Enjolras; le dieu du soleil (🌶)
Enjolras smontò dalla moto guidata da Montparnasse in un vicoletto, e l'altro fece lo stesso spingendo il mezzo ad appoggiarsi contro il muro.
Non era la sua moto, non potevano rischiare risalissero alla targa. Ne avevano presa una dallo sfasciacarrozze apposta per quell'occasione.
«Tu raggiungi gli altri», gli ordinò Enjolras, «io farò il giro largo.»
Montparnasse recuperò dal bauletto della moto la giacca rossa di 'Ras, gliela lanciò e sparì dietro l'angolo correndo.
Così, 'Ras prese a camminare, guardingo ma quanto più calmo possibile.
E in ogni secchione della spazzatura nel quale si imbatteva, gettava via qualcosa. Ora la felpa ora il passamontagna ora la maschera bianca.
Indossò la giacca rossa e si ravvivò i capelli mentre imboccava rue de Madrid dal lato opposto della piazza.
A metà strada alcuni poliziotti gli corsero incontro, e lui continuò a camminare con calma, raggiunse il primo portone a tiro e tirò fuori le chiavi di casa dalla tasca, fingendo di lottare un po' con la serratura.
I poliziotti lo superarono senza degnarlo di uno sguardo. E perché avrebbero dovuto? Era soltanto un bravo ragazzo, vestito bene, che tornava a casa.
"La magia degli illusionisti sta nel non nascondere la soluzione dei loro trucchi. La verità è sempre davanti al tuo naso."
Il ricordo di quella conversazione gli tornò alla mente e lo fece sorridere; quanto era vero.
Rimase qualche istante in più a osservare i resti distrutti della porta che dava nelle catacombe come si trattasse di un amico caduto in battaglia.
In realtà, tutto quel disastro gli permetteva di raccogliere dati sulla portata della forza distruttiva dei suoi compagni. Era questo che voleva vedere: come si muovessero e quanti "cadaveri" si lasciavano alle spalle, rimanendo nei margini dei suoi ordini.
Doveva soppesare ogni movimento, ogni parola, e se ci riusciva anche ogni pensiero dei suoi alleati. E lì dove li vedeva uscire dal bordo come dei bambini che colorano con i pennarelli, doveva trovare il modo giusto per comunicare con loro e riportarli nel recinto delimitato.
Non poteva ammettere strani colpi di testa.
Se la prese comoda, comunque. Voleva essere l'ultimo della fila a tornare all'ovile. In più, forse non lo avrebbe ammesso a voce alta, ma l'umidità del ventre di Parigi faceva a cazzotti con il suo osso reciso. Camminare non era certo un piacere. E nella solitudine che quel luogo tetro gli garantiva, si prese la libertà di digrignare i denti più volte.
«Dannazione.» lasciò morire la sua voce in quella tomba di terra.
Non vedeva l'ora che quella giornata finisse per potersi stendere nel suo letto.
Chissà, magari anche quella notte lo avrebbe condiviso con Grantaire.
Era per la sua sicurezza, ovviamente. Voleva soltanto evitare che si ingoiasse la lingua nel sonno durante una crisi.
Dopo una camminata di circa mezz'ora, vide in lontananza il chiarore delle luci della piazzola che avevano conquistato. Voci agitate, provenivano da lì, ma gli echi disordinati gli impedivano di cogliere parola per parola di cosa gli altri stessero discutendo. Perché chiaramente stavano discutendo.
Più si avvicinava, però, più riusciva a distinguere di chi fossero le voci.
Courfeyrac aveva detto qualcosa e Montparnasse sembrava dargli ragione.
Come un fulmine, l'urlo stridulo di Grantaire li aveva tagliati in due, zittendoli.
«È storpio...»
Quello lo sentì chiaramente. Le sue orecchie erano militarmente addestrate a riconoscere quelle due sillabe.
Sentì chiaramente Combeferre mettersi in mezzo e dirgli di stare calmo. La sua voce gli arrivò chiara perché 'Ferre parlava sempre lentamente e con impostazione diaframmatica. Non c'era eco che potesse confondere le sue parole.
E se Combeferre si era sentito in dovere di mettersi in mezzo, la situazione doveva essere più grave del previsto.
Enjolras entrò nel cono di luce di quell'ambiente con gli occhi calmi, silenzioso come un cerbiatto che si spinge oltre il limitare del bosco.
Vide Grantaire farsi spazio tra tutti gli altri a gomitate, fino a dividerli come il Mar Rosso. E proprio lì, appena fuori dal capannello che si era creato intorno a lui, si scontrò con lui.
Grantaire gli arrivò proprio contro il petto, a testa bassa. Lo sentì ritrarsi spaventato, come avesse incontrato un fantasma, poi nel giro di neanche due secondi, Grantaire gli sferrò un pugno nello sterno, facendogli strabuzzare gli occhi. E prima che l'ombra di una qualsiasi reazione sfiorasse i suoi pensieri, si ritrovò stretto in un abbraccio che lo confuse.
«Brutto bastardo!» ma la voce di Grantaire era piena di sollievo, a dispetto delle sue dichiarazioni.
Enjolras cercò negli occhi degli altri una parvenza di indizio, ma gli sembrò di avere davanti tanti specchi che riflettessero la sua stessa espressione interdetta.
Ovviamente, se ne sarebbe fatto carico lui.
Sollevò la mano rivolta agli altri per lasciargli intuire che ci avrebbe pensato da solo, poi trascinò Grantaire, ancora appeso al suo collo, fuori dalla portata del loro sguardo, dietro l'angolo.
Lì, lo sbatté al muro. Le mani che chiudevano il viso dell'altro in una stretta forse eccessivamente salda.
«Avevi detto di starci con la testa!» Grantaire gli sorrise, maligno: «Ho mentito.».
Su quante altre cose aveva e avrebbe mentito?
Avrebbe voluto incastrargli la testa nel muro lì dietro, eppure vederlo sano e arzillo lo rasserenò.
Se ne accorse lì, con il suo viso tra le mani: aveva dovuto riempirsi la testa di mille altri pensieri, per quelle due ore, pur di non tornare a chiedersi se Grantaire ce l'avrebbe fatta. Se stesse bene.
Degli altri non aveva dubbi. Era certo sarebbero arrivati lì tutti, era certo non avrebbero creato problemi in superficie, ed era certo non avrebbero attirato troppi occhi su di loro.
Ma Grantaire era una pallottola impazzita al suo primo volo.
Si abbassò quel tanto che bastava per raggiungere la sua linea d'orizzonte e lo inchiodò con sguardo duro lì, contro il muro. Doveva affermare il suo dominio, dentro quegli occhi.
Doveva.
"Non fare il santone", la sua mente gli sputò in faccia quel ricordo, "le pecorelle smarrite non possono essere salvate. Vanno abbandonate."
Ma gli occhi di Grantaire, quelle due biglie profonde e brillanti, lo fissavano sprezzanti e derisori. Non accettavano quel dominio.
Le persone di solito non reagivano così.
Ovunque lo sguardo impietoso di Apollo si allungasse, le teste si chinavano con rispetto.
Ma Dioniso di quel rispetto se ne fotteva.
Doveva accorciare il guinzaglio.
«Stanotte dormi con me.»
Il sopracciglio di Grantaire fece uno scatto, seguito da un angolo della sua bocca perfetta.
«È una punizione o un premio?»
E prima che quell'espressione inchiodasse lui, Enjolras si allontanò e lo lasciò andare, rifugiandosi tra gli altri. Erano tutti tornati agli affari loro, certi che lui, il capo, avrebbe risolto tutto.
Vide Grantaire sfilargli veloce come un furetto a fianco, le mani alte ai lati della testa in segno di scuse.
Sia Montparnasse che Courfeyrac gli batterono una mano sulla schiena, il messaggio di pace fatta fu chiaro a tutti e la temperatura si ristabilizzò.
Combeferre e Courf, poi, conversero verso di lui da due lati opposti; Atena, Ermes e Apollo, i tre figli prediletti di Zeus.
«Non te la prendere con lui», la voce di 'Ferre lo accarezzò come cioccolato, «era davvero preoccupato per te.»
«Sì, è colpa nostra», si aggiunse anche Courf, «perché non sapevamo proprio cosa dirgli.»
Lanciò un'occhiata oltre la propria spalla, lì dove Grantaire si stava facendo rincuorare dalla sua migliore amica.
Era preoccupato per lui.
Ormai si era abituato alla fiducia cieca che riponevano su di lui tutti gli altri. Era come se davvero pensassero che fosse immortale e infallibile. E quel ragazzo era riuscito a farlo sentire in colpa per aver tardato.
Gli ricordò cosa significasse sforzarsi di tornare in tempo, sforzarsi di rispettare le promesse, per non far stare in pensiero qualcuno.
Lo realizzò nel momento stesso in cui il suo cervello scattò per trovare un modo per tranquillizzarlo.
Soprattutto perché la guerra era appena iniziata.
Prima di tornare a casa aspettarono che l'agghiacciante disordine che era esploso in superficie, rientrasse.
Enjolras ne approfittò per spiegare loro che avrebbero usufruito di eventi come quello per memorizzare la posizione delle varie entrate delle catacombe e i diversi percorsi. Era quello il loro compito: creare più problemi possibile, ancora meglio se sotto gli occhi di tutti, e poi sparire sotto terra come scarafaggi, senza lasciare traccia.
Sarebbero diventati un virus invisibile. Serviva tempo, ma loro ne avevano in abbondanza.
Una volta a casa, si ingozzarono in fretta e furia, con la fame vorace dei bambini rientrati dalle stancanti attività scolastiche. Dopodiché non ebbero neanche la forza di scambiarsi quattro chiacchiere sul divano. Erano davvero tutti troppo stanchi. E, chi prima chi dopo, si rintanarono tutti nelle loro camere prima della mezzanotte. Cosa davvero molto rara.
L'abbraccio rincuorante del suo letto ebbe subito un effetto narcotico su di lui e sui suoi muscoli schifosamente indolenziti. Le palpebre calarono più volte sui suoi occhi, dietro gli occhiali, mentre se ne stava con la schiena dritta appoggiata alla testiera del letto.
Lo scrosciare della doccia di Grantaire gli giungeva ovattato, attraversando le due porte aperte, e lo cullava ulteriormente.
Riaprì gli occhi di soprassalto, sbattendo la testa sul legno del letto, quando Grantaire posò a terra il secchio.
Lo stava fissando con quel sorriso da sbruffone.
«Stai morendo di sonno», sospirò il moro, con una strana punta di delusione nella voce, «fatti più in là.»
Enjolras si stiracchiò, schiacciando la schiena contro la parete come un gatto, quindi obbedì.
Quando Grantaire si mise a sedere sul bordo del letto, lo spostamento d'aria lo investì con il profumo del suo bagnoschiuma, e per un attimo il sonno sparì.
«Se farai ancora queste cazzate, io starò in squadra con te», lo sentì dire.
Non poteva permetterlo.
Ebbe la forza di sbuffare e scuotere la testa. «Non essere ridicolo, 'Taire. Ce la faccio anche da solo.»
Allungò un braccio per posare gli occhiali sul comodino, e Grantaire si voltò di scatto immobilizzandolo in quella posa con il suo sguardo truce.
«Tu forse sì.» sibilò. «Ma io no. Ho avuto paura di non rivederti più.»
Una morsa gli stritolò il cuore tanto da farglielo salire in gola. Si rese conto in ritardo di avere addirittura la bocca aperta.
Non poteva evitare che Grantaire si spaventasse ancora per lui, ma poteva inventarsi qualcosa per renderla più facile per entrambi.
«Facciamo così» le dita si inerpicarono tra i capelli biondi nel tentativo di spostarli da davanti agli occhi. «Non posso prometterti che saremo insieme. Non posso prometterti nemmeno che, in tutti i momenti in cui saremo vicini, tu potrai vedermi.»
Il cipiglio di Grantaire gli fece capire di star parlando con qualcuno che, a quelle moine, non avrebbe abboccato. E lui aveva bisogno che Grantaire seguisse i suoi ordini, aveva bisogno che non improvvisasse.
Perché, in quel caso, sarebbe stato lui a preoccuparsi per la sua incolumità. E non poteva permetterselo.
La sua mano strisciò lenta sulle lenzuola, raggiungendo quella di Grantaire, ansiosamente arpionata al bordo del materasso.
La raccolse, morbido, e lasciò che le loro dita si studiassero, si accarezzassero, trovando modi alternativi per incastrarsi.
«Io cercherò di starti vicino, anche se potrà capitare che io debba rimanere nascosto», alzò lo sguardo su di lui e lo vide completamente ipnotizzato dal gioco delle loro mani. Non voleva utilizzare quei trucchetti manipolatori con lui, ma aveva bisogno di una garanzia.
Protese le labbra e con un filo sottilissimo di respiro fischiò appena tre note. Un tenue accordo di Re-Fa-Mi.
Lo fischiò una seconda volta, cercando il suo sguardo. Quindi una terza, per permettere a entrambi di registrarlo.
«Quando sarò vicino a te e non potrò farmi vedere, questo sarà il nostro segnale.»
Vide chiaramente le spalle di Grantaire rilassarsi, e seppe di averla spuntata.
«'Fanculo», grugnì il moro, prima di girarsi su un fianco e accoccolarsi con la schiena contro il suo petto.
Non ebbe la forza di ribattere, tutto il suo corpo lo stava pregando di farla finita e staccare la spina. E lo fece.
La guancia affondata nel cuscino, incredibilmente vicina alla coltre nera e profumata di capelli di Grantaire.
Ebbe talmente tanta fretta di entrare nel sonno, che lasciò persino la lampada sul comodino accesa.
Non seppe dire quanto tempo passò, ma una folata di vento improvvisa gli ricoprì il corpo di brividi, e gli fece accarezzare il viso da un drappo leggerissimo.
Le palpebre si aprirono pesanti, sbattendo più volte, e gli presentarono davanti il rettangolo capovolto dell'enorme porta che dava sulla terrazza. Due giunoniche colonne bianche ritagliavano la porta, aldilà della quale, nell'angolo in alto a destra, splendeva la Luna.
Sua sorella.
Una mano tastò il materasso, proprio alle sue spalle. Era vuoto.
Il letto del dio del Sole era sempre freddo.
Apollo si tirò su senza il minimo sforzo, come se quel corpo immortale non venisse intaccato dal torpore, dai dolori o dalla stanchezza.
Il sontuoso lenzuolo di seta era disordinatamente raccolto sul suo grembo, e sotto di questo era completamente nudo.
Piegò distrattamente la gamba sinistra, e per qualche motivo quel movimento gli sembrò strano. Fuori posto.
Come mossa da vita propria, la mano corse a tastare la gamba. E sembrò sorpresa di trovarla lì.
Spostò il lenzuolo ed eccola là, uguale a quella destra. Le dita dei piedi si aprirono e si chiusero al suo comando.
La pelle riluceva appena, come fosse uno strato di tessuto stirato sopra una caldissima luce dorata.
Talmente si stava beando di quell'ipnosi, che quasi passò in sordina ciò che stava accadendo nell'angolo buio di quell'enorme sala.
Poi lo sguardo scattò in quella direzione, quando uno dei suoi vasi ornamentali tintinnò sul pavimento di marmo.
Sbatté le palpebre e le iridi azzurre sparirono, inglobate dalla luce che adesso i suoi occhi irradiavano tutt'intorno come due piccoli fari.
Le tende sottili del suo baldacchino gli impedivano di vedere chiaramente cosa stesse strisciando nell'ombra.
Aguzzò le orecchie, ma gli unici suoni che lo raggiungevano erano i versi delle creature notturne che svolgevano le loro attività, nella selva lussureggiante alle pendici del suo monte.
Poi, di nuovo, qualcosa urtò contro una colonnina che sorreggeva una preziosa cornucopia d'oro, facendo rotolare per terra un paio di arance. Nel voltarsi fece appena in tempo a scorgere una grande coda nera trascinarsi al sicuro nel buio.
Apollo si mosse lentamente, i suoi muscoli aggraziati non fecero nemmeno l'accenno di un rumore mentre con la mano destra arrivò a cercare qualcosa sulla sua schiena.
Una lunga e sottilissima freccia dorata si materializzò tra le sue dita come composta da particelle di polvere, mentre lui faceva il gesto di afferrarla dalla faretra invisibile e incoccarla alla corda del prezioso arco, che comparve allo stesso modo dal nulla tra le sue mani.
Qualcosa di molto grande si portò ai piedi del suo letto, mugghiando cupo. Apollo chiuse un occhio per prendere la mira e smise di respirare. Il suo corpo si immobilizzò come pietra, impedendo alla freccia di tremare.
Interamente coperto dal lenzuolo pesante, un grosso animale saltò sul letto. I contorni disegnavano chiaramente la sagoma di un enorme felino che, con la testa bassa, avanzò verso di lui.
Le vibrisse gli sfiorarono la pelle delle gambe, tremando, mentre l'animale respirava pesantemente. Le zampe pesanti circondarono il suo corpo, mentre quel predatore si faceva più vicino. Poi la grossa testa si sollevò, scoperta dal lembo del lenzuolo quel tanto che bastava per vedere le sue fauci aperte, il naso bagnato tutto ritratto in un ringhio talmente basso da riempire le orecchie.
Una zampa si allungò lentamente fino a posarsi sul suo addome. Sentì le unghie entrare e uscire più volte per tastarlo. Il pelo nero, maculato, era lucidissimo sotto la luce d'argento della Luna e quella dorata dei suoi occhi e del suo arco.
Non ebbe paura neanche per un istante; la punta della freccia mirava proprio al centro di quel gigantesco teschio felino, e lui era l'arciere più preciso del Creato.
Improvvisamente la bestia ruggì e si scosse via di dosso l'ingombro del lenzuolo.
Sul suo ventre non sentì più il pizzicare degli artigli, ma il tocco dolce di una mano umana.
Una lingua sfacciata sbucò fuori da due labbra voluttuose, e leccò per intero il profilo della punta di freccia che aveva davanti.
Poi una risata calda, cristallina, spazzò via il silenzio.
Dioniso premette la fronte contro la punta dorata e lo guardò oltre le disordinate onde nere che gli incorniciavano perfettamente il viso. Un viso armonioso fino all'eccesso, con linee così lisce e morbide che a un qualsiasi occhio umano sarebbe stato impossibile dire se si trattasse di un uomo o di una donna.
Ma Dioniso era questo, l'incontro di forze opposte: il maschile e il femminile, l'uomo e il bambino, il divertimento e la follia.
«È per questo che il tuo letto è sempre vuoto!»
La voce del dio del vino era un suono impossibile da ricreare con qualsiasi strumento musicale esistente. Le parole sulla sua lingua sembravano volare via, come se il dio fosse sempre sul punto di fare qualcosa d'improvviso.
Una follia che veniva perfettamente espressa anche dalla luce vivida che aveva negli occhi. Occhi capaci di modellarsi in espressioni viste soltanto nelle maschere dei teatri che lui stesso sovrintendeva.
Con uno scatto rapidissimo e una forza che poteva appartenere soltanto al giaguaro che era lì fino a poco prima, Dioniso scaraventò lontano il prezioso arco di Apollo. Quindi si mise seduto a cavalcioni sopra di lui.
Anche lui era completamente nudo, ma per due déi quella non rappresentava certo un qualcosa di cui sorprendersi.
La selva di Dioniso era proprio a fianco al monte del tempio di Apollo, e il dio era l'unico a potervi avere accesso ogni qualvolta volesse.
Era un accordo fatto tra loro molto tempo prima. Un accordo di cui si pentiva ogni volta.
«Lascia che te lo scaldi.»
Dioniso strofinò la testa contro la sua, e dal fondo della sua gola salì il suono distensivo delle fusa. Senza neanche volerlo, lo sguardo di Apollo puntò verso la terrazza, lì dove una distesa di vasi pieni di giacinti azzurri non smetteva mai di ricordargli cosa aveva vissuto.
E cosa aveva perso.
Il Sole brilla da solo. Non è un caso che le due parole siano così simili.
Era come una maledizione, la sua. Ogni qualvolta il suo cuore di gelido, immobile oro, tornava a battere, il Fato dichiarava la sua condanna.
Perciò, sebbene malvolentieri, girava sempre lo sguardo altrove, quando Dioniso rientrava nel suo campo visivo.
E quel dio stupido, ossessionato dai sogni impossibili e irraggiungibili, lo tormentava di continuo, per questo.
Dioniso si allontanò da lui quanto bastava per poter seguire la linea invisibile del suo sguardo, e lo derise allegramente. Dunque tornò a giocherellare con la lingua nel suo orecchio.
«È perché scegli sempre di innamorarti di stupidi umani.»
La mano di Dioniso gli strinse il viso e lo strattonò, costringendolo a incontrare si nuovo quei suoi occhi che traboccavano di desiderio.
«Scegli qualcuno alla tua altezza, e il tuo cuore non soffrirà più.» La sua lingua vellutata ridisegnò il contorno perfetto delle labbra di Apollo, costringendolo a socchiudere gli occhi.
Ora la luce del suo sguardo si era spenta, e le iridi cerulee erano tornate al loro posto. «Scegli un dio!»
Dioniso si mise di proposito più comodo, facendo incontrare le loro intimità.
Apollo rise, e le sue corde vocali profusero un suono che sembrava quello di corde d'arpa pizzicate con maestria.
«Tua moglie è umana», lo provocò.
Dioniso si immobilizzò, e per un secondo le sue pupille si assottigliarono come quelle di un felino, rilucendo nel buio.
«E infatti sono nel tuo letto.»
Il moro gli cinse una mano intorno al collo e lo spinse giù, di nuovo sdraiato tra i cuscini. Quindi cominciò a strisciare verso il basso, incastrandosi tra le sue gambe forti.
«E se fossi tu mia moglie, invece di lei, non ti tradirei mai con nessuno.»
Detto quello Dioniso si coprì con il lenzuolo, e Apollo dovette indovinare cosa avrebbe fatto.
La bocca del dio lo inglobò con maestria, riportandolo lentamente a sentirsi vivo.
Dioniso era bravo, ovviamente. Per loro il mondo del sesso non aveva più segreti da svelare, e i loro corpi impossibili da stancare e da scaricare ne erano il motivo. Ma Apollo, l'arciere delle piaghe che aveva sterminato eserciti con le sue frecce pestilenziali, era in realtà vittima del morbo peggiore: l'amore.
Una freccia che non apparteneva a lui, ma a Eros, e che il dio teneva sempre puntata al suo cuore freddo. L'unica freccia sul quale non esercitava il controllo, e l'unica in grado di piegarlo come quella di Paride aveva piegato Achille.
Per questo allontanava Dioniso con tutto il gelo di cui era capace. Ma quel dio satanico era tutto ciò che lui non era, e questo esercitava un incredibile potere sulla sua mente ferrea.
Sebbene i pensieri si fossero fossilizzati sulle sue paure recondite, il suo corpo invece rispose con un sussulto di piacere quando Dioniso si staccò dal suo sesso con uno schiocco umido.
Come una pantera, lo stesso gattonò di nuovo su di lui, sovrastandolo, e gli intrappolò il viso tra le mani sfiorando le sue labbra con la punta del naso perfetto.
«Fammi sentire quanto puoi essere caldo, dio del Sole.»
Poi richiuse la bocca sulla sua.
Come una palla di fuoco, un ardore intenso si irradiò da Dioniso, quando schiuse le labbra, e scese fino al petto di Apollo. E questo nelle orecchie sentì un unico, riecheggiante battito provenire dall'interno. Dal suo cuore immobile.
Del resto, l'unico modo per scalfire l'oro, è quello di scioglierlo.
Apollo si appese al viso di Dioniso come se gli stesse chiedendo salvezza, e schiuse la sua dannata bocca serrata, concedendo il tacito accesso della lingua dell'altro.
Sentì il proprio sapore, su quella lingua, e se ne riappropriò ragionando su quanto gli stesse bene addosso, dentro, quel sapore.
Con una spinta ribaltò Dioniso sotto di sé e con una fame che non sapeva di avere si appropriò del suo corpo con un solo movimento. Dioniso emise un verso che sembrava un miagolio, e al dio del sole girò la testa.
Il corpo di Dioniso aveva, ovviamente, più gioco di tutti i corpi umani che aveva profanato. Si faceva modellare sotto le sue mani come il corpo elastico di un gatto selvatico. Come avesse le ossa fluide.
E quando il biondo riaprì gli occhi, vide il viso furbo di Dioniso illuminato da un bagliore cocente, e si rese conto che quella luce era la sua stessa pelle a irradiarla. Come se l'ikore avesse ricominciato a scorrere nelle sue vene soltanto dopo quell'unione.
Dioniso era incredibilmente appagante come amante. Regalava le giuste attenzioni e rallegrava tutto con le sue battute affilate, rendendo quella giostra ancora più godibile.
E più le spinte si facevano fitte, più il corpo di Apollo si scaldava, finendo per essere totalmente contornato da una debole aura infiammata. Fiamme che vedeva brillare negli occhi scuri del dio sotto di lui, che lo esortava di continuo a fare di più. A fare di meglio.
Lo sfidava, sfacciato. Del resto perché avrebbe dovuto interessarsi? Era Apollo che bruciava. Non lui.
Quando pensava di aver raggiunto l'apice, Dioniso gli sfuggì con un ringhio, lasciandolo appeso come nessun uomo vorrebbe rimanere appeso. Ribaltò velocemente le loro posizioni, approfittando del brutto fallo che gli aveva giocato, e si insinuò lui, stavolta, dentro Apollo.
Il dio non rimase troppo sorpreso da quel gioco, quanto piuttosto dall'effetto che ebbe su di lui. Ridotto, ora, a un lamentoso continuo di gemiti. Si aggrappò alle braccia di Dioniso, diventate improvvisamente di mattoni, e per dar sfogo a quel piacere le coprì di morsi. Buchi profondi creati da quei due denti lunghissimi, retrattili come quelli d'un serpente, e con i quali Apollo sperava di avvelenarlo dello stesso morbo che avvelenava lui.
Chissà, forse avrebbero davvero potuto restare insieme.
Poi entrambi raggiunsero la cima, e Apollo esplose tra le braccia dell'altro rilucendo come la stella bianca che era, e accecando un Dioniso che rideva estasiato. Soddisfatto.
Qualche minuto dopo, Apollo era appoggiato alla bassa balaustra della terrazza e ammirava la notte sotto di sé.
Alle proprie spalle sentì chiaramente il basso mugghiare del grosso giaguaro nero che lo aveva raggiunto.
Non si voltò a guardarlo, ma poteva percepire che si fosse seduto proprio dietro di lui.
«Ora te ne andrai, non è così?» chiese. Quasi più a se stesso che al dio.
La mano di Dioniso si posò morbida sul suo fianco, e le sue labbra gli lasciarono il timbro di un bacio sull'osso appuntito della nuca, fra le spalle.
«Può darsi.» gli rispose in un sospiro, appoggiandosi accanto a lui. «L'amore degli umani mi incuriosisce di più.»
«Perché, allora?»
Era stato uno stupido a crederci.
«Perché ora puoi dire di esserti lasciato andare», Dioniso alzò le spalle come un bambino, «potrai dire di aver abbracciato il caos.»
«Hai detto che non mi avresti tradito.»
Dioniso sbuffò una risata e lo guardò, quasi compatendolo. Con quel sorriso sprezzante che lo faceva tremare.
«Ho mentito.»
Apollo si drizzò, e ora sembrava più alto, più maestoso.
«E se volessi abbracciare il caos per sempre?»
Da come lo sguardo di Dioniso si spense, perdendosi in un punto indefinito davanti a lui, Apollo capì che non si aspettava quella risposta.
In realtà capì tutto.
Dioniso non voleva davvero tradirlo, né abbandonarlo. Aveva soltanto paura che lui l'avrebbe fatto per primo.
Il dio del vino si staccò dalla balaustra e si piantò davanti a lui. Il petto che sfiorava quello di Apollo quando si riempiva d'aria.
Lo scrutò a fondo, con un'espressione cupa che forse non gli aveva mai visto addosso, e nel momento in cui Apollo alzò una mano per posarla sulla sua guancia, quello parlò.
«Provalo.»
Quindi, con uno scatto che non fu neanche in grado di vedere, Dioniso lo spinse giù, oltre il bordo del parapetto.
Nel baratro del dirupo che lo separava da terra.
Proprio sotto gli occhi bianchi di sua sorella, la Luna, alta nel cielo e testimone silenziosa di quella disgrazia.
Un istante prima dell'impatto con il terreno, Enjolras spalancò gli occhi e prese fiato come fosse rimasto sott'acqua un anno e mezzo, scattando seduto.
Neanche fosse la sua ombra in ritardo, Grantaire si svegliò di colpo, tirandosi su anche lui.
Le mani di 'Ras si toccavano il petto come se non credessero davvero di poterne toccare uno.
«Era solo un sogno!» Grantaire continuava a ripeterlo, ma 'Ras lo sentì soltanto dopo un paio di volte.
Non era solo un sogno.
Quella era una profezia.
La trasposizione delle sue paure più grandi e dei suoi desideri.
La voglia di lasciarsi andare e la paura di essere, per questo, tradito.
Si voltò verso di lui con ancora il fiatone, e la luce gialla della lampada rimasta accesa illuminava di taglio il suo viso, così tremendamente simile a quello del dio del vino.
«Dio...»
Con la mente ancora non del tutto allineata con il mondo reale, 'Ras pronunciò il suo nome. Ma la voce gli morì in gola quando si rese conto di avergli dato il nome sbagliato.
Grantaire strizzò gli occhi, dapprima confuso, poi sul suo volto si dipanò un'altra espressione.
Non riusciva bene a decifrarla, ma era come se Grantaire lo avesse compreso.
Come se ci fosse passato.
«Non era solo un sogno.» Si corresse. 'Ras fece di no con la testa e appoggiò la fronte alla sua.
Un enorme verme strisciante gli stava ribaltando gli organi, supplicandolo di dargli ascolto.
Come un oracolo, qualcosa gli suggerì dentro di sé il significato del gesto ultimo di Dioniso.
Una mente come la sua non avrebbe mai potuto concepire il linguaggio del dio caotico, ma poteva tradurlo.
Gettandolo nel vuoto, Dioniso gli stava dando un assaggio del caos di cui era capace, e che lui aveva dichiarato di voler abbracciare. In più, lo aveva costretto ad abbandonare il tempio, per scendere nella sua selva. Nel suo mondo.
Un modo molto spartano per comunicarglielo, ma l'Apollo di quell'universo parallelo aveva colto il messaggio.
Enjolras socchiuse gli occhi, strusciando la fronte contro quella di Grantaire. Poi portò le mani a chiudersi intorno al suo viso.
«'Taire?»
«Sì?» l'altro rispose subito al suo richiamo, e anche senza guardarlo poteva sentirlo il suo sguardo incollato alle sue labbra.
«Vieni qui.»
E lo trascinò giù con sé.
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