Courfeyrac; le désarmé
«Cazzo, cazzo, cazzo.»
Passata l'ora di pranzo, la tavola calda era calata di nuovo nel solito silenzio. Il sole bruciava contro i finestroni, cuocendo l'interno come un forno. In quel momento, Courfeyrac si era rintanato nel bagno e dalla porta semichiusa le sue imprecazioni raggiungevano Combeferre, seduto tranquillamente davanti al suo portatile nel suo tavolino preferito. Quello all'angolo.
«Cazzo!»
Courf sbucò fuori in completo panico, dirigendosi a passi svelti e confusi verso l'amico.
'Ferre gonfiò il petto d'aria e sospirò profondamente senza nemmeno alzare lo sguardo dalle sue dispense.
Courfeyrac si piazzò davanti a lui e abbassò lo schermo del suo computer.
«E adesso che succede, Biancaneve?»
Disperato, si chinò verso l'amico scoprendosi la fronte dai capelli con una mano.
«Dimmi la verità», piagnucolò, «sto perdendo i capelli, vero?»
Un nuovo, profondo sospiro riempì il silenzio che si era venuto a creare.
«No, Courf. Quella riga te l'hanno disegnata gli déi.»
'Ferre rialzò lo schermo e dichiarò la conclusione di quel delirio.
Lui tornò dritto e, specchiandosi nel riflesso della finestra lì davanti, si risistemò i capelli districandoli onda per onda.
«Giuro che se divento stempiato come mio padre, a trent'anni mi ammazzo.»
«Lo speriamo tutti.»
La risposta dell'amico arrivò così in fretta che lo colse in contropiede, si voltò a guardarlo con quegli occhioni verdi disperati, e 'Ferre si lasciò impietosire da quell'anima in pena.
«Non che ti ammazzi, ma che ti caschino i capelli.» sollevò il bicchierone di frappé alla fragola e catturò la cannuccia tra le labbra.
Le labbra di Courf assunsero una piega disgustata: «Sarebbe decisamente peggio!» puntualizzò.
Quando tornò al proprio riflesso, dall'altra parte del vetro sfilarono davanti a lui Enjolras e Montparnasse, che faceva dondolare le chiavi appese a un dito con fare disinvolto.
Lui, invece, disinvolto non riusciva proprio a esserlo.
Incredibile come l'ansia, quella vera, riesca a fottere il cervello nella frazione di un secondo.
«Cazzo!»
Combeferre allargò le braccia, esasperato, e sospirò per l'ennesima volta.
Courf fece una mezza piroetta per andare a rifugiarsi nella piccola cucina, ma non fece in tempo. La porta a vetri si spalancò, e 'Ras e Monty entrarono.
«'Ras, vecchio mio! Splendida giornata, oggi, non trovi?»
"Che qualcuno mi cecchini, adesso!"
Il biondo si immobilizzò a guardarlo, poi guardò 'Ferre che con l'indice si batteva la tempia, lanciandogli indizi sul fatto che avesse perso qualche rotella.
Il silenzio si stava dilatando troppo, e il suo cervello corse ai ripari.
«Splendida, splendida giornata!»
Prese una pezza per pulire per la diciottesima volta il bancone, e tra le sue mani di ricotta quella fece una capriola e cadde a terra.
La raccolse di corsa, martoriandosi l'interno delle guance di morsi.
Ma perché cazzo era così coglione?
Nel risalire su, incontrò lo sguardo di Montparnasse. Aveva le mani affondate nella leggera giacca di pelle e sorrideva divertito, masticando una gomma.
Quel cazzo di sorriso affondava le grinfie nelle sue guance scarne, disegnando due fossette da sturbo.
Come aveva fatto a non notarle prima?
E pensare che quelle labbra le aveva avute addosso soltanto qualche sera prima.
«È sempre un cazzo di cabaret con voi», l'accento tagliente di Montparnasse li sferzò tutti e tre mentre faceva dietrofront per uscire, «siete veramente degli idioti.»
Quindi sparì.
'Ferre succhiò rumorosamente dalla cannuccia, ma non riuscì a trattenersi oltre: «Courf, ti manco solo io da limonare, giusto?».
La pezza prese il volo dalla mano di Courfeyrac e finì appesa allo schermo del portatile.
Persino Enjolras scoppiò a ridere, passando dietro di lui per andare a cambiarsi nello stanzino accanto al bagno.
«E tu mi dici perché cazzo adesso voi due state sempre insieme? Lo odiavi!», Courf urlò, esasperato, puntando un dito indagatore verso la porta semi aperta dello spogliatoio.
«Non potevo chiedere un passaggio a Grantaire.» gli rispose atono Enjolras da dentro, «E io non l'ho mai odiato. Tu lo odiavi.»
«Già», riprese la parola il terzo, che sembrava malauguratamente ispirato quel giorno, «ma quello era prima che gli facesse una sega!»
Con un lancio incredibilmente preciso, la pezza volante tornò al mittente, ricadendo nel lavandino.
Non sapeva più come uscirne.
Enjolras sbucò fuori, allacciandosi dietro la schiena il grembiule nero e sforzandosi di trattenere le risate.
«Non mi ha fatto una sega! 'Ras, diglielo anche tu!»
'Ras infilò la mano nella vetrina estraendo un biscotto al cioccolato, poi lo guardò quasi sorpreso da quella frase.
Come colto in fallo.
Alzò le mani ai lati della testa e si allontanò.
«Non ti aiuterò in questa cosa, Courf. È troppo divertente.»
Si conoscevano tutti e tre da quella che sembrava una vita, anche se nella realtà dei fatti non era così. Si amavano. Si stimavano.
Ma quando erano da soli, erano un tritacarne.
Non c'era modo di uscirne. Troppo testosterone. A volte perdevano completamente la loro allure angelica, per colpa del machismo dilagante.
C'era sempre bisogno di un'energia opposta a mitigarli. Uno Yin.
C'era bisogno di Jehan.
Quando Jehan era presente, rendeva tutti più calmi, più posati.
Courf attraversò l'ingresso velocemente, uscendo fuori per prendere una boccata d'aria.
Di nicotina.
La luce del sole primaverile lo bagnò come una colata d'oro, accaldandolo all'istante.
Jehan non se l'era presa con lui, in quelle ore non lo aveva trattato diversamente rispetto al solito. Eppure gli era parso fosse molto più riflessivo. Chiuso nel mondo strano che aveva tra le orecchie.
Si legava spesso i capelli; non glielo aveva mai chiesto, ma osservandolo quotidianamente aveva intuito che lo facesse quando era molto concentrato.
Erano successe tante cose, in troppo poco tempo. Avrebbe voluto tanto scusarsi con lui, ma di cosa?
"Ehi, Jehan, scusami se ho baciato il tuo ragazzo senza saperlo. Eravamo al buio!"
No. Non era così stupido. Quello Jehan lo aveva capito e lo aveva perdonato.
"Ehi, Jehan, scusami. Sono ossessionato da te, dal profumo dei tuoi capelli e dalle tue lentiggini. Ma ora sono ossessionato anche dal tuo ragazzo."
Forse andava riformulata così. Ma questo non rendeva quel pensiero più accettabile.
Perché Montparnasse doveva per forza essere il suo ragazzo, e non quello di entrambi?
Potevano tranquillamente stare tutti con tutti, e poi Dio avrebbe provveduto.
Ecco perché odiava le relazioni.
Cosa da la certezza di stare proprio con la persona giusta? Magari, nel mare pieno di pesci, ci sono persone più giuste.
E lui si sentiva la persona giusta per entrambi.
Era un punto fermo, delicato e comprensivo, per Jehan. Ed era coraggioso, testardo e istintivo per Montparnasse. Il terzo tassello perfetto.
Era come nel suo sogno: Ermes conosceva e accettava entrambi i lati di Persefone. La sua faccia da fanciulla per il mondo dei vivi, e quella più adulta per quello dei morti.
Ed era uno dei pochi ad avere accesso all'Ade. Per quanto al dio potesse dare fastidio, lui aveva l'autorizzazione di entrare e uscire quando voleva.
Non si rese nemmeno conto di essere arrivato a fumare il filtro della sigaretta. Era troppo preso nell'analizzare i dettagli di quel sogno, come se ormai si fosse convinto che potesse comunicargli qualcosa.
«Dai, 'Courf, non te la prendere.»
La mano di Enjolras gli coccolò la nuca scoperta. Non c'era bisogno di voltarsi, il suo tocco lo conosceva benissimo.
«Sono un mostro, 'Ras?»
Le dita dell'amico smisero di muoversi, come fosse troppo sorpreso da quella domanda.
Con la coda dell'occhio intravide la testa bionda scuotersi appena.
«Non so cosa succede nella mia testa, ultimamente. Ma i miei pensieri non mi sembrano neanche più miei.»
Fece una pausa di un istante soltanto per capire se Enjolras fosse realmente intenzionato ad ascoltare senza parlare.
Ne aveva bisogno.
'Ras respirò e basta.
Il biondo sapeva leggergli nella mente, ormai.
«Mi vedo da fuori e mi dico che sono un coglione, un fallito. Ma non riesco a frenare gli impulsi del mio cervello; quando li realizzo, il mio corpo si è già mosso.» prese fiato. Il mento ebbe un accenno di tremore. «Ed è sempre troppo tardi.»
La mano di 'Ras si fece ferma, pesante intorno alla sua nuca. E lo strattonò a sé.
Gli stampò le labbra sulla tempia, tenendolo stretto.
Di solito era lui a dimostrarsi fisico, non 'Ras. Ma quel gesto inaspettato lo allietò incredibilmente, andando a lenire piccole ferite brucianti.
Il braccio di Courfeyrac scivolò intorno alla vita dell'amico e si appese a quell'abbraccio come se si aspettasse che 'Ras lo salvasse da tutto. Come succedeva sempre.
«Questa cosa che mi è esplosa nel petto, io voglio solo viverla come ogni ragazzo normale. Ho bisogno di viverla.»
Il respiro vicinissimo di Enjolras gli smuoveva i capelli davanti all'orecchio, solleticandolo. Il suo silenzio lo invitava a vuotare il sacco, ma lo metteva anche all'angolo.
Dire le cose ad alta voce le rende reali.
«Solo che io la provo per due persone. E ogni passo che faccio, ferisce entrambi.»
Quindi era quello.
Ecco, l'aveva reso reale.
L'impossibilità di muoversi, per Ermes, era come un cancro. Una metastasi che mandava in cancrena ogni fibra del suo essere. E questo era peggio dei pugni di Montparnasse. Del silenzio di Jehan.
No. Che illusione stupida. C'era qualcosa di molto peggio: perderli.
Era un cuore pazzo, il suo. Pazzo suicida.
Jehan era il suo coinquilino. La persona alla quale teneva di più al mondo, secondo soltanto a Enjolras.
E l'altro era uno sconosciuto. Un rivale. Un nemico che avrebbe dovuto desiderare di abbattere.
«Non credo tu sia sbagliato, per questo.» fortunatamente la voce di 'Ras distrasse la sua testa nel momento giusto. «Il cuore va dove gli pare.»
Si sorprese alquanto a quella affermazione, 'Ras che parlava di sentimenti come se li provasse era qualcosa che non vedeva da anni.
«Se avete finito, io vorrei pagare!»
Combeferre apparve dalla porta con la testa, scuotendo il bicchiere del frappé ormai vuoto.
Dopo un'altra oretta, Courf si infilò nello stanzino per cambiarsi. Enjolras aveva davanti a sé ancora alcune ore da lavorare, ma lui invece aveva finito. Quando uscì fuori, lisciandosi sulle gambe le pieghe del pantalone, Courf si accostò al biondo come faceva spesso quando aveva cattive intenzioni.
«Il tuo nuovo amico ti riaccompagna anche a casa, stasera?»
Enjolras gli lanciò un'occhiata che sembrò leggergli l'anima come una qualsiasi pagina di giornale.
Lo vide serrare la mascella e puntare lo sguardo dritto davanti a sé. Piantò entrambe le mani sul bancone e fece ciondolare per qualche secondo la testa tra le spalle.
Courfeyrac invece continuava a far finta di niente, arrotolandosi le maniche sui gomiti. Portava avanti quella sceneggiata del ragazzo tranquillo che aveva appena posto la domanda più tranquilla del mondo.
Ma mentiva.
E sapeva benissimo che anche 'Ras lo aveva capito.
Stava soltanto ponderando le conseguenze della sua risposta.
«No.» disse con un profondo sospiro, prima di guardarlo, «Partecipa a un rodeo. A Nanterre. Io non ti ho detto niente.»
Prese molte pause, come se stesse lottando con se stesso per non dirgli niente.
Beh, aveva perso.
Courfeyrac fece per andarsene, ma 'Ras lo fermò dal polso.
«Courf, non far del male a Jehan. Non volontariamente.»
Il suo tono era incredibilmente fermo, quasi minaccioso. Ma i suoi occhi raccontavano un'altra storia. Lo stava pregando.
Quasi si perse d'animo; Jehan era il suo tallone d'Achille. Il punto più morbido e vitale dove colpire.
Avrebbe voluto proteggere quel ragazzino da tutto, da ogni bullo a scuola, dai suoi genitori, da lui stesso. Da ogni virus stagionale, persino.
Ma come poteva proteggerlo da sé? Dal tornado infame che creava tutt'intorno nella sua corsa costante?
Sbatté le palpebre più volte, come se questo servisse ad allontanare quelle parole da sé.
«Io non ho nessuna intenzione di ferirlo, non vorrei mai farlo.»
Entrò dentro casa senza nemmeno ricordarsi del tragitto appena fatto.
I pensieri non avevano smesso un secondo di urlargli nelle orecchie, e ora gli sembrava di avere un coltello conficcato nella fronte.
Salì in camera sua saltando gli scalini due a due e filò davanti alla porta del bagno spalancata.
Un altro coltello si piantò nel suo stomaco. Se almeno avesse ucciso le farfalle, gli sarebbe tornato utile.
Appoggiato a uno sgabello, sistemato tra le gambe di Bahorel che se ne stava seduto ingobbito sul bordo della vasca, c'era Jehan. Aveva l'aria concentrata ed era tutto preso a rasare con la macchinetta i capelli già estremamente corti di Bahorel.
Il ragazzino si accorse della sua presenza soltanto quando lui si impalò davanti alla porta come una volpe abbagliata dai fari di una macchina.
E quella macchina l'avrebbe certamente travolto di lì a poco.
Lo sguardo che gli lanciò Jehan, però, era diverso da quello che pensava di meritare.
Non c'era schifo, non c'era disprezzo.
Era come se stesse per dirgli qualcosa. Poteva quasi vederle, le parole sul punto di varcare la soglia delle labbra. Ma Jehan non le liberò mai.
Il senso di colpa lo spinse ad allontanarsi senza dare una seconda chance a quel silenzioso scambio, e si rintanò in camera sua.
Ormai il sole era sparito da parecchio. Non lo aveva sentito, ma sicuramente Enjolras era tornato da lavoro. Non gli interessava nemmeno che ore fossero, ma era chiaramente tarda sera.
Lui era rimasto per tutto quel tempo in camera sua, steso nel suo bozzolo a rimuginare. Si era rifiutato anche di cenare, e nessuno era andato a cercarlo.
Tutti si erano resi conto che l'umore di Courfeyrac era incredibilmente instabile e avevano scelto di lasciarlo solo, come un animale ferito.
Persino Jehan aveva avuto la delicatezza, o il buonsenso, di tenersi lontano da quella che era anche camera sua. Se lo avesse visto anche solo un'altra volta, avrebbe perso ogni ombra di coraggio. E il coraggio, quella sera, gli serviva.
I rodeos, come li chiamavano a Parigi, erano pericolose corse di moto clandestine. Roba da zingari e malviventi, niente di più lontano da tutto quello che era lui.
Invece Montparnasse era entrambe le cose.
E lui non sapeva minimamente come avvicinarsi a quel mondo, come mimetizzarsi tra quella gente senza farsi mangiare vivo.
Non erano situazioni facili, moltissimi ragazzi erano morti in quelle gare. Oltretutto la polizia adorava stare loro alle calcagna e arrestarli. Erano criminali di quello facili da scovare. Meno facili da prendere; gli inseguimenti con le volanti erano la causa della maggior parte degli incidenti mortali.
Oltretutto non aveva idea di quale potesse essere il percorso, la partenza o l'arrivo. Era come cercare un ago in un pagliaio. Sebbene si trattasse di un ago infinitamente rumoroso.
Mezz'ora dopo era già fuori casa, non aveva guardato né salutato nessuno. Voleva solo sistemare quella situazione.
I piedi si muovevano veloci, come sandali alati, e lo portarono in un batti baleno sulla sella del suo fedele destriero.
Mentre si chiudeva i guanti intorno ai polsi, accarezzò il fianco del suo bolide, come se potesse davvero trasmettergli i suoi pensieri.
Aveva bisogno che corresse. E che andasse tutto bene.
Abbassò la visiera del casco e mise in moto. Il cuore vibrò e prese a fare capriole insieme ai cavalli del motore sotto di lui che ruggivano.
Nanterre distava circa mezz'ora. Per fare un po' di riscaldamento lui ci avrebbe messo venti minuti.
Come avrebbe mai potuto riconoscerlo? Certo, aveva visto la sua moto, ma probabilmente non avrebbe usato quella. Del resto non era difficile per Montparnasse recuperare moto come fossero carte dei Pokémon, soltanto il giorno prima ne aveva sacrificata una per la manifestazione.
Per aiutare Enjolras, ovviamente. Che cazzo, adesso quei due erano diventati migliori amici. Ovunque si girasse li vedeva insieme.
Adesso quel coglione di Montparnasse serviva 'Ras come un cagnolino, e lui se lo ritrovava continuamente davanti.
Era una tortura.
E lì dentro al casco, ovattata dall'imbottitura, la sua testa cominciò con la solita giostra degli ultimi giorni. Come fosse una presentazione PowerPoint in università, il suo cervello cominciò a far scorrere davanti ai suoi occhi un'infinità di immagini.
Immagini che fino a soltanto qualche giorno prima non avrebbero avuto alcun effetto su di lui.
Lo scatto di polso che Montparnasse faceva sempre prima di portarsi una sigaretta alle labbra. Il modo che aveva fi strizzare gli occhi e stropicciare le sopracciglia, quando lo guardava.
Quei maledetti, schifosissimi occhi azzurri. Freddi, distanti, taglienti come lastre di ghiaccio.
Le torsioni dei muscoli del suo collo, quando se lo scrocchiava, erano qualcosa di mortalmente invitante.
Brevi, stupide immagini che, nel passare del tempo, il suo cervello aveva registrato senza farglielo sapere. Perché fino a quel momento, ovviamente, non gliene era importato niente.
E adesso gliele vomitava addosso tutte; come se non si sentisse già abbastanza sporco.
Dio. Com'era stato fortunato Jehan ad aver dormito tra quelle braccia per tante notti.
E com'era stato fortunato Montparnasse a viversi Jehan tutto per sé, in una casa dove erano solo loro due.
Fortune che lui non avrebbe avuto, dannazione.
Courfeyrac. Lo stesso Courfeyrac che poteva avere qualsiasi donna volesse, soltanto con un occhiolino e un mezzo sorriso, adesso si stava facendo venire l'ulcera per due ragazzi.
"Dio provvede" un cazzo.
Sua nonna aveva sempre avuto torto.
Dio se la rideva e basta.
E adesso eccoli lì, gli alti palazzi di una delle periferie più pericolose di Parigi.
I blocchi di cemento si stagliavano neri contro il blu scuro del cielo, tutti puntellati di piccole finestre illuminate.
E adesso come se la sarebbe cavata?
Il traffico era già ridotto al minimo, del resto girare in quel quartiere a quell'ora era una cosa per pochi. Stava aspettando sotto alla luce fastidiosa di un semaforo rosso, quando dal fondo della via perpendicolare alla sua, sentì lo scoppiettante motore di una moto palesemente modificata. Qualche secondo dopo, infatti, un lampo verde gli sfrecciò davanti.
Quell'individuo poteva dirigersi soltanto da una parte.
Dunque lo seguì, cercando di fare più rumore possibile con l'acceleratore, giusto per non destare sospetti.
Lo sconosciuto lo guidò fino a un grosso spiazzo da dove partiva un lungo rettilineo che costeggiava i palazzoni. Dopo quei cinque chilometri di rettilineo, si sarebbero tuffati in tangenziale.
Il vincitore si sarebbe portato a casa duemila euro.
Non erano informazioni che aveva, ovviamente. Le aveva sentite in mezzo alla piccola folla che si era creata lì intorno.
Lui si tenne il più possibile in disparte, lontano dal punto dove si stavano radunando tutti i piloti.
Un branco di gentaccia. Solo a vederli mettevano tutti i brividi.
Poi, da sopra una lucidissima moto nera, Montparnasse si tolse il casco.
E a lui venne da vomitare.
Quando anche gli ultimi ritardatari raggiunsero la linea di partenza, finalmente, si diede il via.
Uno sparo in aria e tutti i motori esplosero di rabbia sotto le selle dei tredici partecipanti. Fu un boato così bestiale da fargli tremare le ossa, nonostante avesse le orecchie coperte dal casco.
Lui aspettò qualche secondo, prima di partire. Non voleva essere travolto.
E comunque, lui era Ermes. Non si poteva battere in velocità.
Si fidava del suo bolide.
Avrebbe raggiunto Montparnasse in quei primi cinque chilometri, prima che si buttassero in tangenziale e superassero i duecento all'ora.
Partì. Nessuno seppe dire il perché, ma nessuno provò neanche a fermarlo. Partì come una scheggia solitaria. Una pallottola lanciata in aria.
Solo quindici secondi dopo aveva spinto la moto al suo massimo: non aveva mai ancora toccato quella velocità.
Sentiva le ruote leggerissime, temeva che sarebbe bastato un sassolino sotto la gomma per farlo volare in aria.
Sarebbe morto. Se fosse successo sarebbe morto.
Quel pensiero lo stordì, divenne liquido ed entrò in circolazione. Furono cinque secondi di puro delirio; sentì freddo, poi caldo, le braccia divennero tronchi e le dita si pietrificarono sul manubrio pur di non farlo muovere neanche di un millimetro. Dentro il casco il suo respiro si era fatto pesante.
Sentiva gli occhi completamente dilatati.
Poi il corpo rilasciò qualcosa, poteva giurare di essersene accorto. Il cuore, all'improvviso smise di pompare a tremila al minuto e tornò stabile. I polmoni si riempirono, lentamente. Le spalle si rilassarono di colpo.
Fu come se tutto il suo corpo si fosse istantaneamente abituato a volare.
Lì avvenne la magia, e capì perché alla gente piacesse tanto.
Si fidò del suo bolide, di se stesso, dei suoi calcoli matematici che l'avrebbero tenuto in vita. Si fidò persino delle leggi della fisica, di Dio. E spinse, leggermente di più, sull'acceleratore.
Ne superò uno.
Un altro.
Come mosche li sentiva ronzare per mezzo secondo, quando gli passava accanto, e poi li perdeva dietro di sé.
Riconobbe la moto di 'Parnasse e si spinse alle sue spalle, e quando fu abbastanza vicino lo affiancò.
Andava leggermente meno veloce rispetto a lui.
Lo vide girare impercettibilmente la testa, probabilmente si era accorto non fosse uno dei partecipanti.
Lo superò e gli diede più stacco possibile.
Quello che gli disse la testa era una follia.
Una completa e insensata follia.
Poteva crepare.
Montparnasse continuava a essere più lento di lui, si stava tenendo lo sprint per la tangenziale, e Courfeyrac ringraziò Dio per questo perché gli permise di attuare il suo piano suicida.
A occhio e croce l'aveva staccato di duecento metri.
Iniziò a frenare. Con prudenza, ma il più in fretta possibile.
Quando si fermò del tutto, di metri probabilmente ne aveva fatti altri trecento nel frattempo. Forse di più.
Abbandonò di corsa la moto poggiandola alla bell'e meglio contro il guard rail, e si tuffò in mezzo alla strada a braccia spalancate.
Le gambe tremavano, il respiro era tornato pesante. Sembrava stare più tranquillo in sella, lanciato quasi a duecento all'ora, piuttosto che in piedi sulle sue gambe.
I due che aveva superato poco prima, ora gli sfrecciarono accanto, uno da un lato e uno dall'altro.
Uno gli passò schifosamente vicino. Da fargli chiudere gli occhi mentre si aspettava lo schianto.
Montparnasse invece rallentava.
L'unico intelligente.
Lo vide tentare di spostarsi a destra, ma lui lo imitò. Allora provò a sinistra, ma Courfeyrac ovviamente si mise nuovamente in mezzo. E mentre quello avanzava, Courfeyrac indietreggiava per mettere tra la loro collisione quanti più metri di sicurezza riuscisse.
A una trentina di metri da lui, Montparnasse frenò, spinse la moto per terra e iniziò a macinare l'asfalto sotto i suoi passi rabbiosi.
Si sfilò il casco lanciando per terra anche quello. Abbaiò insulti come una iena inferocita.
Courfeyrac non sapeva che fare. Forse sarebbe stato meglio schiantarsi contro la moto piuttosto che contro una furia del genere.
Poi 'Parnasse fece qualcosa che decisamente non si aspettava.
Era a poco meno di venti passi da lui, e dal retro dei pantaloni estrasse un coltellino.
Vide la lama saettare nella sua mano lanciando bagliori nella sua direzione, riflettendo le luci dei lampioni sopra di loro.
Così, Courfeyrac corse ai ripari e si sfilò in fretta e furia il casco, tendendo poi le mani disarmate verso la iena.
«Cazzo, Mont! Sono io!»
Urlò. La voce prese una strana strozzatura, che quasi lo fece vergognare.
Montparnasse si gelò lì dov'era.
Anche se era ancora un po' distante, Courf riuscì a vedere chiaramente l'azzurro chiarissimo dei suoi occhi spalancati.
«Un motivo in più per aprirti quella gola di merda!»
Dieci passi e Montparnasse gli fu addosso.
Lo odiava.
Odiava se stesso per essere andato in quella dark room. Quale Dio gli aveva giocato quel tiro mancino?
Lo odiava perché nonostante lo avesse a cinque centimetri che abbaiava insulti e minacciava di farlo fuori, la sua testa non faceva altro che processare quanto gli piacesse il suo profumo.
Quanto fossero belli i suoi tatuaggi sotto la luce dei lampioni e della luna.
Era diventato un'ameba ridicola.
«Ma che cazzo ti dice il cervello, si può sapere?»
"Bella domanda. Appena lo scopri, dillo anche a me."
«Che ci fai qui? Non è posto per te, questo!»
Ding ding ding.
Finalmente il suo cervello iniziò a processare.
Montparnasse era lì, con un coltello in mano a gridare tutto il suo odio come un ossesso.
Ma non lo aveva neanche sfiorato.
"Non è posto per te, questo!"
Forse, ma soltanto forse, quella che era uscita in maniera così naturale dalle sue labbra, era pura e semplice preoccupazione.
Doveva scoprirlo.
Incredibile come la sua testa viaggiasse veloce a trovare i modi e le soluzioni peggiori per ogni tipo di occasione.
Era un dono, essere tanto idioti.
Fece due passi indietro, mettendosi le mani in faccia e barcollò verso il guard rail come se stesse per svenire.
Per riflesso incondizionato, Montparnasse fece cadere il coltello sull'asfalto e allungò una mano per afferrarlo dal gomito.
Fregato.
Come nella dark room, era andato in suo soccorso.
Courfeyrac gli chiuse le mani intorno alle spalle come aveva fatto con Jehan la sera che voleva giustificarsi per il bacio dato a Enjolras.
«Ti devo parlare, ti prego.»
Montparnasse alzò un sopracciglio, eppure non gli sfuggì quel movimento brevissimo che fecero quegli occhi azzurri sulle sue labbra. Lo aveva beccato.
«No. Tu ti devi far curare.»
C'era da aspettarselo. Montparnasse non era Jehan, non pendeva dalle sue labbra.
Non lo faceva, giusto?
Lo zingaro strattonò le braccia per liberarsi dalla sua presa e fece dietrofront. Raccolse il coltello da terra, se lo infilò in tasca e borbottando bestemmie tornò alla sua moto.
E Courfeyrac rimase lì. Come l'inetto che era.
Un insetto.
Cercò di regolarizzare il respiro, ancora affannoso. Guardò la propria moto, poco più avanti, guardò la luna sopra di sé.
Sospirò e si mise a correre.
Montparnasse raccolse la moto da terra, la sistemò sul cavalletto per controllare fosse tutto a posto, e poi venne travolto da Courfeyrac.
Si piazzò a fianco a lui, che si era già risieduto in sella. Una mano coraggiosa si arrampicò sul colletto della giacca di Monty, e lo spinse lievemente verso il basso nel tentativo di sovrastarlo.
Occhi negli occhi. Montparnasse era così sorpreso che soltanto per quello non seppe come reagire.
«Ascoltami.»
La voce di Courf era ferma, il suo respiro no. E i suoi occhi verdi si muovevano velocemente a destra e a sinistra, in quelli azzurri di Monty.
«Dimmi.»
Per qualche ragione, la voce di Montparnasse gli era parso avesse preso una sorta di accondiscendenza.
Ma lui che aveva da dire?
Non si era preparato nessun discorso. Non era riuscito a mettere in fila nessun pensiero. Era completamente allo sbando, e ora che l'altro gli aveva concesso la parola, lui non sapeva cosa dire.
Quindi, con la testa ancora leggera per tutte quelle cazzo di emozioni, Courf mormorò appena l'unica cosa che aveva pensato fino a quel momento.
L'unica.
«Toccami.»
Montparnasse rise.
«Curati.»
«Toccami.» abbassò ancora di più la voce.
Lo sguardo di Montparnasse, all'improvviso mutò. Strizzò gli occhi, concentrato, come se cercasse dentro ai suoi strane risposte a dei calcoli.
Lo sentì dire il suo nome, esasperato, prima di ruotare gli occhi al cielo.
Eppure non si era spostato.
E la sua mano era ancora lì, sul suo colletto. Quando ci ragionò su la staccò, lentamente, e provò a sfiorare con la punta delle dita il profilo affilato della sua mascella.
Dio se era bella.
Montparnasse, che si stava reggendo in equilibrio sui gomiti, sollevò una mano ed esitò schifosamente tanto prima di posargliela su un fianco. Quando sentì il suo tocco addosso, fu come se finalmente il mondo fosse di nuovo al suo posto.
Tutto in ordine.
Tutto come e dove dovrebbe essere.
Socchiuse gli occhi e mosse appena il viso per sfiorare la punta del suo naso con la propria. Montparnasse fece lo stesso.
Entrambi avevano lo sguardo basso, sulle labbra schiuse dell'altro.
«Toccami.»
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