𝚁𝚒𝚌𝚘𝚜𝚝𝚛𝚞𝚣𝚒𝚘𝚗𝚎 OO4: dialectica
𝐃𝐢𝐚𝐥𝐞𝐜𝐭𝐢𝐜𝐚.
/dia•le•cti•ca/ [lat.]
1. sost. f.
Dialettica, logica, intelletto, pensiero razionale; questo termine viene associato per lo più a contesti di ragionamenti o discorsi.
Es.
La logica (dialettica) del suo discorso è impeccabile.
TRIGGER WARNING.
Allusioni allo stupro, brutalità, violenza, odio per sè stessi, in generale scene che potrebbero disturbare chi è sensibile a questi temi.
C'era qualcosa che strisciava.
Nell'incubo di Icarus c'era qualcosa che strisciava.
Non lo vedeva, ma ne riusciva a sentire il suono serpentesco, sinuoso, che si accostava alle sue orecchie per un solo istante e poi spariva rapido come era venuto, comparendo da un'altra parte, e poi riavvicinandosi, inesorabile, quasi come il brusio di una mosca, ma molto più estenuante.
Era in una stanza in penombra, una penombra crepuscolare che consente di vedere solo i contorni delle cose, mentre il resto rimane sfocato, indistinguibile, stordente alle volte, tanto che quasi le si preferisce il buio completo.
Mentre camminava, sotto ai suoi piedi frusciavano dei fogli strappati, che, a quanto pareva, rivestivano il pavimento di quel luogo nella sua interezza.
Si inginocchiò per esaminarli, cercando di leggerne il contenuto, ma, vista la luce disponibile, non riusciva in alcun modo a capire cosa ci fosse scritto sopra, e la cosa lo irritava. Lo irritava quella stanza a dire il vero.
Lo strisciare.
La penombra.
I fogli distrutti e il disordine.
Tutto. Lo. Irritava.
Decise di rimettere a posto quel macello, mettendosi a cercare i pezzi mancanti del frammento che aveva preso nella marea di fronte a sè.
Non appena affondò la mano nell'oceano di carta, però, scoprì che andava molto più a fondo di quello che pensava, continuando ad infossarsi in una sabbia mobile umidiccia e appiccicosa, sembrava quasi pelle umana sudata.
Disgustato, cercò di tirare su il proprio braccio, ma il risultato fu un'inesorabile discesa verso il basso, e più tentava di sottrarsi a quel contatto immondo più veniva risucchiato in quello che sembrava un abisso. I fogli gli si attaccavano addosso senza che riuscisse a staccarsi, tutto il suo corpo cominciava ad essere trasportato via.
Si guardò intorno, alla ricerca di qualcosa che potesse aiutarlo, ma improvvisamente in quella stanza non c'era più assolutamente niente, se non lui ed i fogli illuminati dalla pallida imitazione di una luce.
Sssssssss.
Ormai più che uno strisciare somigliava ad un sibilo.
Un sibilo sinistro.
Familiare.
Sentiva di star entrando nel panico.
Annaspando alla ricerca di una soluzione, il braccio ancora libero cercava un appiglio, ma trovava solo carta che gli scivolava fra le dita, aumentando il suo terrore.
Tentò di sollevarsi in piedi, ma a questo tentativo la situazione prese a degenerare ancora più rapidamente di prima; il suono andava e veniva, andava e veniva, come il rumore di un'onda sulla battigia, oscillando nel vuoto in quella situazione irreale, sempre più forte e sovrano, accompagnato solo dai suoi respiri affannati e dal battito del suo cuore che lui era certo battesse così forte da risuonare ovunque, in qualsiasi posto si trovasse in quel momento.
Si sentì afferrare la gamba. Era qualcosa di tozzo, umidiccio, simile ad una mano, che avviluppò in pochi attimi il suo arto in una presa ferrea, simile a quella di una pressa idraulica, portandolo giù, insensibile al suo dimenarsi e dibattersi disperato.
Sembrava un uccello morente.
Icarus provò e riprovò a fare resistenza a quella forza, ma cosa poteva fare un ragazzino denutrito e senza energie come lui, specie in un incubo? Non sarebbe cambiato nulla, non poteva vincere contro ciò che lo stava continuando a torturare.
La carta si avvolgeva intorno a lui come una coperta frusciante e dal suono sinistro, seppellendolo sotto una coltre simile ad una neve tossica e coperta di indistinguibili righe nere.
Sentiva che la sua testa stava per staccarsi dal corpo, spossata e distrutta dal continuo protrarsi di quello che ormai sembrava un fischio.
Si abbandonò al volere del suo incubo a poco a poco, lasciando che il suo scorrere andasse avanti senza più intoppi, lasciando che le sue membra stanche smettessero di dibattersi.
La paura però, non sciamava.
Aumentava.
Aumentava in maniera esponenziale, anzi proseguì a montare dentro di lui come un uragano di puro terrore quando altre mani iniziarono a toccarlo, aggrappandosi a lui in modo spasmodico, mani di carta, che però a contatto con la sia carne erano disgustosamente coperte di pelle, in una sensazione così vivida che quasi riuscì a svegliarsi, prima di essere riafferrato e riportato in quello che aveva tutta l'aria di essere l'inferno.
Il suo corpo ormai era inerte, indifeso a quei tocchi, serpenteschi, suadenti, così viscidi da provocargli il vomito, che si infilavano fra i suoi capelli, sotto i suoi abiti, strisciandogli sulla pelle con la loro freddezza e viscosità umana che lo atterriva così tanto, lo accarezzavano quasi a prendersi gioco di lui, rotolando giù per la sua schiena, scivolando sulla gola, sul mento, tastandogli il petto, come cercando una qualche reazione da parte sua che rimaneva immobile, però, paralizzato dai genuini orrore e timore, cercando di rimanere più fermo possibile nell'illusoria convinzione che forse non sarebbe peggiorato ulteriormente se non si fosse mosso.
Sapeva lui stesso che i suoi incubi non erano così gentili.
Le mani iniziarono a tirare, strappando i suoi vestiti pezzo dopo pezzo, facendogli rendere conto di quanto quella stanza fosse gelida, e non contente continuavano ad abbattersi su di lui, intancabili, artigliandogli la carne, raschiando contro di essa con ferocia inaudita, colpendola e martoriandola sino a che non venivano ricompensate con un fiume scarlatto che sgorgava da esse, inondando la carta sparsa intorno a lui, il suo corpo ormai nudo, tremante dal gelo e trascinato sempre più inesorabilmente, disteso, in quell'abisso di pelle umana, disgustosa, vomitevole.
Le dita gli venivano percosse sino a riaprire le vecchie cicatrici, che brillavano di vermiglio come la prima volta, ogni parte del corpo veniva distrutta dal suo personale supplizio, tranne il viso, che resteva immobile, pietrificato, incapace persino di piangere, di urlare, abbandonato nel suo stesso sangue.
Impotente, Icarus era costretto a guardare, a domandarsi perchè c'era tutto quel sangue, perchè non si era ancora svegliato, perchè quel sibilo odioso non se ne andava e lo lasciava se non altro libero di sentire solo il suono della propria pelle strapparsi, perchè. Continuasse. Tutto.
Infine, il tocco di grazia.
Un'ultima mano accarezzò il suo viso, quasi cercasse di emulare una qualche dolcezza che lui nemmeno ricordava di aver mai sentito sfiorarlo, passando su di esso quasi lo stesse ispezionando, l'arco del naso, le guance, la fronte, le palpebre, lasciando dietro di sè un alone di viscida bava che lo macchiava e lo umiliava ancora più di quanto già non fosse, concludendo la sua tortura toccandogli le labbra nel modo più disgustoso che potè.
Una voce squallida e malvagia a tal punto da fargli accaponare la pelle, sancì la fine dell'incubo.
"Hai proprio.
Un bel.
Viso.
Sai.
Icarus."
Gli occhi di Icarus si spalancarono fin quasi a fargli male, ma subito li richiuse, nel tentativo di scacciare quel terrore prorompente che gli stava corrodendo il corpo, madido di sudore e scosso da un lieve tremore, controllato ed automatizzato.
I denti gli si erano quasi conficcati nella carne della bocca, aggiungendo a quell'urlo che avrebbe voluto poter fare, forse quell'unico sollievo che gli poteva essere concesso dopo un incubo simile, un urlo di dolore fisico, vivo e lancinante.
Sfortunatamente, o fortunatamente, in realtà, doveva prima impegnarsi a riportare il suo corpo in uno stato di apparente calma, prima di potersi dedicare a quello che gli era concesso o non gli era dato fare.
Come spesso gli capitava, si trovava a lottare contro i suoi stessi istinti primordiali, soggiogando i suoi stessi tormenti fisici, specchio di quelli interiori, e costringendoli ad assopirsi.
Spesso si sentiva come se sotto la sua pelle, ci fosse stato un altro Icarus, che raschiava, scalpitava sotto la carne per poter essere lasciato libero di non dover apparire ma di poter per una volta essere, concedendosi quella libertà selvaggiamente umana di provare un'angoscia profonda e ingiustificata per qualcosa che in realtà non c'era.
E quella cosa urlava, si dibatteva come un pazzo facendolo tremare e soffrire più di quanto già non stesse facendo per conto suo, costringendolo ad afferrarsi i polsi e raggomitolarsi in una posizione di protezione indegna, schifosa e degradante per la sua coscienza perchè sapeva alla perfezione che lì, in quella stanza, non c'era nulla che potesse arrecargli dolore, quello che aveva visto nella sua testa era solo lo stupido relitto di qualcosa che avrebbe dovuto essere in grado di dimenticare, e che invece continuava a tormentarlo, perché era stupido, inutile, schifoso e incapace; mentre se lo avesse assecondato, avesse dato libero sfogo a quell'impulso di disperarsi, svuotarsi di quella paura che sembrava farlo a pezzi tanto era profonda, se avesse anche solo osato dimostrare un minimo segno di debolezza e instabilità, loro lo avrebbero visto.
In pochi attimi la sua stanza sarebbe stata piena di persone che gli urlavano di calmarsi, che tentavano di afferrarlo, spesso graffiandolo nel processo, senza capire che se lo avessero lasciato in pace si sarebbe calmato benissimo da solo e senza dar fastidio a nessuno; o che avrebbero bussato con violenza contro la porta del bagno sino ad aprirla e trascinarlo via da quel suo unico rifugio sicuro in cui poteva abbandonarsi a quella sensazione di illusoria tranquillità, continuando ad strillare sino a riempirgli il cervello con le loro voci vuote e odiose, capaci solo di continuare a ripetere cose che avevano già detto, e avrebbero continuato a gridare ancora più forte mentre si dibatteva per non essere trascinato via, mentre lo trasportavano giù per le scale dell'edificio come un animale, avrebbero gridato gettandolo su un lettino per l'elettroshock e avrebbero gridato ancora per decidere il voltaggio.
E poi sarebbe stato l'intero mondo a mettersi ad urlare nella sua testa.
Non voleva subire anche quello durante la nottata.
Girato su un fianco, raggomitolato sotto le coperte in posizone fetale come un neonato, con i polsi tremanti stretti al petto, le palpebre chiuse sino a cacciar dentro persino i bulbi oculari e i denti inchiodati nelle labbra, Icarus si sentiva consumare dalla vergogna.
Dovette costringersi ad immaginare per potersi calmare. Fantasticò di aver urlato, urlato con quell'urlo che gli era rimasto incastrato nei polmoni e che lo stava avvelenando perchè non era riuscito ad uscire, sino a strapparsi le corde vocali una per una e farsi esplodere i polmoni e il cuore, disgregare e liquefare i propri muscoli in quell'abbraccio di dolore fisico tanto grande quanto gratificante in quel momento, sognò quasi di percepire, finalmente, il petto leggero, svuotato da qualsiasi cosa lo avesse abitato. Immaginò di aver stretto la testa fra le mani e aver mormorato frasi sconnesse e senza senso che tentavano di seguire il filo dei propri pensieri dispersi, sino ad aver sentito di nuovo le membra rilassate.
E man mano che immaginava, riusciva man mano a sentire di avere nuovamente un corpo sotto il suo controllo.
I respiri da rigidamente controllati si fecero regolari, sospirati quasi, smise di sudare, il battito del proprio cuore si affievolì, e il tremore lo lasciò finalmente in pace. Potè smettere di farsi male coi denti e con le palpebre e ritornare ad una situazione di relativa tranquillità.
Sentì tutta la stanchezza piombargli sui muscoli all'improvviso, quasi lo avesse colpito.
La paura non era andata via, tutt'altro, ma l'aveva domata, e questo contava ai suoi occhi.
Girò il proprio cadavere sotto le coperte, sino a tornare supino.
Le coperte del St. Marcel erano di una stoffa pungente, ruvida, e il materasso era duro come il cemento. Il suo cuscino era così vuoto e privo di imbottitura che dormire senza sarebbe stata la stessa cosa.
Una volta le cose per lui erano diverse.
Sospirò, grattandosi il palmo della mano destra, dove sentiva ancora formicolare quella sorta di presenza odiosa, sapeva di sporco, che si accaniva su di lui dopo un incubo, la sua pelle sentiva ancora viva la percezione di altri esseri che lo toccavano, lasciando una scia di sensazioni sulla sua carne che si sarebbe volentieri risparmiato.
Non era come bruciare, era come il raspare continuo della lingua di un gatto o la lenta camminata di una miriade di insetti sul suo corpo, coi loro passi a prima vista impercettibili eppure concreti, inesorabili.
Si sentiva sporco.
Si sentiva coperto di fango, escrementi, urina.
Si sentiva così imperfetto e vulnerabile che per un secondo si sentì persino inferiore alla razza umana.
Sapendo che non avrebbe più dormito, iniziò ad intossicarsi di pensieri, tanti, uno dopo l'altro, simili alle sigarette che non accendeva mai, si espansero per la sua mente e fluttuarono nella stanza quasi fossero stati fatti di fumo.
Avrebbe voluto essere capace di sopprimere quel lato di sè.
Il lato schifosamente umanoide che continuava a dibattersi per un suo qualche istinto innato e aberrante e che alle volte quasi riusciva a prendere il controllo, esattamente nei momenti in cui avrebbe dovuto essere superiore ad uno di quegli esseri, era costretto a ricordarsi di essere uno di essi.
Se avesse potuto avrebbe ucciso quella cosa con le sue stesse mani, l'avrebbe guardata polverizzarsi fra le fiamme della pira a cui l'avrebbe legata, godendosi finalmente quella sorta di leggerezza che si doveva provare a non esserne più in possesso.
Ma non poteva.
E non era nemmeno capace di sopprimerla.
Era questo quello che innescava un sentimento di odio innato verso la prorpia figura da parte di Icarus.
Non era in grado di non essere umano, ma allo stesso tempo non era in grado di esserlo, lasciandolo su quel gradino di mezzo, una linea d'ombra imperfetta e stagnante da cui non si sarebbe mai potuto liberare.
Per quanto potesse sembrare paradossale, Icarus odiava gli esseri umani, si considerava migliore di essi, ma allo stesso tempo era consumato da una repulsione ancora più profonda verso di sè.
Si odiava così tanto che il solo ricordare di essere ancora in vita lo nauseava, guardarsi allo specchio era qualcosa che non faceva seriamente da anni.
Guardava i propri abiti, lo stato dei propri capelli, ma non si concentrava mai su quello che era il proprio volto, tanto che possedeva solo un'immagine estremamente nebulosa di quello che doveva essere il suo viso ora che aveva diciassette anni. Forse non si osservava con attenzione da quando ne aveva dodici, o undici magari, non se lo ricordava.
C'era tanto, troppo che detestava oltre a quello che ho già detto di quell'obrobrio che vedeva riflesso in sè che non sarebbe possibile elencarli tutti ora, perchè nemmeno Icarus era cosciente in quel momento dei dettagli particolari in quella bolla di pensieri nebbiosi in cui era scivolato.
Si concentrava solo su quella matassa deforme che gli si agitava nella testa e gli impediva di dormire di nuovo come aveva il disperato bisogno di fare, ancora e ancora, trovandosi sempre più riprovevole ogni volta che la riguardava da un'angolazione diversa, sino a cadere in una sorta di dormiveglia agitato e senza immagini, denso di sensazioni striscianti e urla lontane.
Cain Briggs schizzò, dal primo istante in cui dovette osservarlo, molto in alto nella classifica delle persone che avrebbe volentieri visto impalate su una picca, perchè oltre ad essere una sorta di zecca rumorosa e irritante, possedeva anche la risata di un gabbiano gracchiante e stupido.
Icarus non aveva mai visto un gabbiano, nè tantomeno aveva mai sentito quale verso producesse, ma era assolutamente certo che il suono della risata di quell'affare ne fosse identico al cento per cento.
Era un ragazzino basso al limite del ridicolo, e i cui capelli erano facilmente interscambiabili con l'immagine della diga di un castoro, solo meno bagnata e più assurda, ma per sfortuna di Icarus non era il dettaglio peggiore sul suo aspetto.
Era l'emblema della trascuratezza, o forse dell'incapacità di allacciarsi una cravatta o, più probabilmente, di entrambe.
Portava la giacca per modo di dire, stropicciata e almeno tre volte la sua taglia, tanto che nel suo caso assomigliava più ad un mantello, la camicia fuori dai pantaloni, coi primi e gli ultimi due bottoni slacciati, spiegazzata al pari se non di più della giacca, e la cravatta nemmeno era annodata, ma semplicemente penzolava appesa alla sua nuca come una sciarpa molto sottile.
Solo per questa motivazione, fu tentato più volte di desistere dal suo intento e mettersi a cercare qualcun'altro.
Considerando la nottataccia che aveva passato, nella sua scarsa conoscenza di quello a cui stava andando incontro aveva deciso di partire con coloro che probabilmente avrebbero avuto più rimostranze nel farsi coinvolgere, per poterci lavorare con una mente più lucida, e poi passare a quelli meno complessi.
Mai rimpianse così tanto una scelta in vita sua.
Sentir parlare Cain anche solo per un secondo era equivalente ad un martello pneumatico non nelle orecchie (sarebbe stato già meno doloroso) ma direttamente all'interno del cervello, che scavava da dentro.
Nemmeno anni di solitudine e silenzio lo avrebbero potuto curare da quello che stava subendo.
Si ripetè con scarsa convinzione diverse volte che sfortunatamente quello... gnomo era uno dei pochi elementi strettamente necessari al suo piano.
Ovvero, era cieco, e la cosa gli permetteva di portare degli occhiali dalle lenti completamente nere tutto il tempo, in modo che sovente potesse fingere che fossero degli occhiali da sole impunemente.
Totalmente cieco, e probabilmente dalla nascita, cosa ancora più vantaggiosa per molti fattori.
Sospirando mentalmente e cercando di sopprimere la meravigliosa prospettiva che si era aperta nella sua testa di andarsene, Icarus trovò la forza interiore di sedersi di fronte a Cain durante la colazione e iniziare a parlargli.
- tu sei Cain Briggs, corretto?- chiese, non avendo nulla di meglio da dire:
- e tu puzzi. Di inglese. Inglese ricco- rispose.
- se si tratta di questo, tu mi sembri odorare di ignorante cresciuto in una stalla, ma non era questo l'argomento della conversazione.
Sono venuto sin qui a farti una proposta sfidando quanto tu sia ripugnante, quindi cerca di comprendere quello che sto per dirti. Sempre che tu conosca le parole che sto dicendo- Cain fece del suo meglio per non sembrare oltraggiato da quello che aveva appena sentito, finendo però, per sembrare piuttosto assorto nell'atto di capire le frasi che gli aveva appena rivolto.
Si sentì libero di proseguire.
Illustrò in maniera piuttosto vaga come aveva fatto con gli altri la sua idea e di come avrebbe potuto saperne di più di lì a qualche giorno, per poi mettere ben in chiaro il fatto che il piano fosse estremamente vantaggioso, per poi attendere una risposta.
L'altro era immobile, la sua espressione idecifrabile dietro le lenti oscurate, per un altro paio di minuti, prima di esclamare, con l'aria di chi sa di aver vinto una conversazione:
- sai vecchio mio, secondo me, tu hai proprio una faccia da stronzo- silenzio. Icarus alzò gli occhi al cielo.
- se per te la mia faccia è solo una supposizione, io purtroppo sono costretto a vedere la tua, e posso garantirti che darei tutto quello che possiedo per essere cieco al momento.
Ora gradirei che tu smettessi di essere l'infante che sei per un minuto e mi rispondessi-
- ah perchè, secondo te ti stavo ascoltando?- il suo tono era molto meno baldanzoso ora. Aveva colpito nel punto giusto.
- si, a meno che tu non sia davvero stupido come io penso che tu sia- il nano (per quanto non fosse veramente affetto da nanismo, era solo... basso senza bisogno di fattori esterni ad aiutarlo) sbuffò mangiando dei cereali dall'aria tossica. Forse non vederli aiutava a ingerirli.
Si rivelò che era stupido come immaginava, quindi dovette rispiegare da capo.
- credevo fossi il Lord del Sussex, non un boyscout che cerca reclute. E poi è un no-
- non hai nemmeno prestato attenzione a ciò che ti ho esposto-
- cerchi qualcuno per scappare da qui visto che non vuoi rovinare le tue manine aristocratiche, cosa c'è da capire vecchio mio-
- come pensavo, non hai compreso una sillaba-
- pensavo a come avrei potuto gettare il thè nella baia di Boston una volta uscito- più battute faceva sull'Inghilterra, più Icarus sentiva il suo odio crescere con sempre maggiore trasporto.
- io a come mi procurerebbe immenso piacere vederti prendere fuoco, però sono riuscito ad capire cosa stessi dicendo, per quanto tu parli come uno scaricatore di porto- doveva esserci qualcosa nel suo tono o nella frase che aveva espresso che aveva colpito il ragazzino che gli stava seduto di fronte, perchè ammutolì e raschiò il fondo della sua tazza di cereali con un vago cipiglio meno ribelle.
- quindi cos'è che vuoi fare, farti sparare uscendo di qui giurando fedeltà alla regina?- masticò in modo particolarmente rumoroso, e secondo lui era fatto a posta per dargli fastidio.
- se tutto va come prevedo, non sarà possibile-
- in che senso, il tuo accento inglese sa anche deviare i proiettili oltre che far emigrare le donne in brasile?-
- una persona deceduta non può sparare- Cain rimase in silenzio per la seconda volta, stavolta per approssimatamente dieci secondi, un vero record.
Icarus la contò come una grande vittoria da parte sua.
Tentò di dire qualcosa un paio di volte, e mascherò i suoi tentativi falliti mangiando aggressivamente un toas molto bruciato, tossendo quando gli si polverizzò sotto i denti non appena lo mise in bocca.
Immaginò che stesse cercando di trovare il modo in cui aveva intenzione di ottenere quel risultato, ma non trovava nessuna risposta.
- prendo il tuo silenzio come una considerazione approfondita della mia proposta- si alzò, prendendo il vassoio da cui non aveva mangiato niente per buttarlo via:
- non ho detto questo!- lo richiamò, ma non sembrava molto sicuro, anzi, sembrava molto dubbioso in quel momento.
Instillargli della curiosità aveva funzionato sin troppo bene. Era veramente troppo codardo, troppo attaccato alla vita per avere davvero l'intenzione di passare la sua esistenza a servire il St. Marcel o dentro una prigione; per quanto si sforzasse di mantenere l'immagine del ragazzino obbediente al limite dell'adulazione, era solo un puro e semplice codardo spaventato a morte dall'idea di morire o di soffrire. Era discretamente facile da capire.
Voleva solo ottenere vantaggi, ma non voleva rischiare.
Tuttavia, una volta instillata una gemma di possibilità, se avesse capito che effettivamente i vantaggi erano di più dei rischi, ancora meglio se molto superiori ad essi, avrebbe accettato senza la minima esitazione.
Compiaciuto, scivolò via lasciandosi dietro solo le parole: "terzo corridoio sud, nell'ala esterna del palazzo, al secondo piano, prima della colazione, dopo il primo richiamo, fra tre giorni".
Harley Armstrong era una persona senz'altro oltremodo particolare.
La sua antipatia generalizzata per chiunque le si presentasse davanti e la sua ossessiva pretesa che il mondo fosse una copia della sua casa per le bambole davano sbocco ad una sorta di essere che non rivolgeva la parola a chicchessia nemmeno sotto tortura, tranne quando minacciava di fargli rapporto con una scusa falsa se non si fossero sistemati la cravatta o la camicia.
Icarus se non altro condivideva il suo spirito.
Colse l'occasione di affiancarsi a lei nel tragitto verso il cortile e quindi verso le aule per le lezioni, dopo che la ragazza aveva appena finito di rimproverare una bambina che doveva essere all'incirca al suo terzo anno di permanenza, che per farla stare zitta le aveva fornito un pezzo di toast che si stava conservando per le ore successive, e che ora Harley sgranocchiava con aria fiera da sotto il suo mastodontico cappello nero.
Era l'unica della struttura a cui fosse concesso di portarlo, per proteggersi la pelle e gli occhi quasi trasparenti dalla luce solare.
Per una motivazione simile, lui possedeva delle lenti più scure da mettere sui suoi occhiali per proteggersi durante le ore più calde.
Era talmente pallida che il suo aspetto sembrava etereo, quasi che fosse fatta di una fine porcellana, una sorta di bambola parlante ed estremamente vanesia ed egocentrica, alquanto difficile da distruggere, non perchè fosse chissà quanto invulnerabile, ma per il semplice fatto che tendenzialmente era lei quella che annichiliva gli altri prima che potessero anche solo pensare di prendersela con lei.
- Harley Armstrong, suppongo?- non supponeva proprio niente, lo sapeva e basta. Ma per poter iniziare a parlare con lei per sua sfortuna era costretto a ricorrere a mezzucci come il tentativo di apparire meno preparato di lei.
Poi avrebbe potuto lentamente concedersi l'immenso piacere di ribaltare i ruoli.
- sono io- morse il pane - e non voglio parlare con te- ferito nel suo orgoglio misantropico, Icarus decise di abbandonare l'ipotesi "lentamente" e di passare ad una molto più soddisfacente idea di "subito".
- nemmeno io avrei voluto abbassarmi al livello di parlare con te, eppure eccomi qui- la ragazza serrò le labbra con cipiglio irritato, e stava sicuramente per sibilare qualcosa che secondo lei avrebbe dovuto metterlo a tacere, ma fu più rapido.
- a dirti che se accetti quello che ti proporrò potresti andare via da qui- il sopracciglio di Harley si abbassò, facendo passare la sua espressione a qualcosa che assomigliava alla curiosità.
- ti serve il mio aiuto?-
- se fosse disponibile- iniziarono a scendere la grande scalinata a doppia elica che una volta costituiva buona parte dell'ingresso e la via più diretta per il primo piano, e che ora costituiva la via più rapida per andare a lezione.
- potrei morire?-
- si, la probabilità non è indifferente- Harley si irrigidì qualche istante.
Di certo si aspettava che le avrebbe lisciato il pelo come faceva chiunque volesse ottenere i suoi favori.
Ma Icarus non aveva alcuna intenzione di proseguire per quella strada.
- scordatelo- trovava incredibile la capacità dei sociopatici narcisisti di essere precisi e prevedibili come degli orologi svizzeri.
Era quasi divertente in un certo senso, rispondeva per filo e per segno come si sarebbe aspettato che lei rispondesse, tanto che la cosa si prospettava così facile da stargli quasi facendo perdere un poco di gusto.
- rispondi esattamente come avevo pensato che tu avresti risposto- alzò le spalle, frugando in tasca e rimettendosi la sua immancabile sigaretta fra le labbra, accellerando un poco il passo per superarla.
Pochi secondi dopo, la aveva per la seconda volta al fianco, con aria indignata.
- tu invece mi sorprendi. Mi aspettavo che avresti che ne so, cercato di pregarmi di partecipare invece di andartene di punto in bianco come se non fossi fondamentale per qualsiasi cosa tu debba fare- puntualissima. Mise di nuovo via la sigaretta.
- non trovo produttivo mettermi a implorare qualcuno di assolutamente sostituibile, non so se a te invece diverta- il colorito della ragazza passò dal bianco cadaverico al rosso livido, era così arrabbiata che quasi inciampò mentre camminava perchè non stava guardando il percorso.
Era più semplice di giocare a battaglia navale con un infante.
- come sarebbe "assolutamente sostituibile". Hai idea di quanto io sia molto meglio di te e di chiunque altro qui dentro? Se c'è qualcuno che farebbe filare il tuo ridicolo piano liscio quella sono io-
- ho idea di quanto tu abbia una gradevolezza equiparabile a quella della carta vetrata se non minore, sul resto che hai detto, non ci giurerei- stava già iniziando ad avere la nausea da quella conversazione, ed avevano parlato solo quei pochi minuti necessari a finire di scendere le scale.
Il suo patetico tentativo di trovare qualità dove non esistevano era estenuante, così come la sua convizione becera e facilmente smentibile di essere migliore degli altri per... precisamente quali meriti? Non era in vetta alla graduatoria nè il suo numero era troppo elevato, non l'avevano selezionata per il corso per supersoldati perchè era troppo instabile, non sapeva nemmeno fingere bene di voler essere ubbidiente ai responsabili, visto che i suoi scatti d'ira non erano rari.
Era come guardare un maiale dichiarare di essere un leone.
Ridicola.
Una bambina ottusa, viziata e convinta che tutto il mondo fosse ai suoi piedi, incapace di vedere che invece, era l'esatto contrario, visto che bastava giocherellare per un attimo coi suoi punti scoperti (estremamente facili da vedere per altro) che la si aveva in pugno e la si poteva manovrare come la bambola che sembrava essere.
La sua ossessione per l'idea di essere speciale era al limite del ridicolo, al livello di un pazzo che rincorre delle fate che crede lo riempiranno d'oro, per poi cadere dritto in una palude senza rendersi conto che quelle cui correva dietro non erano altro che illusioni del suo ego che lo aveva portato a credersi importante quando in realtà era solo un patetico stolto.
Quello che vedeva in lei? La quintessenza della cecità e dell'ego umano.
- io sono...-
- e allora se sei così tanto, vieni fra tre giorni al terzo corridoio sud dell'ala esterna, al secondo piano, dopo il primo richiamo e prima della colazione e potrai sapere il piano completo e farlo filare liscio come credi di saper fare- ora Harley sembrava molto meno sicura.
Rapporto causa effetto.
La scombussoli un poco, le fai capire che non la tratterai coi guanti e immediatamente non sa più che pesci pigliare.
- non ho detto che avrei partecipato ho detto solo che...-
- oh, quasi scordavo, sei solo una sbruffona codarda buona a darsi arie ma che in realtà non è capace di fare proprio niente. Esattamente il motivo per cui non volevo perdere tempo con te- ormai era praticamente fatta; era talmente alle strette che aveva persino smesso di guardarlo e si torceva le mani per la cocente umiliazione che sapeva di star riportando.
- io sono la migliore, e tu avrai estremo bisogno di me, quindi non capisco perchè continui a fare così invece di chiedermelo e basta-
- hai detto che non avresti partecipato, quale utilità ne ricavo nel chiedere. Ora se tu volessi scus...- con un sibilo al limite dell'esasperazione, Harley mise finalmente fine a quello strazio.
- senti, vaffanculo. Va bene, verrò ad ascoltare il tuo piano inconcludente in quel corridoio, ok? Non accetterò mai di partecipare ma almeno potrò dirti in faccia quanto ne avrei saputo tirare fuori uno migliore- sbottò, andandosene a grandi passi come a cercare di sottolineare quanto lei gli fosse superiore, quando in realtà, era appena stata completamente raggirata.
Icarus era estremamente rilassato all'idea di dover a che fare con Bethany Kendrick.
Essendo un surrogato di automa, non avrebbe iniziato a decantare le proprie lodi come un saltimbanco nè avrebbe avuto il coraggio di fare battutine di infima qualità un secondo sì e l'altro pure.
Avrebbe potuto comunque mostrare di non essere totalmente convinta, ma in ogni caso era una cosa più fattibile per il suo mal di testa in rapida ascesa.
Una cosa che lo rendeva particolarmente incline all'essere di buon umore (nei limiti consentiti dall'essere sè stesso) era il fatto che la ragazza fosse meno somigliante ad un essere umano e più ad una macchina, in questo caso per uccidere visto che faceva parte della sezione dei supersoldati, ovvero tutti coloro che dal secondo anno erano stati giudicati idonei (una decina scarsa) a ricevere un'addestramento militare oltre che servire da cavie di laboratorio e poi come spie o infiltrati, ed essere usati come carte vincenti sul campo di battaglia.
Era decisamente alta, fisicamente robusta e grossa, la sua fisionomia ricordava un armadio pieno di tagli e quelle che dovevano essere bruciature di sigaretta.
Ed era uno degli elementi essenziali per il suo progetto.
Quando la trovò, infatti, fissava senza nessun reale sentimento il suo pranzo, senza aver ancora mangiato niente, con una forchetta che appariva ridicolmente piccola fra le sue mani.
Non disse niente quando le si sedette di fronte, sollevò solo il suo sguardo tetro e verde spento per osservarlo come a chiedergli se volesse qualcosa da lei:
- come avrai indovinato, vorrei chiederti qualcosa- esordì, attendendo che dicesse qualcosa. Ancora silenziosa, annuì.
- ti interesserebbe la prospettiva di andartene da qui?- Bethany non sapeva scegliere. Era totalmente incapace di decidere, tanto che tutti i giorni osservava il contenuto del suo piatto sino a quando qualcuno non le indicava cosa avrebbe dovuto mangiare per cominciare e cosa in seguito, spesso sotto richiesta di averne una parte.
Ed era esattamente su questo che lui sapeva di dover puntare se voleva portarla dalla sua parte.
Dopo quasi dieci minuti di silenzio (durante i quali Icarus piluccò un poco di pane e ceci che avevano tutta l'aria di essere stati raccolti da una discarica), Bethany ammise con voce soffusa:
- non ne ho idea. So che se lo facessi e fallisse ne subirei le conseguenze. Non avrei idea di cosa fare dopo. Perchè dovrei voler andare via?- Parlava a frasi scattanti, come in un telegramma.
- non preoccuparti del dopo, è la parte meno rilevante. Quanto al perchè dovresti andartene da qui, è semplice. Evitare di morire- la ragazza alzò un sopracciglio, come per chiedere spiegazioni.
- ma qui non morirò, è se scappo da qui che potrei- Icarus bevve un sorso d'acqua e lo ripoggiò sul tavolo con calma.
- infatti. Qui dentro. Ma mettendo caso che tu decida di rifiutare, fra un anno noi saremmo affidati a una "nuova gestione" come la chiamano i sorveglianti. Tu forse non dovresti avere problemi a superare il test psicologico e passare all'esercito, tuttavia a quel punto ti spedirebbero sul primo fronte aperto che si ritroveranno, e lì le tue probabilità di morire sarebbero circa del settantatrè...-
- settantaquattro - lo corresse, avendo sicuramente appena fatto il calcolo. Non per nulla era la migliore della classe di algebra.
- ...settantaquattro percento più elevate di quelle che avresti accettando di sentire il mio piano per scappare- silenzio. Bethany lo guardò di nuovo, interrogandolo con gli occhi, cercando di trovare una pecca nel suo ragionamento.
Poi rispose, non avendone trovate, probabilmente
- cosa vuoi che faccia?- presa.
- per il momento, devi limitarti solo a recarti, fra tre giorni, al terzo corridoio sud dell'ala esterna, quello del secondo piano, prima della colazione ma dopo il primo richiamo- quando annuì ancora, pensò di aver concluso la conversazione e potersi alzare, cosa che effettivamente aveva iniziato a fare, portando con sè il proprio vassoio, quando, all'ultimo minuto, lo richiamò.
- potresti dirmi cosa dovrei mangiare per cominciare e cosa dopo? Io non ci riesco- Icarus rimase un secondo interdetto, ma poi le rispose di iniziare col pane mescolato ai ceci, e poi passare alle carote e infine alle patate.
Quando gli chiese se ne voleva una parte come compenso, declinò e se ne andò, lasciandosi quella strana creatura che era Bethany Kendrick alle spalle.
Per quanto non la trovasse ripugnante, il motivo di questo era il fatto che si trovasse su un gradino della scala umana che Icarus considerava talmente indifferente da non perdere tempo ad avere un'opinione di loro.
Una schiera indefinita di persone che si ammassavano in una infinita agonia di sopravvivenza, spaventati dalla morte ma che vivevano una vita che ad essa era paragonabile, completamente insipida di piaceri e di qualsivoglia interesse in niente, nel costante tentativo di rincorrere qualcuno che si prendesse il peso di guidarli e di comandarli a proprio piacimento, senza nemmeno doversi curare del fatto che la cosa gli facesse del male o meno sinchè li tenevano in vita, incapaci di scegliere qualcosa, incapaci di capire che a quel punto, per loro, sparire e restare erano costituiti della stessa pasta.
Non riusciva ad odiarli, ma solo perchè non li reputava nemmeno meritevoli del suo odio.
Alexander Sweeney invece era una persona che avrebbe volentieri evitato di incontrare, che però sfortunatamente era anch'esso un ingranaggio fondamentale del suo piano.
Lo trovò tornando a verso le aule dopo il pranzo, intento a ballare quello che sembrava essere un tip tap su delle foglie secche mentre procedeva, mangiando qualcosa.
Una piccola digressione su questo individuo.
Alexander passava il suo tempo a recitare personaggi che aveva avuto modo di vedere nei film durante la sua infanzia, quindi vederlo ballare in una situazione simile non era affatto strano per uno come lui, anzi era perfettamente nella norma.
Era un ragazzo biondo, assurdamente alto, dal temperamento altalenante, visto che, come ho detto, passava da un personaggio all'altro senza mai passare per la sua reale personalità, comportandosi come quel personaggio si sarebbe comportato, e quindi di conseguenza in maniera alquanto assurda.
Ma non era questo il motivo che lo rendeva fondamentale.
Il motivo era che quel ragazzo era il miglior ladro dell'istituto.
Quando si avvicinò infatti notò che quelle che stava mangiando erano arachidi, che non erano nel loro menù del pranzo, ma erano in quello dei sorveglianti, e che lui probabilmente aveva trafugato in qualche maniera poco pulita.
Tutti all'interno del St. Marcel rubavano, non sarebbero mai potuti sopravvivere altrimenti per quanto coloro che lo gestivano pensavano fosse una cosa molto limitata. La realtà era che persino i bambini ci riuscivano visto il livello di efficienza e l'intelligenza di coloro che ci lavoravano.
In ogni caso Alexander riusciva a farlo in modo così eccellente da avere una forma fisica quasi sana e possedeva un'alimentazione piuttosto variegata.
Aveva assoluto bisogno delle sue capacità, per quanto avrebbe fatto volentieri a meno di lui.
Se non altro, fu dispensato dal dover cominciare la conversazione:
- oh, salve, posso offrirle una nocciolina signor Lancaster?- non cercava nemmeno di nascondere il fatto che gli stesse per scoppiare a ridere in faccia e che lo stesse prendendo in giro.
- no, temo di dover rifiutare la tua offerta per mia fortuna- se avesse davvero accettato gliel'avrebbe fatta pagare a peso d'oro.
- perché mai, pensi la abbia avvelenata?- schioccava le dita al ritmo della stessa musica inesistente che sentiva per ballare.
- no, perché detesto le arachidi- per un attimo, lo spilungone biondo sembrò molto ferito dalla cosa, poi tutto tornò come prima.
- cosa ti porta qui, allora, amico mio?-
- una proposta che potrebbe suscitarti interesse- l'altro iniziò quello che doveva essere il ritornello, perché si muoveva in modo frenetico.
- ah no no, se è di nuovo una qualche collaborazione per un furto io mi tiro indietro, l'ultima volta con Molly J...- Icarus sospirò, sentendo che non avrebbe resistito a lungo, già provato dalle persone con cui aveva già parlato.
Quella sua forzata eccentricità era vomitevole, quasi fosse costantemente impegnato in un irruento e selvaggio tentativo di concentrare costantemente l'attenzione degli altri su di sè come un bambino di tre anni particolarmente scemo che deve far sapere a tutti che sa fare qualcosa anche quanto sta semplicemente respirando.
Costruire un'intera personalità sul fatto di non mostrarne mai una poteva sembrare una mossa intelligente, certo.
Ma quello che Icarus riusciva a vedere era solo un fallito che non sapeva fare niente di meglio che ricordare in eterno l'unica cosa che lo rendeva interessante e poi risputarla perfettamente identica in faccia agli altri aspettando che pensassero quanto era incredibile, quanto era portato, quando era grande per essere artefice di una simile unicità.
Era uno spettacolo penoso.
- non riguarda una cosa banale come un furto. Si tratta di evadere da qui. E anche qualcosa si più- Alexander smise di muoversi. Voltò il capo e lo abbassò verso di lui con aria basita e vivamente sorpresa
- cosa vai blaterando mio giovane amico?-
- esattamente quello che hai sentito, ora rispondimi perché parlare con te è una delle cose peggiori che mi siano mai capitate e vorrei fare in modo che se non altro durasse poco- doppiamente stupito e forse anche colpito nel suo orgoglio teatrante, il ragazzo riprese a schioccare le dita ma non a muoversi, con aria pensosa, sino a quando non si accarezzò un poco il mento con la mano sinistra e disse.
- la tua idea è interessante, tuttavia vorrei...-
- delle delucidazioni presumo -
- leggi nel pensiero dunque?-
- non serve quando hai a che fare con qualcuno intelligente quanto l'arachide che sta mangiando.
In ogni caso, avrai tutte le delucidazioni che ti servono se andrai tra tre giorni, al terzo corridoio sud dell'ala esterna, al secondo piano, prima della colazione ma dopo il primo richiamo- detto questo lo sorpassò a grandi falcate, mescolandosi alla folla degli altri internati in marcia, lasciando Alexander in preda alla sua confusione atroce.
Era stato quasi più difficile degli altri parlare con lui, non tanto per le resistenze che aveva posto o il suo grado di fastidiosità (Cain lo doppiava di un bel pezzo e anche Harley si difendeva bene) ma per il fatto che gli sembrava di avere a che fare con una marionetta che continuava a ripetere a pappagallo quello che probabilmente anni di film gli avevano imboccato.
Era una apparenza talmente malsana e ad un certo livello persino oscena che lo portava a percepire il proprio stomaco annodarsi per l'angoscia, a causa di quella sorta di ricordi che riaffioravano nella sua testa ogni volta che apriva bocca sovrapponendosi alla sua parlata con irruenza quasi innaturale.
L'ultima persona con cui avrebbe dovuto avere a che fare prima di potersi finalmente concedere un paio di giorni di isolamento totale (e meritato) in cui immergere tutto sè stesso solo nella pianificazione era Diana Izzo.
Notò la sua chioma fulva nella massa di studenti esausti che si dirigevano verso la struttura dopo le lezioni serali, su un sentiero immerso nella luce soffusa per l'imminente tramonto.
Mentre le si avvicinava, si domandò che ore fossero.
Si trascinava come un fantasma sin troppo appariscente, stanco persino della sua morte, a malapena sollevando i piedi dal terreno ma limitandosi a strisciarli a pochi centimetri da esso, procedendo lentamente ma con passo fermo e costante.
A prima impressione, gli sembrò quasi che avrebbe dato qualsiasi cosa per essere capace di fondersi con coloro che la circondavano e scivolare via inosservata, avvolta della sua stanchezza, allontanandosi sempre di più sino a trovarsi sempre più sola, incastrata nel buio più nero, e lì e solo lì cadere a terra e lasciarsi morire.
In mancanza di questa possibilità, per quanto fosse chiaro quanto stesse per crollare in terra per il sonno, avanzava con una strana determinazione che non riusciva a vedere riflessa negli altri, quasi avesse in atto una sorta di lotta contro sè stessa di cui solo lei era a conoscienza.
Quando le si avvicinò, bofonchiò con molta poca grazia:
- cosa diamine ci fai qui- non era famoso per una qualche passione nel conversare, e lei nemmeno, quindi ne usciva che la situazione era estremamente sgradita ad entrambi, ma portava il vantaggio che ambedue le parti non volessero dilungarsi in conversazioni o digressioni inutili, ma tagliare corto e potersi abbandonare al pensiero che a meno di due ore da quel momento avrebbero potuto godersi la meravigliosa senzazione di vuoto totale che gli produceva il sonno.
- farti un'offerta- rispose, camminandole di fianco col suo solito portamento elegante ed austero, mentre al contrario Diana era ingobbita quasi si stesse proteggendo contro una raffica di vento gelido.
- in che senso un'offerta? Non sono in vena di stare a capire i tuoi dico e non dico, parla. E sbrigati- il suono del suo vago accento italiano forse dava alle sue frasi una sorta di aura schietta e allo stesso tempo distratta alquanto bizzarro da sentire.
Non ebbe tempo di concentrarsi troppo sulla cosa considerando la mole di stanchezza che gli gravava sul corpo.
- ho un'idea per evadere da questo posto, fra le altre cose, ma al momento non ho nè la possibilità nè la prestanza mentale necessaria per rivelarti i dettagli.
Se trovi la cosa di tuo gradimento, fatti trovare prima della colazione ma dopo il primo richiamo, al terzo corridoio sud dell'ala esterna al secondo piano- la ragazza nemmeno si girò a verso di lui dopo che ebbe finito di parlare, troppo concentrata nel guardare i propri piedi e sul fatto di camminare per cose banali come stupirsi, rispondere, rifiutare o tutte e tre le cose assieme.
Dopo diversi minuti di camminata silenziosa, quando ormai si iniziava a vedere la struttura del vecchio palazzo neogotico che ospitava i dormitori e il grosso della St. Marcel, schioccò le labbra fra di loro e decise di voltarsi per la prima volta da quando avevano iniziato a parlare.
- non mi sarei mai immaginata che un surrogato di Lord Inglese residuato dell'ottocento fosse così disperato da dovermi chiedere di aiutarlo- non capiva il suo tono. Sembrava sarcastico, ma allo stesso tempo vi era come una sfumatura di cui non comprendeva la valenza, il sapore, che rendeva la ragazza che arrancava accanto a lui ancora più incomprensibile.
- io non avrei azzardato nemmeno nelle mie più remote ipotesi di dover avere a che fare con qualcuno che copre il suo occhio buono invece di quello ferito con dei capelli nel tentativo di risultare più intimidatoria, eppure ho dovuto ricredermi- Diana rimase in silenzio, toccandosi per un attimo il ciuffo di capelli che le pendeva in mezzo al viso, coprendone la parte destra, lasciando in bella vista l'occhio sinistro, sfregiato da una lunga cicatrice che lo attraversava nel centro preciso, da sopra il sopracciglio sino alla parte alta della guancia, passando per la palpebra, quasi aprendolo in due.
Qualsiasi cosa le avesse procurato quella cicatrice, era un miracolo che non fosse riuscita a tagliarle il bulbo oculare ma solo ciò che stava sopra.
Non sembrava offesa, anzi, si limitò a fissarlo per un secondo e dire.
- touchè- altro silenzio. Il suo modo di condurre una conversazione era sia estenuante che gratificante, perchè se non altro non doveva sentirla blaterare ogni attimo, ma allo stesso diluiva qualcosa che si sarebbe potuto dire in pochi secondi nell'arco di diversi minuti, allungando terribilmente il brodo.
- verrò a sentire cosa hai da dire, ma non ti garantisco niente- rispose alla fine, sospirando di spossatezza e sistemandosi meglio un bottone della giacca.
Icarus, felice della conclusione di quella giornata infausta, annuì, osservando ancora una volta la sua figura ingobbita, e si dileguò.
In qualche modo, era rimasto quasi confuso dal suo colloquio con Diana, e da lei stessa.
Sembrava che in lei convivessero, mal assemblati e modellati, due spiriti diametralmente opposti fra loro, che le impedivano di essere compiutamente o l'una o l'altra cosa.
Arrendevole alla stanchezza e non curante di come si mostrava, ma allo stesso tempo determinata a non crollare e impeccabile nella precisione del suo vestiario, scettica ma insieme sembrava già quasi decisa ad accettare, usava parole eleganti eppure il suo modo di esprimerle era vuoto al limite del rozzo, in un'altalena di contrasti e contrari estenuante.
In un certo qual modo, anche lei era sempre indecisa al pari di Bethany, ma in modo consapevole, quasi avesse lei stessa scelto di essere un'amalgama di tutto e quindi come risultato di non essere niente sino in fondo, una creatura troppo nebulosa per poter essere afferrata e compresa, inaffidabile e sinuosa, capace di adattarsi ovunque ma a cui era impossibile mettere radici.
Un essere che era non essendo.
Il trionfo dell'assurda pretesa e desiderio umani di poter essere ogni cosa nello stesso momento, senza davvero sapere cosa volesse dire il peso della vera e propria esistenza.
Forse, fra tutti coloro con cui aveva avuto a che fare in quei due giorni di contatti forzati, era quella che gli creava maggiore repulsione ma allo stesso tempo era riuscita ad arrivare al punto inconsueto di suscitare in Icarus un qualcosa al limite della curiosità.
Estremamente, inconsueto.
Si vede quanto io sia lunatica dal semplice fatto che questo capitolo passi dall'abisso a Cain che dice ad Icarus che secondo lui puzza.
> parole: 7900
> prossimo capitolo a ventotto giorni da oggi (sei marzo, perché febbraio è una merda ok, non può avere un numero di giorni normale, no sta merdina deve farmi rifare tutti i calcoli per il calendario di pubblicazione), alle 18:00
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