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Montparnasse; le servant

   «Dannazione», sibilò a denti stretti nel verificare che la sigaretta si fosse spezzata nella colluttazione di poco prima. Più precisamente quando assestò quella terribile testata sul naso dell'idiota.
Ora che ci pensava, la fronte gli faceva ancora male.
Con una schicchera del medio fece volare lontano da sé quello che rimaneva della povera sigaretta e ne estrasse un'altra, accendendola con urgenza.
   Cercava di appendersi a qualsiasi escamotage esistente per ottundere la sua testa di piccoli e brevi pensieri inutili, e far sì che non arenasse in ben altri lidi. Del resto si conosceva bene, non era come gli stupidi rampolli di quel gruppo di universitari: trattenuti, misurati e calcolatori. Non viveva nella sua testa come facevano loro. No, Montparnasse abitava il suo corpo nel vero senso della parola. Dove la sua mano voleva andare, lui la mandava, che fosse per farsi una sega o per sganciare un destro.

Era un animale selvatico, seguiva esclusivamente il suo naso, il suo stomaco e il fegato. Dunque, se fiutava una menzogna, seguiva quella convinzione come un religioso, se aveva fame o sentiva un vuoto dentro, si arrabattava come poteva per riempirlo, e se il fegato si avvelenava di rabbia, trovava il modo più veloce per spurgarlo.
   E purtroppo, in quel momento, era l'emisfero a sud a richiedere la sua attenzione.
Volente o nolente, Courfeyrac lo aveva eccitato e lo aveva lasciato con la bandiera a mezz'asta. E un corpo come il suo, con interruttori come i suoi, era difficile da gestire con la sola testa.

Si tirò il cavallo dei pantaloni, sperando che tanto bastasse a dargli un minimo di sollievo, e si attaccò voracemente alla sua sigaretta.
   Un paio di minuti dopo gli sfilò davanti Grantaire, di nuovo, che cercava di tornare a lavoro.
Incredibile come in quelle condizioni fisiche riuscisse a vedere chiunque con occhi diversi. Perfino mentre picchiava Courfeyrac, non aveva smesso un attimo di immaginarlo inginocchiato davanti a sé.
E adesso anche Grantaire gli sembrava un bel bocconcino.
   «Ehi bella, quanto ti prendi per una sega?», gridò per attirare l'attenzione dell'altro nel tentativo di acquietare gli animi e riportare tutto alla spontaneità iniziale.
Grantaire gli alzò il medio, poi si fermò davanti a lui a braccia conserte. Un sopracciglio grottescamente arcuato.
   «Per poi beccarmi un destro in bocca? No, grazie.»
Sghignazzò. Non aveva tutti i torti.
Grantaire gli si avvicinò, appoggiandosi allo stesso muro dov'era appoggiato lui, con la spalla che sfiorava la sua.
Se ne accorse perché non era un grande estimatore del contatto fisico, anzi, non lo era per niente. Soprattutto quando erano gli altri a toccarlo.
Lui, invece, aveva carta bianca su chiunque, ovviamente.

   «Ti capisco, comunque», riprese Grantaire guardando dove, molti metri più in là, Courfeyrac stava appoggiato alla sua moto dando loro le spalle.
   «Da una parte mi ha anche fatto piacere vederlo così; ha baciato il mio ragazzo», poiché non aveva altre sigarette con sé, Grantaire gli sfilò la sua dalle labbra per rubarne un tiro e ripiazzarla lì dov'era, «però non puoi andarci così pesante, non è stata colpa sua.»
   «L'ho saputo, del bacio. Me l'ha detto il mio ragazzo» Montparnasse glissò completamente il rimprovero dell'amico e di tutta risposta l'altro rise della sua battuta.
   «Siamo due cornuti», Grantaire gli batté una mano sulla spalla e riprese la strada verso l'entrata.
Lui rimase ancora un altro secondo lì, a guardare il presunto amante mettere in moto e sparire insieme al fastidioso ronzare del suo mezzo.
   «Coglione», sussurrò lasciando cadere il mozzicone morto ai propri piedi per poi stritolarlo con la punta dell'anfibio.
Quindi anche lui tornò alla propria moto.

Mentre era tutto impegnato a richiudersi i guanti intorno ai polsi, si rese conto che il telefono poggiato sulla sella si era illuminato, notificando un messaggio da parte dell'ultima persona al mondo da cui potesse aspettarselo.
   "Mi serve il tuo aiuto, ti aspetto al campo."
Sbuffò, ma non avrebbe ignorato quella chiamata alle armi. Non aveva molte certezze nella vita, ma che non avrebbe mai mancato all'appello di quella persona, era una di queste.
Che non lo avrebbe mai ammesso era un'altra certezza.

   Arrivò al campo una ventina di minuti dopo, la corrente era ancora staccata e l'unica luce che rischiarava le facce provate dei suoi abitanti, era quella del falò che erano soliti accendere per festeggiare, a pochi metri dall'entrata.
Si guardò bene attorno per assicurarsi che nessuna volante della polizia fosse nei paraggi, e subito dopo essersi sbarazzato del casco, un'ombra alta e avvolta in una leggera giacca nera gli si avvicinò a passo spedito, sistemandosi le bretelle di uno zainetto sulle spalle.
Nel riconoscerlo, Montparnasse si sfiorò il mento con tre dita; un gesto che il suo clan gli aveva insegnato per salutare con rispetto chi veniva considerato a un gradino più in alto.
Ovviamente, lo salutava così soltanto quando erano soli e quando non era in vena di litigi.
   «Biondo.» Lo salutò.
   «Montparnasse», Enjolras gli andò incontro ricambiando il suo saluto con un lieve cenno del capo e uno di quei suoi mezzi sorrisi stoici.
   «Che ti serve?»
   «Ci sono dei conti da apparare», 'Ras allungò lo sguardo verso l'appezzamento di terra pieno di roulotte davanti a lui, «io non vendico solo i miei, ma anche i tuoi, ricordatelo.»
Montparnasse strinse gli occhi e i denti, evidentemente colpito da quelle parole.
Enjolras sapeva sempre esattamente cosa dire in base a chi aveva davanti. Sapeva che, per esempio, per convincere 'Ponine a fare qualcosa doveva farla sentire utile, capace, e spronarla, mentre per convincere lui doveva puntare tutto sulla sua gente, sulla sua famiglia. Era un maledetto bastardo, ma era bravo in tutto quello che faceva.

   Mezz'ora dopo Montparnasse spense la moto a parecchi metri di distanza dalla stazione di polizia più grande e più vicina, smontò da cavallo e aiutò Enjolras a fare lo stesso, conoscendo le sue difficoltà.
Non sapeva cosa avesse in mente, non si aspettava nemmeno una spiegazione, in realtà. Enjolras spesso preferiva cavarsela da solo, e forse aveva effettivamente soltanto bisogno di qualcuno che lo accompagnasse. Forse voleva dimostrargli, oltre ogni ragionevole dubbio, che lui reagiva anche quando veniva toccata quella gente. Forse voleva solo dimostrargli, sempre oltre ogni ragionevole dubbio, di non essere un classista, e di avere sinceramente a cuore il benessere di chiunque. Qualcosa che lui spesso non aveva creduto e per il quale lo aveva vessato.
Mentre il biondo frugava nel suo zainetto senza rivolgergli neanche uno sguardo, di punto in bianco gli fece una domanda che proprio non si sarebbe mai aspettato.
   «Quanto conosci i tunnel della necropoli?»

Montparnasse si immobilizzò, aveva la risposta pronta sulla lingua, ma quello che bloccava il suo cervello dal rivelargliela era un'altra domanda: come diavolo faceva Enjolras a sapere che lui conosceva le catacombe?
   «Un po' meno di "abbastanza"», gli rispose accigliato, seguendo con lo sguardo i movimenti veloci delle sue mani in quello zaino.
   Il suo clan aveva segretamente utilizzato per anni le vie invisibili della necropoli per portare avanti i suoi sporchi traffici. Lui stesso aveva vagato per parecchio, lì sotto, ma quel posto era una città sotto la città, troppo ampio e troppo diramato per poter dire di conoscerla abbastanza.
Era un qualcosa che però nessuno avrebbe potuto rivelargli; gli unici del clan a parlare con 'Ras erano lui e 'Ponine, ma era quasi certo che 'Ponine non sapesse niente delle catacombe.
   «Come fai a saperlo? Della necropoli, intendo», gli domandò candidamente, avvicinandosi un po' di più a lui come ci si avvicinerebbe a un grosso serpente. Non voleva davvero credere che, come il dio Apollo, quel ragazzo potesse sapere tutto.
Enjolras tirò su la testa per togliersi i capelli dalla faccia e gli sorrise con la spontaneità di un bambino: «Non lo sapevo. Me lo stai dicendo tu adesso.».
   Incredibile. L'aveva fregato con un banalissimo bluff.

   Il biondo si allontanò da lui con una bomboletta rossa in mano, piazzandosi proprio in corrispondenza della stazione di polizia, ma dall'altra parte della strada. Da come si muoveva sembrava stesse contando i propri passi, e ogni tanto addirittura cambiava traiettoria spostandosi più da un lato o dall'altro, come se stesse seguendo una sorta di disegno.
Lo seguì, ed ebbe la prontezza di spirito di ricopiare i suoi stessi movimenti, neanche fossero due soldati in un campo minato.
   «Devi scendere in quel postaccio?» insistette Montparnasse ed Enjolras si fermò davanti al muro intonso proprio di fronte all'edificio, iniziando a imbrattarlo con la vernice rossa.
   «A tempo debito te lo dirò, per adesso mi serve soltanto che tu faccia qualche passo indietro.»

Pochi minuti dopo era tutto finito. Montparnasse allungò il collo per leggere ciò che aveva scritto, mentre 'Ras lo raggiungeva.
   "Parigi vi sta guardando", e accanto alla scritta aveva anche disegnato il pugno alzato della rivolta.
Chiaramente un ennesimo avvertimento, oppure un "memento mori" per ricordare loro di essere già sotto i riflettori a seguito di un pesante scandalo.
   «Cazzo 'Ras, sei a viso scoperto!» e subito ai voltò a indicare le telecamere di sicurezza che sicuramente li stavano inquadrando, anche se al momento non riusciva a intercettarle. Ma Enjolras lo superò stoico, andando a risistemare la bomboletta nello zaino.
   «Ho triangolato la posizione di un punto cieco», poi sbuffò una risata e ripuntò lo sguardo su di lui, «mi credi forse uno stupido?»
Niente di più lontano dalla realtà.
Non poté esimersi dal fare no con la testa senza neanche un secondo di esitazione.
   «In più, mi è stato assicurato che l'agente che sta in guardiola oggi, a quest'ora si addormenta sempre.»
Mentre quello parlava, lo vide abbassare lo sguardo su di lui proprio nel momento in cui, distratto, si tolse i guanti per massaggiarsi un po' la mano indolenzita. E quando abbassò a sua volta lo sguardo, capì perché il biondo ne fosse stato catturato: le nocche destre erano arrossate e gonfie, alcune molto più livide, e sapeva benissimo che Enjolras era perfettamente in grado di unire quei dati con le conclusioni giuste.

In realtà, comunque, tutto quel da fare lo aveva aiutato a staccare la testa da quanto accaduto in discoteca quella notte. Addirittura, rivedere quella mano lo aveva sorpreso, anche se solo per un secondo e mezzo, perché quasi non ricordava cosa lo avesse portato a quel punto.
Ma una volta uniti di nuovo i fili, la consapevolezza e i flash lo investirono di nuovo e all'improvviso. Come nei cartoni animati, quando il protagonista rimane schiacciato dal pianoforte caduto dall'alto.
   Aiutò ben poco anche semplicemente avere Enjolras schiacciato contro la schiena, sulla moto, e con le mani ben ancorate ai suoi fianchi.
Era stato lui a dirgli di mettersi comodo, di non farsi problemi, ma ora a ogni curva quello si stringeva, e a ogni spostamento di quelle dita sulla sua vita lui invece stringeva gli occhi. Involontariamente ogni stimolo lo riportava sempre lì, a ricordare come si erano mosse abilmente le mani dell'idiota su di lui.
   E, chiaramente, ritrovarselo davanti quando raggiunse casa del gruppo, fu un altro tipo di sofferenza.
Addirittura gli venne da chiedersi dove fosse stato fino a quell'ora, se non a casa. Ma quella sua inclinazione apprensiva la conosceva bene e non lo sorprese più di tanto, era lo stesso motore che lo spingeva ad assicurarsi che Jehan mangiasse, o che Enjolras non inciampasse e fosse sempre ben stabile.

Purtroppo però, sapeva che vedere il viso tumefatto di Courfeyrac avrebbe fatto unire a 'Ras i puntini giusti, e che lo avrebbero portato alla sua mano gonfia.
Infatti quando l'idiota sfrecciò dentro casa, il biondo si voltò verso di lui e si prese un tempo in più per guardarlo negli occhi quando lui alzò la visiera.
   «Ti ringrazio. E voglio anche che tu sappia che faremo molto di più di una scritta sul muro», non disse niente riguardo il suo lacchè, ma a giudicare dal suo sguardo doveva effettivamente esserci arrivato.
Quindi, sistemandosi le bretelle dello zaino sulle spalle, fece dietrofront per rientrare anche lui a seguito di Courf.

   Tornato a casa, Montparnasse aveva in mente soltanto il letto. Non sarebbe potuto accadere nient'altro che avrebbe potuto allontanarlo di nuovo dal sonno.
Abbandonò il casco sulla prima superficie piana disponibile, si sfilò gli anfibi a pochi passi dalla porta, lasciandoli in mezzo, e si sfilò anche la maglietta, gettandola poi sul divano.
Infilò la mano nel freezer, sotto una bistecca congelata, e secondo lui tanto sarebbe bastato a tenere sotto controllo la contusione della mano.
Poi, finalmente, raggiunse il letto.
Benedetto letto che l'avrebbe accolto senza fargli domande e senza farlo ragionare troppo, come il confortante abbraccio di una grassa puttana che è anche un po' mamma per chiunque lo voglia.

   E invece no. Quella mattina il letto si dimostrò una pianta carnivora pronta a incastrarlo e a digerirlo.
Infatti fu un secondo, bastò stendersi di pancia e frizionare troppo a lungo contro il materasso, per riaccendere un fuoco che l'avrebbe carbonizzato di lì a poco. Il desiderio.
Prima che potesse effettivamente realizzarlo, stava già con la mano infilata dentro i pantaloni. E ovviamente i suoi pensieri andavano a sbattere lì, sempre lì.

Chiuse gli occhi e si proiettò di nuovo in quella darkroom, quando Courfeyrac non era Courfeyrac, ma soltanto un chicchessia qualunque che, però, gli aveva infilato la lingua in bocca.
Ricordò il profumo che aveva in quella piccola porzione di pelle dietro l'orecchio, ricordò il suono sommesso dei suoi sospiri rotti, il modo in cui si lasciava manovrare e stropicciare da lui come fosse stordito dalle sue mani.
E intanto, nella sua mano, la situazione s'era fatta più dura e ingombrante, e richiedeva alla sua mente uno sforzo in più per poter essere soddisfatta.
E allora tornò a quando erano fuori nel retro della discoteca, e a quel pugno e quella testata sostituì baci e morsi.
Immaginò di stringergli i capelli e strattonare indietro la sua testa mentre lo faceva voltare a proprio favore e lo tirava contro di sé.
A occhi chiusi poteva persino sentirlo, il calore del suo corpo addosso.
Immaginò di violarlo lì, per strada, con tutta l'urgenza che sentiva di svuotarsi le palle e con tutta quella rabbia repressa.
Si divertì a immaginarlo urlare, ora di dolore ora di piacere. E quando meno se l'aspettava, proprio mentre cominciava a prendere gusto a fantasticare su tutti quei dettagli, esplose nella propria mano soffocando un lungo gemito nel cuscino sotto di lui.

   Chiunque altro forse si sarebbe vergognato ad agire in quel modo o anche solo a pensare con certe sfumature di colore, ma non era il caso di Montparnasse. Chiunque altro, dopo aver eiaculato pensando a un acerrimo nemico, si sarebbe sentito come minimo sotto giudizio. Come lo avesse fatto sotto gli occhi del diretto interessato.
Montparnasse invece sghignazzò sotto i baffi e si riassestò, pulendosi minuziosamente le dita con le salviette umidificate che teneva apposta accanto al letto.

   Lui era soddisfatto. L'unico modo che conosceva per esorcizzare i suoi demoni e non sentirli sussurrare continuamente nelle orecchie, era quello di soddisfarli. Lasciarsi lambire dalle loro richieste, dai loro sussurri, e realizzarli.
La sua testa si distraeva pensando a Courfeyrac? Allora lui gli dedicava un orgasmo con i fiocchi, sapendo che sentendosi soddisfatta, adesso quella testa avrebbe smesso di fare i capricci. Ed era davvero così.
Difatti sorrideva anche per quello, sapeva benissimo che adesso poteva tranquillamente tornare a odiarlo senza subire i contro attacchi di quei suoi impulsi animaleschi, che nelle sue condizioni non era roba da poco.
Si lasciò andare al sonno così, leggero, nella sua ritrovata e soltanto apparente tranquillità, con il braccio piegato sugli occhi e gli angoli della bocca, come al solito, puntati in basso.

   Non mise sveglia né niente di simile, neanche la suoneria al telefono, perciò si sarebbe risvegliato quando Dio avrebbe ritenuto giusto, oppure come in quel caso, quando qualcuno avesse suonato inaspettatamente al suo campanello.
Quando aprì con disastrosa fatica gli occhi, riconobbe che il sole era in una posizione che indicava il primo pomeriggio. Non sapeva precisamente a che ora si fosse addormentato né che ore fossero adesso, ma a giudicare da quella triangolazione non doveva aver dormito troppo. O almeno non troppo per i suoi standard.
Sperava davvero si fosse trattato di un rimasuglio del sonno, e invece dopo una manciata di secondi il campanello suonò di nuovo, accompagnato da una notifica di messaggio sul suo telefono, buttato a un lato del cuscino.
   "Aprimi, stronzo."

   Gli fu chiaro in un attimo, che le sorprese per lui non erano ancora finite e che forse era addirittura nei guai.

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