno tutto a posto e io e lei potemmo continuare la nostra cena in pace.
Okay, non ci crede nessuno.
Dopo un semplice antipasto, arrivarono gli spaghetti. Io non li so mangiare senza tagliarli, e non era il caso: l'unica volta che l'avevo fatto un figlio di Afrodite aveva rischiato di uccidermi con una forchetta.
Presi la posata e provai ad arrotolarli, ma il sugo mi sporcò il completo.
Annabeth ridacchiò.
Arrossii e presi un tovagliolo, col solo risultato che la macchia si ingrandì.
Decisi di lasciar perdere e continuai a mangiare.
Notai che il cameriere non era lo stesso di prima e iniziai a pensare a cosa Clarisse avesse potuto avergli fatto.
Mentre il resto della cena arrivava, io e Annabeth ci raccontammo ciò che ci era capitato durante quel periodo.
Scoprii così che suo padre si era stortato una caviglia, motivo per cui lei è rimasta con lui.
Da parte mia, le dissi che avrei continuato gli studi fino alla fine delle superiori, salvo problemi divini, e - ti prego, padre - forse a iscrivermi a qualche università.
Sì, lo so, era impossibile. Ma ero sopravvissuto al Re dei Titani in carne e Luke, potevo anche laurearmi.
Annabeth mi aveva promesso che mi avrebbe dato tutto l'aiuto possibile per farcela e mi ripromisi che avrei raggiunto la laurea per me e per lei.
Quando la cena finì, Grover ci accompagnò un po' più in là.
A terra c'era un pezzo di cartone bello grande e una musica da lento. Così capii dove volevano andare a parare.
Io avevo ballato solo una volta e non avevo tanta voglia di farlo di nuovo davanti ai campeggiatori.
Ma Annabeth mi portò sul pezzo di cartone e mi costrinse a ballare comunque.
Continuammo a pestarci i piedi a vicenda fino alla fine della melodia.
La guerra ci aveva davvero rovinati.
Ci guardammo per un po', poi ridemmo per nessuna ragione.
Grover mi portò il regalo che avevo fatto ad Annabeth e lo porsi a lei.
«Per te» dissi.
Lei aprì il pacco. Potei vedere i suoi occhi illuminarsi quando notò il libro sulle migliori opere di architettura antica.
Non disse niente, si buttò su di me e mi baciò.
E quello fu probabilmente il miglior appuntamento sulla spiaggia di tutti i tempi.
2° TEMA: Rivalità
L'INIZIO DELLA RIVALITÀ
Zoe non ricordava l'ultima volta che aveva corso tanto. Forse mai.
La pioggia cadeva lenta sul suo volto, infastidendola.
Naomi, una nuova Cacciatrice, faticava a starle dietro.
«Zoe, rallenta!» la implorò. Era stanca, si notava dalla sua voce.
«Non posso» affermò la Lungotenente di Artemide. «Se non arriviamo in tempo, si scatenerà una guerra!».
"Un'altra guerra" avrebbe aggiunto.
Il suo più grande senso di colpa.
«I greci sono molto più indietro di noi, possiamo riposarci» cercò di convincerla, ma la Cacciatrice era irremovibile.
Ma non voleva far stancare la nuova entrata.
Si tolse la faretra e l'arco, per darli a Naomi.
«Zoe, ma cosa...?».
Lei si chinò, facendo segno alla ragazza di salire.
«Sei sicura?» il suo tono era riluttante, ma le si leggeva in faccia che avrebbe voluto smettere di correre.
«Non preoccuparti, salta su».
Naomi non se lo fece ripetere due volte.
In poco tempo erano già arrivate vicino all'entrata del Campo Giove.
«Siete arrivate, finalmente» le richiamò una voce.
Dietro un cespuglio si trovava una ragazza che non poteva avere più di diciotto anni.
Aveva una cintura e un sguardo da strafottente.
«Sidney».
Sidney Hack era la regina delle amazzoni. La sua fama arrivava prima di lei ovunque, nel mondo semidivino.
L'Amazzone sorrise.
«Zoe, ma che piacere! Piccola come sempre, vedo» rise.
«Sidney, sii seria per un secondo» la rimproverò la Cacciatrice.
Lei sbuffò.
«Come la fai tragica!».
«La situazione è tragica!».
«Shhh!» fece Naomi.
I greci erano arrivati.
Gli stendardi delle cabine erano piccoli rispetto a quello grande che raffigurava un pegaso nero e la scritta "Campo Mezzosangue". Dovevano essere impazziti, per girare l'America con quei cosi.
Dall'altra parte della strada, davanti all'entrata del Campo, l'eco di un battito di mani si fece largo.
Dall'ombra spuntò fuori la figura snella e atletica di una ragazza con la pelle ambrata, lunghi capelli bruni e una maglia color porpora con sopra una toga bianca, tenuta stretta da una cinturina oro.
«Grace Johnson, pretore, figlia di Nettuno» la presentò sottovoce Naomi, mordendosi l'interno bocca. Quello era uno dei motivi per cui Zoe le aveva chiesto di venire: lei era romana e aveva vissuto per due anni con loro.
«Ce ne avete messo di tempo per arrivare» gli occhi del pretore saettavano tra il gruppo greco.
Un ragazzo si mise davanti a loro. I suoi capelli neri splendevano sotto la luna e la sua maglietta marroncina mostrava fiera la stessa scritta dello stendardo.
«Jackson Smith, capocampo, figlio di Zeus» sussurrò Sidney. Era greca.
Zoe osservò le due figure che avevano rapito la scena. Non sembravano avere più di diciotto anni e sulle loro spalle pesava il peso del comando e del destino delle due fazioni.
«Tu devi essere il pretore romano» iniziò con un sorriso il ragazzo. «Ho sentito molto parlare di te». Dietro di lui qualcuno rise.
La Lungotenente strinse i denti.
«Tu devi essere il capocampo. Ahimè, purtroppo non posso dire lo stesso di te» sorrise Grace.
Le risate si spensero e sul viso di Zoe spuntò un sorriso soddistatto.
«Lei mi piace» commentò l'Amazzone.
Poi il sorriso del pretore sparì.
«Dov'è?» domandò con potenza.
Il figlio di Zeus non si girò, ma fece segno di portare qualunque cosa la figlia di Nettuno avesse chiesto.
Una ragazza fu spinta vicino al ragazzo.
Era vestita di bianco, i lunghi capelli d'oro le abbellivano il viso, ma il corpo era rovinato da ferite sanguinanti e i polsi erano legati a delle catene. I suoi occhi erano rossi e sembrava star mormorando una preghiera.
Zoe ringhiò e dovette fare uno sforzo per non uccidere chiunque l'avesse ridotta così. Naomi e Sidney dovevano pensarla come lei.
«Ellie!» la chiamò il pretore, preoccupata.
«Ecco a te l'Ambasciatrice di Irene. O forse dovrei dire la figlia di Pax» commentò Jackson.
Grace ringhiò.
«Bestie».
«Vai calma, anche voi avete qualcosa di nostro». Il pretore lo stava ancora guardando male, ma la figura robusta e alta del suo compagno la affiancò. Era vestito come lei e teneva in mano una catena a cui era legato un ragazzo moro. Aveva qualche ferita qua e là, ma nel complesso sembrava a posto.
«Il vostro figlio di Ermes, suppongo» disse il pretore maschio.
«Edward Woods, pretore, figlio di Nemesi».
Jackson lo guardò, senza dire niente.
«Direi che siamo pari».
«Non direi. La nostra compagna è messa male» sibilò Grace.
«Cose che accadono in tempi di guerra» commentò il figlio di Zeus.
«Già, guerra». Il pretore alzò un braccio. Zoe capì dove voleva andare a parare. «Naomi!» lo disse forse troppo forte, ma ormai non era importante.
La Cacciatrice comprese, si alzò e sbatté un piede per terra.
«Romani, eiaculare flammas!».
Molti arcieri sbucarono dalla parte alta dell'entrata del Campo Giove.
Tra i due gruppi di semidei si formò una crepa lunga circa centocinquanta metri e larga tre, da cui uscì un getto d'acqua alto dieci metri.
Poche frecce superarono la barricata, poi i romani smisero di mirare.
Tutti si girarono verso di lei.
«Naomi, cosa fai?!» chiese infuriata Grace.
«Salvo i semidei, non è chiaro?».
Zoe si intromise nella discussione.
«Naomi dice il vero. Se vi ammazzate, anche gli dèi ne risentiranno».
«E chissene frega di loro!» si aggiunse Jackson «Questa è la nostra battaglia!».
«Non capisci, razza di uccello secco?!» ribatté Sidney «Se gli dèi soffrono, allora il mondo avrà un grande problema!».
Lui ringhiò e alcuni dei semidei sguainarono le armi.
«Non è la vostra battaglia, è la nostra!» si aggiunse Edward.
race sbatté il piede sul terreno e chiuse la crepa.
«Romani, alligate!».
Le frecce tornarono a volare nell'aria e il rumore metallico delle spade che si scontravano dominò la notte.
Jackson provò ad allontanare i pericoli dai greci con i suoi poteri, ma Grace lo attaccò, facendo uscire da sotto di lui un getto d'acqua.
I due iniziarono a lottare aspramente.
«FINITELA!» gridò Zoe.
Non poteva fallire di nuovo.
Una freccia le si conficcò nella spalla, facendola urlare.
«Andatevene!». Naomi portò via la Lungotenente, cercando di rassicurarla. Ma lei sentiva solo il rumore della sconfitta.
3° TEMA: Festa di Capodanno al Campo
RICORDI DI CASA
Jason non si aspettava quel banchetto enorme per Capodanno.
I tavoli erano tutti apparecchiati di vari colori e decorati in modi diversi.
La Casa Grande era addobbata con luci colorate e qualcuno ci aveva pure messo una bambola di un uomo anziano vestito di rosso. Piper gli aveva spiegato che quello era Babbo Natale, un vecchietto che porta i regali ai bambini. A quanto pare, apparteneva ad una festa di un'altra religione.
Sorvolando su questo, tutti sembravano piuttosto allegri per il cenone imminente; poi, quando Chirone disse che si poteva stare alzati per tutta la notte, loro furono ancora più felici.
Alle dieci i semidei si sedettero ai rispettivi tavoli, aspettando con impazienza le pietanze.
Solo Jason mangiava da solo. A quanto pare, neppure una festa del genere bastava per farlo mangiare con qualcuno.
Quella situazione gli sembrava famigliare. Non era la prima volta che mangiava da solo, e non si riferiva solo al Campo Mezzosangue, ma prima.
In quei giorni, i ricordi gli stavano tornando, come se compiere la missione glieli avesse sbloccati e ora aspettassero solo il momento opportuno per uscire.
«Non mangi?» gli chiese la soave voce di un angelo. Jason riconobbe il proprietario.
«Piper» disse con un sorriso.
Lei ridacchiò e si sedette vicino a lui.
«Sì, mi chiamo così».
Il figlio di Giove arrossì leggermente.
«Ehi, non preoccuparti. Stavo scherzando» disse la figlia di Afrodite.
«Comunque,» iniziò Jason, cambiando argomento «si può già mangiare?».
Piper riprese a ridere.
«Allo Smemorato è di nuovo partita la memoria o ha preso il posto della Bella Addormentata?» domandò scherzosa la voce del suo migliore amico: Leo.
Dopo aver notato come la figlia di Afrodite continuasse a ridere, il figlio di Efesto sorrise compiaciuto e si sedette davanti alla coppia.
Jason si rese conto della situazione solo in quel momento.
«Perché siete qui?».
I due amici si guardarono, poi l'ispanico prese la parola.
«Beh, ti ho visto tutto solo, poi ti si è avvicinata Piper e ho pensato che non potevo farvi fare la coppietta anche oggi. Ed eccomi qua».
I due arrossirono e Piper lanciò uno sguardo truce all'amico.
«Io sono qui perché ti vedevo solo e non volevo che lo fossi anche oggi. E anche Leo è venuto per questo motivo» affermò la ragazza, mentre il figlio di Efesto ridacchiava.
Jason non sapeva cosa dire.
«Grazie...»
Piper gli prese la mano e gliela strinse, ma fu Leo a parlare: «Di niente, Jason Grace, figlio di Giove, figlio di Roma, console dei semidei, pretore dell-».
Il romano alzò gli occhi al cielo.
«Va bene» lo interuppe. Da quando lo aveva detto a Porfirio, il figlio di Efesto sembrava aver ricordato il discorso a memoria e non vedeva l'ora di ripeterlo.
«Cavolo, stai davvero lavorando per essere irritante» borbottò Jason, con una nota di divertimento nella voce. Leo gli sorrise e Piper sembrava confusa, ma non disse niente.
Al fianco del semidio ispanico, si sedette Annabeth, con un piatto mezzovuoto in mano.
«Annabeth!» la accolse la figlia di Afrodite. «Che ci fai qui?».
La semidea scrutò i tre, poi parlò: «Ho pensato che, se dobbiamo lavorare insieme, dobbiamo anche conoscerci meglio e non c'è momento migliore di questo. E poi, il tavolo di Zeus è più in là degli altri e non ho voglia di essere nel bel mezzo della solita litigata».
Il trio si guardò.
«Quale litigata?» domandò Jason.
Annabeth sorrise.
«Vedrete».
Il figlio di Giove la guardò, poi si concentrò sul resto dei tavoli.
Su quello dei direttori, vicino a Chirone -Jason intuì che fosse il posto del Signor D- c'era un baby-Dioniso in fasce. A detta di Piper, gli antichi greci festeggiavano il Capodanno con il dio bambino. A Jason sembrava strano. Trovava che un'altra divinità fosse più adatta di lui per festeggiare il nuovo anno. Il nome ce l'aveva sulla punta della lingua, ma non riusciva a cacciarlo fuori. Lo frustava il fatto di non riuscire ancora a ricordare pienamente il suo passato.
Notò che quasi tutti mangiavano fagioli. Da quel che ricordava, portavano fortuna. Ovviamente la cosa inutile la ricordava.
Iniziò a mangiare anche lui, divertendosi con Piper, Leo e Annabeth. Quell'atmosfera di festa gli ricordava qualcosa, come se l'avesse vissuta altre cento volte, ma non sapeva esattamente cosa.
Piper aveva proposto di parlare un po' di loro attraverso "obbligo o verità" e Leo aveva subito iniziato puntando su di lui. Arrivati a Piper, la ragazza chiese ad Annabeth quali divinità apprezzasse di meno. Appena la bionda citò Giano, Jason sentì come se le domande se si era posto quella sera avvessero ricevuto una risposta.
D'improvviso ricordò perché riteneva festeggiare baby-Dioniso sbagliato e perché trovava tutta quell'atmosfera di festa familiare: lui aveva festeggiato già Capodanno con tutto quel calore, ma in modo diverso; salutando il vecchio anno e dando il benvenuto al nuovo tramite Giano.
«Jason, tutto bene?» gli chiese Piper.
Lui la guardò.
«Anch'io festeggiavo» rispose con un sorriso, come se stesse dicendo qualcosa di nascosto.
«Cavolo, Superman, mi sembrava ovvio» borbottò Leo, alzando gli occhi al cielo. Jason lo guardò come se gli avesse appena rovinato un momento di gloria, mentre Piper ridacchiò.
«E come festeggiavi?» domandò Annabeth.
Jason iniziò a spiegare e la figlia di Atena, quando lui disse di Giano, sembrava pensare: "ma mi prendi in giro?". Già... forse non avrebbe dovuto dire questo, ma era felice di ricordare una cosa festiva.
«Fantastico, Jason!» esclamò Piper, seriamente felice per il ragazzo.
«Già, Superman. Quante cose dovremo ancora scoprire di te?» chiese Leo, puntandogli contro una forchetta, palesemente ironico.
Il romano rise.
«Non lo so, è una sorpresa anche per me».
E fu così. Durante la cena, ricordò più di Reyna e tutti i suoi amici al suo Campo -sì, anche Ottaviano, purtroppo-.
Quando i campisti litigarono per cosa fosse migliore tra il pandoro e il panettone, e Leo e i suoi fratelli fecero esplodere i fuochi d'artificio, Jason sentì aria di casa e pensò che unire greci e romani non sarebbe stato così difficile come Chirone pensava.
4° TEMA: Voi stessi nella storia: Scoprite che esiste un mondo semidivino
LA MIA VITA DIVENTA UN LIBRO FANTASY
Le cose a scuola erano strane, e non solo perché eravamo a dicembre e solo due professori ci avevano sommersi di compiti e verifiche.
Era arrivato un nuovo studente a fine trimestre. A fine trimestre, capite? Tutti sanno che a fine trimestre gli studenti sono sommersi dai compiti!
Certo, non era il nostro caso, ma sono dettagli.
Comunque, il ragazzo in questione si chiamava Jordan Wood, era di origine americane, ma si era trasferito in Italia da piccolo. A detta usa, aveva una passione per le materie scientifiche, peccato che non andasse bene in fisica -non che io potessi dire qualcosa su questo argomento, con i miei voti. Anche in latino andava piuttosto male.
Molti gli avevano chiesto perché non fosse andato allo Scienze Applicate, invece che in uno Scientifico.
A parte questo, portava delle stampelle perché si era rotto il piede destro cadendo dallo skate.
Non mi ero fatta molte idee su di lui. Ero introversa e timida -sotto alcuni aspetti-, quindi non ci avevo parlato, soprattutto visto che molti dei miei compagni gli giravano intorno. Due o tre si erano pure presi una cotta per lui. Era carismatico e bello, era ovvio che attirasse l'attenzione. Si era ambientato in classe subito, e probabilmente lo avrebbe fatto anche col resto della scuola, se non ci fosse stato il covid.
Io e due mie amiche abbiamo parlato molto di lui il primo giorno, mentre tornavamo a casa insieme.
Aamaal -una sedicenne di origine marocchine con lunghi capelli neri e una pelle ambrata- lo trovava troppo pieno di sé. Mentre per Cassandra -una sedicenne italiana con corti capelli mossi e bruni e un naso aquilino- era simpatico.
Poi arrivò il drama.
Jordan e Alessio -il primo ragazzo che gli aveva parlato- avevano litigato e la classe si era divisa in tre gruppi: quelli che stavano dalla parte di Jordan, quelli che stavano con Alessio -tra cui Aamaal- e quelli che non stavano dalla parte di nessuno, come me e Cassandra.
Avevo capito che i due si erano incontrati al parco, Jordan con lo skate e Alessio con la bici. A quanto pare, avevano litigato perché si erano scontrati e ognuno dei due dava la colpa all'altro.
Lo trovavo improbabile: Jordan aveva un piede rotto e Alessio un problema alle ginocchia e alle caviglie dovuto alla crescita avvenuta fin troppo presto -tutt'ora era molto alto-, uno scontro del genere gli avrebbe portato alcuni problemi.
A parte questo, le cose a scuola non andavano male, a parte il fatto che compiti e verifiche si accumolarono e imparai dai miei compagni di classe qualche parolaccia colorita.
Certo, l'astio tra i due ragazzi si faceva sentire, soprattutto durante le verifiche -dove sembravano fare a gara a chi facesse la verifica migliore e più in fretta- ma non troppo.
Ma le cose diventarono davvero strane dopo la prima lezione di ginnastica del mese.
Né lui né Alessio potevano stare con noi: il primo non poteva usare il piede destro e il secondo non poteva forzare le gambe, e noi, quel giorno, avremo dovuto allenarci con gli scatti e con la corda, e poi avremo giocato a -purtroppo- pallavolo. Ma avrebbero comunque avuto il loro bel da fare, visto che c'era la verifica di teoria per loro.
Jordan doveva aver saputo della notizia via e-mail, visto come stava scrivendo veloce.
Lui e Alessio consegnarono insieme e poi si sedettero distanti.
Intanto noi avevamo finito scatti e salti, quindi dovevamo gareggiare a pallavolo.
Eravamo numerosi e la prof ci divise in quattro squadre. La mia era la terza ed ero con Aamaal. Cassandra si trovava nella prima.
Non mi stupii quando la sua squadra vinse: tra lei, Cesare e Filomena era impossibile che perdessero.
Ora toccava alla mia.
Ci mettemmo ai nostri posti; io mi trovai al centro, consapevole che non fossi brava in quella posizione -in realtà in nessuna posizione.
Quando la partita iniziò, il nostro battitore lanciò la palla, che supererò la rete. L'altra squadra se la passò più volte, poi la lanciarono verso di me.
A culo riuscii a farla rimbalzare sulle mie mani. La palla andò verso l'alto e un mio compagno la passò ad un'altra, che la lanciò oltre rete. Segnammo.
Poi le cose andarono male.
Il nostro battitore riprese la palla e la batté, superò la rete e dopo due passaggi tornò da noi, questa volta verso il lato sinistro del campo.
Cadde a terra e loro segnarono
La volta dopo non presi la palla. Andrea mi andò contro e io gli feci notare che era solo un gioco, che non dipendeva la nostra vita da quello, e che doveva prenderlo meno sul serio.
Oh, non sapevo quanto mi sbagliavo. Se fossi andata meglio -o male per tutto il tempo- ora non sarei qui a raccontare questa vicenda.
Andrea mi guardò torvo e se ne tornò al suo posto.
Alla fine eravamo pari e mancava solo un tiro. Dopodiché, ci saremo cambiati per tornare in classe.
«Ehi, Elena!» mi chiamò Alessio.
Mi girai verso di lui, mimandogli di darsi una mossa. Vicino a lui, c'era Jordan e lo trovavo strano.
«Visto che da questo punto dipende la partita, ti farai da parte, visto come fai schifo?».
Lo guardai torva. Non mi curai neanche di farei finta di niente. La prof lo aveva richiamato.
Aamaal mi aveva sussurrato di fregarmene, ma era difficile. Ero frustata dal fatto che parte del nostro pareggio -e forse della nostra sconfitta- era dovuto a me. E Alessio non mi aveva aiutata.
Lanciarono la palla verso il vostro campo, i miei compagni se la girarono. Poi arrivò a me, e accadde qualcosa.
Non saprei dire esattamente cosa, forse la frustazione o forse la voglia di dimostrare che non facevo schifo.
Feci un salto enome, superando la rete di almeno una trentina di centimetri, diedi un colpo forte alla palla, che rimbalzò con forza contro il campo nemico.
Quando atterrai, i miei compagni stavano festeggiando per la vittoria, mentre io mi rendevo conto di cosa avevo fatto.
Com'era stato possibile?
Aamaal mi fece i complimenti insieme agli altri, Cassandra mi lanciò un sorriso fiero, Alessio era alibito e Jordan stava sorridendo -ma non feci caso a quest'ultimo.
Dopo quella partita, lui mi parlò di più, nonostante non ci fossimo mai parlati davvero.
Poi, giorni dopo, in seguito all'aver salutato Cassandra e Aamaal per dirigermi a casa, Jordan mi affiancò.
Era inquietante. Mi aveva seguita fino a quel momento?
«Ciao» mi salutò. Ricambiai, titubante.
«Come mai ti comporti così?».
«Mi hai seguita?».
Lui mi guardò come fossi pazza.
«No, in questa via csi trova casa mia, e, visto che ti vedevo sola, ho pensato di farti compagnia».
«Certo». Non ci credevo proprio.
Si sentì un rumore tra i cespugli. Mi girai appena in tempo per sentire qualcosa tagliarmi la parte esterna della pelle del braccio. Urlai, mentre il sangue scendeva a fiotti dalla ferita.
Sentii un'altro rumore, questa volta di sofferenza, mentre Jordan muoveva le stampelle.
Dal cespuglio uscì un ragazo dal volto coperto, che si teneva il braccio nel mio stesso punto, da cui usciva sangue anche a lui. In mano aveva una pistola
Sorrise. Poi, semplicemente, divenne vento e scomparve.
Ero spaventata. Cosa stava succedendo?! Ero impazzita?!
La mia attenzione fu catturata dalla figura di Jordan, che se ne stava immobile.
Poi si mise a ridere.
All'inizio sperai che la sua risata fosse isterica e di liberazione, ma non lo era. Era vera. E faceva paura.
«Finalmente!» esclamò, buttando le stampelle a terra e camminando normalmente.
«Cosa...?» mormorai. Lui mi sentì.
Si girò come se si fosse appena ricordato di me.
«Elena, finalmente ti sei mostrata! Dopo la partita pensavo che non lo avresti più fatto» mi disse Jordan.
Sul suo viso c'era un grande sorriso, come se avesse ricevuto il miglior regalo del mondo.
«Cosa stai dicendo?» chiesi impaurita. Cosa stava succedendo? Perché parlava così? Perché quell'uomo si era dissolto?
«Davvero non capisci? Fa niente, i mezzosangue inconsapevoli sono più facili da mangiare».
Si leccò le labbra e iniziò a crescere. E, insieme al suo corpo, cresceva anche la mia paura.
Ma prima che la sua trasformazione si completasse, dal suo petto fuoriuscì una punta di metallo.
La sua espressione passò dalla felicità al dolore. Poi divenne polvere.
Ero scioccata, e lo fui ancora di più vedendo chi impugnava la spada: Aamaal.
«Elena, stai bene? Sei ferita?» mi chiese subito, avvicinandosi a me e vedendo se avessi qualcosa che non andasse.
Aveva trasformato la sua spada in un bracciale. La sua pelle era verde.
Deglutii.
Balbettai una risposta affermativa e lei si rilassò.
Cercò qualcosa nel suo zaino, posizionato al mio fianco.
«Aam» la richiamai, riprendendomi dallo stato di shock.
«Sì?».
«Perché hai una pianta di aloe vera nello zaino?».
Lei la guardò, poi sospirò, come se avesse fatto una scelta importante.
«Ormai è inutile nasconderlo».
Mi prese la mano e ci volle tutto il mio coraggio per non spostarla. Era ancora Aamaal.
«Elena, tu sei una semidea».
E, da quel momento, tutto cambiò.
5° TEMA: What if?
UNA SOLA SCELTA PORRÀ AI SUOI GIORNI FINE
La guerra si era momentaneamente fermata, Annabeth si era allontanata per vedere come stavano i nostri amici e i miei genitori erano salvi. Eppure io ero preoccupato.
Rachel era arrivata fino a New York, nel bel mezzo di una guerra, per me ,e per darmi un messaggio.
«Un trucco che finirà con la morte» aveva detto, agitata.
«Che vuoi dire? Con la morte di chi?».
«Non lo so». Aveva girato la testa, guardandosi attorno, nervosa. «Non lo senti?».
«È questo il messaggio che volevi darmi?» avevo detto, forse troppo rude.
«No». Aveva esitato. «Mi dispiace. Dico cose senza senso, ma è un pensiero che mi ha appena attraversato la mente. Il messaggio che ho scritto sulla spiaggia era diverso. C'era il tuo nome».
«Perseus. In greco antico».
Rachel aveva annuito. «Non conosco il significato. Ma so che è importante. Devo ascoltarlo. Diceva: "Perseus, sarai tu a scegliere l'eroe"».
L'avevo fissata in modo strano, come se fosse pazza. Non era una novità o un qualcosa per cui servisse un messaggio per capirlo. Avevo già deciso chi era l'eroe: io.
•••
«Non la toccare» dissi fermo, dividendo Luke, vacillante e disarmato, da Annabeth, svenuta.
Un moto di rabbia dipinse il suo viso. La voce che parlò 'sta volta era di Crono. «Jackson...» ringhiò.
Forse era solo la mia immaginazione, ma il suo corpo iniziò a brillare e trasformarsi in oro.
Luke boccheggiò, come se non riuscisse a respirare.
La sua voce parlò di nuovo: «Sta cambiando. Aiutatemi. È... è quasi pronto. Non avrà più bisogno del mio corpo. Vi prego...».
«NO!» gridò, invece, la voce di Crono.
Quest'ultimo si guardò attorno, per trovare la spada, ma brillava tra le braci del fuoco ed era distante.
Fece comunque qualche passo per raggiungerla. Provai a bloccarlo, ma lui mi diede una spinta così forte che atterrai di fianco ad Annabeth e sbattei la testa contro il trono di Atena.
Anche in situazione del genere ce l'aveva con me?
Alzai lo sguardo su Annabeth. I capelli biondi ricadevano sulle sue spalle e sul pavimento sporco, il suo corpo era pieno di ferite e il suo viso aveva un'espressione triste. Ma anche così continuava ad essere bellissima. Mi promisi che sarei riuscito a salvarla e a portarla fuori da qui.
Riportai gli occhi su Crono che afferrava la sua spada. Ma urlò di dolore e la lasciò cadere. Dentro di me ero felice. Stava avendo quello che si meritava.
Le sue mani erano ustionate. La brace era diventata incandescente, come a respingere quell'arma incompatibile. Portai lo sguardo sul fuoco e vidi la figura di Estia scintillare tra le cenere e guardare Crono con silenziosa - e scottante - disapprovazione.
Il corpo di Luke si voltò e crollò a terra, reggendosi le mani ustionate.
«Percy, ti prego...» mi implorò.
Mi rialzai a fatica, afferrando il coltello di Annabeth, e andai verso di lui. Dovevo ucciderlo, questo era il piano.
Luke sembrò conoscere i miei pensieri. Si inumidì le labbra.
«Non... non puoi farlo tu. Lui piegherà il mio controllo. Si difenderà. Solo la mia mano. Io so dove. Posso... posso tenerlo sotto controllo».
Ormai stava brillando, non era solo la mia immaginazione. La sua pelle iniziava a fumare.
Alzai il coltello, pronto a colpire. Girai lo sguardo e incrociai gli occhi di Grover, che stava stringendo tra le braccia Annabeth, cercando di proteggerla. Anche senza il legame empatico avrei capito che voleva che lo uccidessi.
«Dove si trova il tuo tallone?» domandai. Ero vicino. La guerra che mi stava portando via i miei amici stava finendo.
Luke sembrò in disaccordo con quello che volevo fare, ma, alla fine, si arrese. Si slacciò le cinghie laterali dell'armatura.
Mi ritornarono in mente i versi della profezia e di Rachel. L'orrida lama era il coltello di Annabeth, simbolo di una promessa infranta, e io avevo scelto, sebbene inconsciamente, l'eroe: Luke.
Alzai ancora di più il coltello, pronto ad abbassarlo appena avessi saputo dove colpire, ma prima che Luke potesse indicarmi il punto, ringhiò e mi tirò un pugno sul naso, facendomi indietreggiare.
Si rimise in piedi, riallacciandosi l'armatura.
«Sei uno sciocco, Percy Jackson» disse beffardo e divertito Crono.
Probabilmente impallidii, mentre un moto di panico e rabbia mi inondava. Avevo perso l'occasione.
«Pensavi di potermi sconfiggere in un modo così semplice?» continuò. «Mi sento quasi offeso».
La sua pelle brillò ancora di più, così come i suoi occhi, che ormai sembravano due pezzi d'oro.
Si piegò a raccogliere la sua spada, ma corsi verso di lui, impedendogli di toccarla. Se lo avesse fatto... non osavo immaginare. Tifone sarebbe diventato un bulletto dell'asilo, a confronto.
«Pensi di fermarmi, Jackson?». Crono si ergeva davanti a me. Sentivo il suo potere, la sua forza, sentivo il calore che il corpo di Luke stava producendo, ma, soprattutto, sentivo la distruzione a cui avrebbe portato, se avesse ottenuto la sua vera forma. Non potevo permetterglielo. Gli puntai il coltello di Annabeth sul viso.
Lui si mise a ridere. «Pensi di potermi sconfiggere cosi? Sei solo un illuso».
«Un illuso che conosce il tuo punto debole» ribattei sicuro.
La verità? Non lo ero. Per niente. Avevo solo una vaga idea di dove fosse, ma niente di più. Stavamo parlando di Crono, alla fine. Chissà dove aveva scelto di metterlo, il suo punto debole.
«Ma davvero?» rise il Titano. «E sentiamo, dove sarebbe?».
Dii immortales. Non lo sapevo. Cercai di mostrarmi sicuro. Non potevo tirare in ballo una parte del corpo a caso, ma non potevo neanche stare zitto. Mi avrebbe scoperto.
Cercai di regolarizzare il mio respiro e di mostrarmi il più calmo possibile. Se andavo in ansia, avevo perso.
«Tu lo sai, non hai certo bisogno che ti dica dov'è. E poi, dove sarebbe il divertimento?». Cercai di trattarlo nello stesso modo con cui lui aveva trattato me fino a quel momento.
Il sorriso dal suo volto sparì.
«Jackson, ti credi intelligente, per caso?» mi chiese. Forse era per la sua rabbia, ma la sua temperatura si stava pericolosamente alzando.
«Abbastanza, sì. Tu?».
Crono mise amaramente. «Percy Jackson, è inutile che ti atteggi da paladino. Sei solo un insulso mortale nel mio cammino» disse.
«Un insulso mortale che ti ucciderà» affermai.
Crono non disse niente. Doveva essersi stancato di parlare con me. Mi afferrò il polso, stringendomelo. Le sue mani bruciavano e ci volle tutto il mio autocontrollo per non urlare.
«Pensi di uccidermi? Non sai neanche dove puntare l'arma» mi disse sprezzante, per poi spingermi lontano, vicino all'entrata della Sala dei Troni.
Mi alzai e vidi due cose, la prima fu tutta la sala, ormai in rovina, che però mi fece ricordare che gli dei avevano battuto Tifone. Sarebbero arrivati, prima o poi. Dovevo solo tenere occupato Crono.
La secondo fu lui che prendeva la sua spada. Il che fece crollare le mie speranze di poterlo tenere occupato quanto bastava.
Non riuscii più a vedere né Grover né Annabeth. In cuor mio, speravo che fossero scappati, che si fossero messi in salvo. Ma questa mia piccola speranza crollò quando vidi Grover provare ad attaccare Crono.
Non aveva nulla in mano. Questo mi fece comprendere quanto fosse disperato, ma, soprattutto, mi fece capire quanto a situazione fosse disperata. Crono aveva la sua spada in mano, Luke non sembrava più esistere, Annabeth era svenuta e gli dei non si facevano vedere. Io e lui eravamo l'ultima difesa e non sapevo quanto avremo potuto continuare da soli.
I versi di Rachel mi tornarono in mente. "Perseus, sarai tu a scegliere l'eroe". E compresi cosa significava essere l'eroe. Se Luke fosse morto, l'Olimpo avrebbe vinto. Se io fossi morto, l'Olimpo avrebbe perso. Mi maledissi in tutte le lingue del mondo per non aver dato ascolto a Luke. Se lo avessi fatto, sarebbe tutto finito. Niente guerra, niente più morte. Solo un ricordo.
Grover continuava a provare a picchiare Crono, mentre lui sembrava divertito. Non ci vidi più dalla rabbia. Non volevo che tutti i miei sforzi diventassero vani. Non volevo che le morti di Beckedorf, Silena, Michael, Castore, Bianca, Zoe e tutti gli altri non avessero senso. E, soprattutto, non volevo che Grover e Annabeth morissero a causa mia.
Strinsi il coltello di Annabeth nella mia mano. Se dovevo morire, volevo averlo in mano.
Corsi verso il Titano, ormai fumante. Lui mi vide. Per un momento, i nostri sguardi si incrociarono. Lessi il divertimento nei suoi, e questo mi fece andare ancor più veloce. Dovevo ucciderlo e dovevo farlo ora.
Crono spinse Grover lontano. Poi, come aveva fatto con Ethan prima, aprì una voragine sotto i suoi piedi, facendolo precipitare; ma lui non sembrava sorpreso, anzi. Mi guardò, prima di precipitare, poi sentii qualcosa spezzarsi nella mia testa, nel momento esatto in cui il buco si chiudeva.
Il legame empatico.
Mi fermai e urlai. Le lacrime scendevano come un acquazzone sul mare in tempesta. Nonostante sapessi che Grover lo aveva fa per salvarmi la vita, avrei preferito mille volte morire con lui. La tristezza e la consapevolezza che fosse morto a causa mia mi lacerava lo stomaco. Mi spezzava.
Sentii dei passi avvicinarsi a me e un enorme fonte di calore avvolgermi in maniere maligna, ma non mi importava. Il mio migliore amico era morto. Sperai solo che fosse riuscito a portare in salvo Annabeth.
«Gli dei stanno arrivando» disse Crono, puntandomi la sua falce contro il collo, in maniera teatrale. «Mi chiedo come reagirà Poseidone, vedendo il suo figlio prediletto morire».
Quelle parole servirono a risvegliare i miei sensi. Avevo tempo.
Asciugai le mie lacrime, evitando di farne cadere ancora. Dovevo provarci. Non importava se sarei morto nel frattempo. Gli dei sarebbero riusciti a sconfiggerlo. O almeno credevo. Dovevo sperare.
«Non conosci il mio tallone di Achille» commentai velenoso, felice di sentire che la mia voce non era flebile.
Crono sorrise, e io sentii nuovamente il peso del cielo sulle spalle.
«Tu credi?». Avvicinò la falce al mio collo. Ormai la sentivo.
«Nakamura si è rivelato un traditore, ma mi ha fatto capire quale fosse il tuo punto debole, Jackson». Mi spinse in avanti, facendomi cadere di schiena. Poi mi girò con un calcio. Mi tenne fermo con il suo piede e puntò la sua falce sul mio punto debole. Era finita.
Quando gli dei entrarono nella sala, riuscii appena a vedere mio padre e leggere nei suoi occhi la paura e la consapevolezza. Poi solo dolore.
Urlai come non avevo mai fatto. Mi sentivo bruciare. Era cento volte peggio di quanto mi ero tuffato nello Stige. Una forte luce mi avvolse, mentre il dolore mi divorava la pelle.
Quando riaprii gli occhi, vidi mio padre accanto a me: stava parlando con Apollo sul salvarmi. Sentivo dei rumori di lotta dietro di me.
«Padre...» mormorai. Lui mi guardò. Si era reso conto solo ora che mi ero risvegliato.
«Perseus! Ti sei ripreso». C'era speranza nella sua voce. Ma ero sicuro che fosse consapevole che non era vero. Stavo morendo.
Negai con la testa.
«Padre» ripetei. «Non puoi fare niente. Sto morendo. Crono ha colpito il mio punto debole». Quelle parole fecero uno strano effetto a mio padre.
«Verrai vendicato, figlio mio» disse, quasi ringhiando. Poi mi bacio la fronte, come solo i padri sanno fare.
Si alzò e fece apparire nella sua mano destra il Tridente. Anche Apollo seguì il suo esempio, armato del suo fidato arco.
«Padre» lo richiamai ancora.
Lui si voltò.
«Se trovi Annabeth, portala via da qui, ti prego».
«Lo farò» mi disse, serio.
Deglutii.
«Ammazzalo da parte mia» riuscii a dire, sorridendo.
Poseidone si girò verso di me, anche lui con un sorriso, ma malinconico.
«Sarai vendicato, Perseus. Tu e i tuoi amici».
Con quelle parole, la morte si fece più accogliente. Sentii velocemente le forze abbandonarmi. E, quando intorno a me tutto si fece buio e silenzioso, seppi di essere morto.
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