3.12 Grantaire; l'amoureux
Solo quando riaprì gli occhi seppe di averli tenuti chiusi.
Non era agile, né un atleta, perciò la percentuale che atterrasse di testa come una zappa nella terra morbida, ammontava a un numero di quasi tre cifre.
Invece si era fidato del suo corpo, del suo istinto di sopravvivenza, e questo lo aveva portato ad atterrare placidamente dall'altro lato dell'enorme carro della polizia.
Fu quando si rialzò in piedi che si rese conto di quanto tutto quello fosse costato alle sue ginocchia.
Ora, però, doveva correre. Non poteva pensare a Courfeyrac e a come avrebbe fatto lui a passare; lui la retta via gliela aveva mostrata.
Non sapeva se la polizia lo avrebbe inseguito, ma sentiva chiaramente delle voci alle sue spalle intimargli di fermarsi, che la sua era aggressione a pubblico ufficiale.
Che l'avrebbe pagata cara.
E questo bastò a farlo comportare da preda, nonostante tutti i dolori.
Ricominciò a correre, e i polmoni cominciarono presto a chiedere pietà. A bruciare tanto da sembrargli un assaggio della morte.
Ma la sua unica speranza per riprendere fiato, era quella di trovare la dannatissima porta verde. Solo lì, forse, si sarebbe potuto fermare.
La porta, però, non si vedeva da nessuna parte, e per permettersi di ricevere il giusto quantitativo d'aria dovette disfarsi del passamontagna.
In quel momento li sentì chiaramente, i passi pesanti dei poliziotti che lo seguivano. Con le loro divise antisommossa, i caschi e le armi.
Lui non aveva niente per difendersi. Niente che potesse funzionare davvero.
Più avanti, a circa una sessantina di metri, qualcuno tentò di sbarrare la strada alla polizia trascinando in mezzo alla via alcuni cassonetti dell'immondizia. Ma c'era qualcosa che non andava: da tutti e tre i cassonetti usciva fumo nero, dall'odore pestilenziale.
Gli avevano dato fuoco.
E mentre il suo cervello si attivava per calcolare quanti secondi ci avrebbe messo per raggiungerli e scavalcarli, il bidone centrale esplose in un ruggito di fiamme.
I parigini le rivoluzioni le sapevano fare, purtroppo per lui.
Grantaire non rallentò e proseguì verso l'incendio come un kamikaze. Ora, le voci che gli avevano intimato di fermarsi fino a quel momento, lo facevano con tono più preoccupato.
Nelle vie tutt'intorno rimbombavano sirene diverse, sfrecciando ora in direzione della piazza, ora in direzione opposta.
Gli stessi ragazzi che avevano trasportato i cassonetti lo avevano visto, e probabilmente avevano colto le sue intenzioni, dunque posizionarono il carrellino trasportatore in modo che potesse fungergli da scala per scavalcarli più velocemente.
Per quanto ne sapeva lui, potevano essere tutti collaboratori di Enjolras.
Grantaire saltò sulla pedana del carrello e, facendo leva sul grosso manico di ferro, saltò sul cassonetto di sinistra. Quello più intatto.
Quando scese giù dall'altro lato, l'enorme ragazzo che l'aveva aiutato gli diede una pacca sulla spalla e ricominciò a correre. Non gli disse niente.
Una cosa però gliela sentì urlare contro la polizia, con il dito medio alzato in aria;"Parigi vi sta guardando, stronzi!"
Grantaire lo sapeva che quel grido di protesta era il marchio di Enjolras.
Ricacciò i pensieri fuori dalla testa. Aveva bisogno che i cinque sensi fossero tutti ben focalizzati sul qui e ora.
Le orecchie infatti lo avvertirono che almeno due dei poliziotti che avevano deciso di inseguirlo, lo stavano ancora inseguendo. Li sentì chiaramente arrampicarsi e superare il cassonetto così come aveva fatto lui, impiegando soltanto qualche secondo di più. Secondi preziosi, che si traducevano in metri in più tra lui e loro. E lui aveva bisogno di questo: metri in più.
Poi, sempre le sue orecchie, indirizzarono la sua attenzione lì, nelle tasche dei suoi cargo. Qualcosa stava tintinnando ritmicamente contro l'accendino.
La mano si infilò senza indugio e trovò immediatamente lo stelo spesso dei due fumogeni che aveva preso nel furgone di Boss.
Con i polmoni che cominciavano a fischiare per avere tregua, Grantaire riuscì ad accendere entrambi i fumogeni. Si prese qualche secondo per piazzarli ai lati della strada, concentrandoli verso l'interno. Non era chissà quale soluzione, eppure in quella strada stretta, chiusa, non passava un filo di vento, e i fumogeni ci misero una manciata di istanti a creare un denso muro di fumo rosso che nascondeva Grantaire alla vista.
Ma la scommessa più grande la vinse quando, più avanti, con la coda dell'occhio intravide qualcosa che gli fece piantare i piedi nell'asfalto, in scivolata, per tornare indietro.
Sotto un balconcino in decadimento, spiccava tra i grossi mattoni color sabbia mangiati dalla muffa, la dannata porta verde.
Come fosse stata quella vera, Grantaire si perse a osservare quella meravigliosa testa di Medusa, incastonata lì nel fregio.
Era tutto vero.
Chissà per quale motivo la sua testa, fino all'ultimo, aveva creduto che non lo fosse. Che tutto quello che il megalomane berciava, fosse falso. O quantomeno caricaturale.
Invece era lì, e gli occhi di Medusa lo tenevano inchiodato a quella verità incrollabile che stillò, per ovvie ragioni, anche un certo sentimento di paura nel suo cuore.
Quando pensava e diceva a se stesso che avrebbe seguito Enjolras fino all'inferno, ci credeva davvero?
Perché quella piazza era stata soltanto un assaggio dell'inferno a cui Enjolras prometteva di abituarlo.
Era davvero pronto?
Il corpo rispose prima di lui quando i colpi di tosse dei poliziotti, che avevano raggiunto il fumo colorato, lo riportarono alla realtà. Sulla sinistra, prima di scattare, l'occhio raccolse l'immagine residua di qualcuno che correva verso di lui. Qualcuno vestito di nero.
Ma il cervello decise di nuovo di chiudere le porte stagne, e lo spinse a scaraventarsi con tutta la forza che possedeva contro quel portone.
E se non si fosse aperto?
Se uno qualsiasi dei calcoli di 'Ras fosse andato imprevedibilmente storto?
E mentre ancora si poneva queste domande, sotto la spinta animalesca della sua spalla, il portone si aprì gentilmente, riversandolo sulla rampa di scale che andava ai piani di sopra.
Scartò di lato per non colpire la ringhiera e si ritrovò carponi sui gradini. Un secondo per riprendere fiato e si scagliò di nuovo sul portone per chiuderlo facendo attenzione a non farlo sbattere.
Nessuna voce lo chiamò, nessuna testa si affacciò da nessuna parte. Era solo.
A fargli compagnia, nel retro del suo cervello, c'era soltanto il ricordo della voce di 'Ras che dava istruzioni.
"Scendete nel seminterrato".
Lo sguardo scattò sulla breve rampa che portava giù, anziché su. Erano soltanto una decina di gradini che affacciavano su una porta.
"Aprite la porta che vi trovate davanti".
Grantaire spalmò l'orecchio sulla superficie di legno umido, e l'unica cosa che riuscì a sentire fu il basso ululato del vento.
Del vento?
La mano asserragliata sul pomello scattò, facendo spalancare la porta verso l'esterno, come spinta da una forza dalla parte interna.
Lo investì una folata di vento freddo che lo costrinse a socchiudere gli occhi.
Il turbine ululava minaccioso, come si trattasse degli spiriti dell'Ade che cercavano di farlo perdere d'animo.
Lui, un vivo, non si sarebbe dovuto trovare sulla soglia del regno dei morti.
"Dopo due rampe di scale vi troverete davanti a un'altra porta."
Enjolras continuava a guidarlo, nella sua testa, come se davvero ci stesse sussurrando dentro.
Poteva farlo?
Si immerse nel vento che gli ruggiva addosso e scese le scale di mattoni nudi. Scese e scese. Sempre meno luce lo raggiungeva, e sempre più umidità, fredda da ricoprirlo di brividi.
Quando arrivò al capolinea, rimase fermo per alcuni secondi a guardare ciò che rimaneva della porta divelta che dava nel buio più totale.
Sembrava fosse stata ribaltata dalla carica di un cinghiale.
"Se non è già stata presa a calci vorrà dire che siete stati i primi ad arrivare, dunque sarà vostro l'onore di buttarla giù."
E, senza ombra di dubbio, Bahorel aveva fatto carte false per essere il primo.
Soltanto dopo, realizzò cosa avesse davanti.
Il vento freddo proveniva dal ventre della necropoli. E lui si sarebbe dovuto infilare in un'arteria di quest'ultima.
Tutti a Parigi sapevano che non ci si poteva assolutamente avventurare nelle catacombe da soli. La gente continuava a sparire nelle impossibili ramificazioni di quel luogo di morte.
Al piano terra sentì il portone verde spalancarsi e richiudersi, poi passi veloci di qualcuno che si stava guardando intorno.
Pregò Dio che non si fosse trattato dei poliziotti. Se erano così accaniti, forse non si sarebbero fatti scoraggiare dal buio e sarebbero venuti a cercarlo anche dentro a quel labirinto di ossa.
Non poteva esitare ulteriormente, e proprio quando sentì i primi passi sulle scale sopra la sua testa, Grantaire prese a due mani il proprio coraggio e saltò nel corridoio spettrale che aveva davanti.
Il fischio basso e tremolante del flusso d'aria, gli fece intuire che davanti a sé avesse una strada dritta, dunque prese a correre alla cieca mentre con le mani si tastava alla ricerca del cellulare.
La piccola torcia del telefono non era un vero e proprio faro di salvezza, ma quantomeno gli permetteva di vedere dove stesse mettendo i piedi.
Estrasse anche la mappa che gli aveva dato Courf. Un percorso segnato con un evidente tratto rosso indicava che avrebbe dovuto proseguire dritto ancora per parecchi metri, per poi infilarsi in quello che sulla cartina sembrava un corridoio sulla sinistra ancora più stretto.
Non volle girarsi, ma tese le orecchie per verificare se qualcuno lo stesse effettivamente seguendo. L'eco non gli rimbalzò suoni di passi che non fossero i suoi.
Scattò a sinistra non appena vide la rientranza di un'altra via aprirsi nella parete umida. Era effettivamente più stretto, ma a infastidirlo davvero era il freddo che quelle pareti umide emanavano. Un freddo che stringeva il suo mordente fin nelle ossa.
Ormai correva di default, più che per necessità, ma almeno si teneva più caldo.
Il passaggio lo fece sbucare in quello che sembrava uno spiazzo molto più largo.
Puntò la torcia intorno a sé e poté notare che, incastonati nelle pareti di terra, cominciavano a comparire i primi teschi e i primi femori umani; significava che stava entrando nella necropoli vera e propria.
Per riflesso incondizionato si schiacciò la torcia del telefono contro il petto, facendo calare di nuovo il buio. Aveva il fiatone, certo, ma riconobbe a se stesso che in quel respiro irregolare ci fosse paura. Era sinceramente spaventato da quel posto, si sentiva a disagio, i sensi troppo in allerta lo mettevano in guardia per ogni minimo stimolo: un cambio improvviso di temperatura, lo squittio di un topo in lontananza, lo stesso scricchiolare delle sue suole di gomma. Tutto gli faceva perdere battiti, ormai.
Mosse alcuni passi all'indietro fino ad appoggiarsi con la schiena alla parete. Lì chiuse gli occhi e cercò di fare come gli era stato insegnato. Prendi aria dal naso per quattro secondi, trattieni per cinque, butta fuori l'aria dalla bocca per otto
Strinse i denti. L'astinenza faceva correre la sua testa al doppio della velocità che usava di solito. Dunque la mole di pensieri che doveva processare, lo mandava in burnout in pochi minuti. Bastava uno stimolo in più per mandarlo in sovraccarico e far crollare tutta la torre Jenga.
E lì, nel buio, gli apparve sotto le palpebre una luce calda che si avvicinava lentamente. Non era niente di ché, ovviamente, ma bastò a distrarre la sua mente capricciosa.
Poi la voce di Enjolras gli tuonò di nuovo nelle orecchie.
"È un percorso pulito."
Certo che lo era. Enjolras non li avrebbe mai messi davvero in pericolo. Doveva fidarsi.
Di nuovo, il Sole era venuto in suo soccorso.
Staccò il telefono dal petto e, con le mani ancora tremanti, studiò la mappa.
Il percorso che aveva davanti era molto lungo, in effetti, ma non impervio.
Riprese a macinare metri, riempiendosi i polmoni di quell'aria mortifera che sapeva di abbandono e decadimento, e cercò il più possibile di non pensare. Di non far attivare quella ventolina assordante nel retro del suo cervello.
Cercò disperatamente di farsi abbracciare dal calore e dalla luce di quel sole immaginario che già era venuto in suo soccorso quando ancora non sapeva di poterglielo chiedere.
Enjolras gli mancava terribilmente. Tutti gli mancavano terribilmente. Si sentì un idiota a fare certi pensieri, ma a volte non serve non vedere qualcuno per anni. Bastano pochi momenti, ma che siano quelli giusti, per farti morire dentro non potendo condividerli con chi vorresti.
Chissà dov'erano tutti. Se per loro era stato più facile che per lui.
Se era stato più difficile.
Intorno a sé aveva soltanto teschi secolari che lo fissavano, con le loro orbite vuote e calcificate, e si ritrovò a domandarsi come l'avrebbe presa se qualcuno degli altri si fosse fatto veramente male.
Se 'Ras si fosse fatto veramente male.
Ricominciò il suo giochetto del respiro, cercando di concentrarsi sul suono dell'aria che usciva dalle labbra, perché la ventolina nella sua testa, come previsto, aveva ripreso a girare.
Poi, all'improvviso, dietro di lui si fece sempre più forte l'eco di passi pesanti, veloci.
Se l'era presa troppo comoda; i poliziotti erano lì. E lui lì stava portando proprio nella loro tana segreta.
Le gambe si mossero prima che la testa diede loro il comando e ricominciò a correre nel buio e nel freddo.
Più avanti il corridoio si apriva sempre di più, fino a diventare un larghissimo spazio dal soffitto basso, sostenuto in più punti da tozze colonne di pietra.
Tutt'intorno si aprivano quelli che sembravano essere decine di corridoi diversi, e in un moto di eroismo che gli apparteneva molto poco virò dal percorso scritto sulla mappa con l'intenzione di allontanare i suoi inseguitori da tutti gli altri.
Il prezzo da pagare era che lui si sarebbe ovviamente perso. Era matematico.
«Babe!»
Una voce rotta dal fiatone lo raggiunse insieme a tutte le sue eco.
Lanciò uno sguardo oltre la sua spalla e pochi metri più indietro il suo inseguitore guadagnava terreno fin troppo velocemente.
Joly.
Joly.
Raramente era stato così felice di rivedere un viso conosciuto.
Si accasciò sulle ginocchia per riprendere fiato, mentre l'altro lo raggiungeva.
«Dove vai? Il percorso è di là.», gli ricordò Joly abbassandosi la mascherina sul mento per riprendere adeguatamente fiato.
«Credevo fossi un poliziotto, stavo cercando di seminarti.»
Joly gli diede una pacca sulla spalla.
«Non si improvvisa con i piani di 'Ras.» prese fiato, «Non fare mai più l'eroe.»
Grantaire strinse le dita intorno al suo polso sottile e lo tirò a sé in un abbraccio che lo rimise al mondo.
Ne aveva incredibilmente bisogno.
«Ho avuto paura.» ammise. Più a se stesso che a Joly.
E il suo cervello quella paura l'aveva registrata. Forse non ne avrebbe pagato le conseguenze subito, ma poteva dire con certezza che quell'esperienza lo aveva segnato.
Il braccio destro di Joly lo ancorò contro di sé, mentre l'altra mano gli accarezzava teneramente i capelli. Non poteva vederlo, ma dal modo in cui respirava si rese conto che stava ridendo.
«Sei stato bravo. Ti ho visto.»
Non sapeva dire se fosse l'alterazione del suo cervello data dell'astinenza, ma le emozioni di quella giornata erano state tante, e forti. E per qualche ragione quel "ti ho visto" aveva rimbombato nel suo petto più del dovuto, diventando un groppo alla gola che lo costrinse a ricacciare giù le lacrime.
Sì. Era esattamente così che si sentiva, da quando aveva conosciuto quel gruppo di megalomani; visto.
Lo avevano accolto, poi accettato, aiutato, coinvolto, abbracciato, capito, conosciuto, salvato.
Salvato.
Visto.
Tutto in pochi giorni.
Si era chiesto più volte, senza dare troppa attenzione a quel pensiero, se a tenerli così uniti fosse la condivisione profonda degli stessi ideali.
Ideali che li spingevano a gettarsi tra le fauci di una folla inferocita e addentrarsi alla cieca nel regno dei morti. Ideali che li portavano a ritagliarsi con le unghie e con i denti il loro spazio nel mondo. Il loro diritto di parlare, di pensare, di combattere per qualunque cosa credessero giusta.
Ideali che lui non aveva mai compreso. E adesso, invece, lo capiva.
La vita non permette a nessuno di scegliere la propria famiglia, dunque ci lascia scegliere gli amici. Una seconda famiglia.
Ma ce n'è una terza, per chi ha il coraggio di aprirsi a questa possibilità, che è quella che portano le idee.
Le idee ti costringono a incrociare persone che, altrimenti, non incroceresti mai. E ti portano a tornare lì, una, due, infinite volte.
Perché le idee non muoiono mai, e hanno necessità di essere condivise.
E lì, nelle catacombe di Parigi, stretto a Joly, che conosceva da appena qualche giorno, ringraziò Dio di aver trovato Apollo. Perché di quella luce ne aveva sempre avuto bisogno, e non lo aveva mai capito.
«Andiamo.» Joly rimise distanza tra di loro e lo guidò nella direzione giusta, ma Grantaire si rifiutò di lasciar andare la sua mano.
Si misero a correre a perdifiato facendo slalom tra le colonne di quel posto tetro, con la felicità di due ragazzini che corrono giù da una collina in piena estate.
Risero, urlarono e saltarono.
Ce l'avevano fatta.
Svoltato un angolo si ritrovarono immersi nella luce calda di vecchie lampadine appese sul soffitto di quella che sembrava una grande stanza.
Arrampicato su un lato, tutto intento a fissare alcuni cavi elettrici, c'era Jehan in punta di piedi sull'ultimo gradino di una scala.
Dal lato opposto, Bahorel e 'Ponine stavano assicurando metri e metri di filo in un avvolgitore.
Quando lo vide, 'Ponine mollò tutto lì dov'era e gli corse incontro. L'impatto della sua testa sotto il mento, lì dov'era stato colpito poco prima, fece male. Ma non poteva sperare in un dolore migliore.
«Ce l'hai fatta!» gli sussurrò all'orecchio, prima di lasciarlo andare, sostituita da Jehan che gli ricoprì il viso di baci.
«La porta è opera tua, vero?» rise Grantaire, guardando Bahorel che di tutta risposta strizzò un occhio e tirò fuori la lingua, soddisfatto del suo operato da caterpillar.
Da un angolo si fece avanti anche Montparnasse, per dargli il cinque, e dietro di lui, seduto per terra che beveva da una bottiglietta d'acqua, c'era anche Combeferre.
«Ma ci siete tutti!»
«Mancano solo 'Ras e Courfeyrac.» gli rispose 'Ferre, asciugandosi la bocca con la manica.
«Benvenuto nel nostro nuovo quartier generale!» Jehan fece una serie di piroette a braccia aperte, e quando intercettò accidentalmente la traiettoria di Montparnasse che tornava al suo posto, si scansò e cambiò direzione, quasi si fosse imbattuto in un grosso scarafaggio.
Quei due erano ancora messi male, ovviamente; ne avrebbe parlato di nuovo con Jehan, a tempo debito.
Passò i successivi quindici minuti seduto per terra, le braccia mollemente poggiate sulle ginocchia e la testa penzolante tra le spalle.
Adesso che si stava riposando, sentiva chiaramente il peso di quella giornata su tutto il corpo. La mandibola era un inferno di dolore, ma anche la schiena non scherzava. Per non parlare del bruciore alle gambe.
«Tu sei un pazzo!» Qualcuno gridò, attirando l'attenzione di tutti.
Un secondo dopo, dal buio che li circondava, sbucò fuori Courfeyrac. Si strappò via dal viso il passamontagna, svelando un sorriso che attraversava la sua faccia da un orecchio all'altro.
Il suo naso era ancora terribilmente livido, ma né quello, né il sudore e la stanchezza, riuscivano a farlo apparire più brutto neanche di pochissimo.
Si diresse a passo svelto verso di lui.
«Tu sei un pazzo.» ripeté. Stava parlando proprio con lui. Lo raggiunse lì dov'era e si accucciò posandogli entrambe le mani sulle spalle e scuotendolo come una piñata.
«Quello che hai fatto è assurdo», non smise di guardarlo con quell'espressione estasiata, ma stavolta si rivolse a tutti gli altri: «Domani i telegiornali parleranno di questo pazzo qui, vedrete!».
«L'ho visto anch'io in rue de Madrid!» si aggiunse Joly, «Ha sparato i fumogeni in faccia a quei poliziotti. Sembrava un film!»
Jehan rise battendo le mani, «Cazzo, che altro mi sono perso?»
«Ha dato un pugno a un poliziotto e lo ha fatto cadere sul cofano di una volante.»
«Non ci credo!»
«Dov'è 'Ras?»
Silenzio.
Non aveva parlato troppo ad alta voce, ma tutti si erano fermati a guardarlo.
«Dov'è 'Ras?» ripeté, stavolta guardando direttamente Courfeyrac.
Il ragazzo si rialzò in piedi e, tirando su la manica della sua maglia nera, controllò l'ora sull'orologio allacciato al polso.
«Doveva già essere qui.» Courf cercò con lo sguardo Combeferre, che di tutta risposta alzò le spalle.
«Starà arrivando.»
Eppure dentro di lui quelle parole non attecchirono e non lo tranquillizzarono.
Un brivido gelato, come un tetro sesto senso, lo costrinse ad alzarsi in piedi. Sentiva che di lì a poco non sarebbe riuscito a rimanere fermo.
«Chi è stato l'ultimo a vederlo?»
Montparnasse alzò la mano, «Circa una quarantina di minuti fa.»
E a Grantaire quella risposta non andò giù.
Teneva le braccia lungo i fianchi e le mani si aprivano e chiudevano convulsamente.
Gli venne da ridere. Una risata grave, nervosa.
«E lo hai lasciato da solo?»
Montparnasse alzò le spalle e cercò aiuto negli altri con lo sguardo, «Mi ha detto lui di farlo.»
Risposta sbagliata.
«È storpio e lo hai lasciato da solo?» berciò, tanto improvvisamente che due di loro sussultarono per la paura. Non Montparnasse.
Courfeyrac lo raggiunse e, con una mano sulla spalla, cercò di dirgli qualcosa, ma con scarsissimi risultati.
«Non dirmi che non dobbiamo improvvisare, Courf!», ora stava urlando, «Lo abbandoniamo?»
Tutto, tutto sembrò crollargli addosso con quelle parole. Perché ora che aveva verbalizzato quell'idea, la sua testa gli aveva fatto uno sgambetto non da poco, proiettando immagini di Enjolras arrestato. Enjolras ferito e impossibilitato a muoversi. Enjolras picchiato a sangue dalla polizia. Enjolras morto, calpestato dalla folla.
Gli occhi azzurri che puntavano dritti davanti a sé, spenti. La guancia schiacciata contro i san pietrini e un rivolo di sangue che colava giù dalla fronte.
Dovette stringersi il ponte del naso con due dita, strizzare gli occhi.
Provò a ricontattare il piccolo sole sotto le sue palpebre che soltanto mezz'ora prima lo aveva aiutato. Ma non riusciva più.
E quando riaprì gli occhi, tutti si guardavano tra loro con aria confusa, amareggiata, e lui si sentì come si era sentito da piccolo, quando il suo cane era stato investito e i suoi genitori non volevano e non sapevano come dirglielo.
Anche allora, lui sapeva che c'era qualcosa che non andava, ma nessuno voleva prendersi la responsabilità di dirglielo.
Era così anche adesso?
Enjolras era un cane morto?
«Dov'è?»
Le emozioni erano tante, contrastanti, e lui non sapeva più né come categorizzarle né come arginarle. Dunque le lasciò esplodere fuori dal petto nel modo più naturale che aveva il corpo umano per far defluire una mole simile di energia vagante: scoppiò a piangere.
«Dov'è Enjolras?»
Dov'era il suo faro, il suo sole?
«Dov'è Apollo?»
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