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OO8: 𝗦𝗼𝘂𝘁𝗵 𝗡𝗶𝗴𝗵𝘁 𝗣𝗮𝗿𝗮𝗱𝗲

La voce di Harven strappò brutalmente le parole via dalla carta, facendo colare via l'inchiostro dalle piccole incavature del foglio dove la macchina da scrivere le aveva impresse.
In qualche modo aveva immaginato che la voce di Harven fosse perfetta per il personaggio di Alexander. Aveva quella stessa presenza monolitica ed il corpo fermo, gli occhi liquidi che tradivano la sua umanità sotto quell'apparenza da statua.
Avrebbe solo voluto sentirlo recitare senza doversi mangiare le interiora dal livore e dalla vergogna.

Lesse l'apertura del suo ultimo lavoro notturno, South Night Parade.

- Come si chiama quella specie di spinta che senti nel petto ogni volta che sei irrimediabilmente, sideralmente, completamente solo?
Sembra quasi tirarti via, o almeno tenta. Prova ancora una volta a trainarti da qualche parte, rosicchiandoti i polmoni e schiacciandoti il cuore, provando di nuovo, inutilmente, a spostarti.
Rimani immobile, di solito, cercando di nutrire quella sensazione e di farla sparire svuotandoti ancora di più. La sensazione non finisce mai.
Ti senti sempre meno vivo ogni attimo che passa.
Sei solo.
Il petto ti fa male.
Sei solo e sai di esserlo.
Il petto ti fa male.
Sei solo e cerchi disperatamente di illuderti che non rimarrà così, che le cose cambieranno, che prima o poi, in qualche maniera assurda, tutto all'improvviso sarà diverso da come è sempre stato. Cambierà, dici.
Il petto ti fa male.
Sai che rimarrai per sempre solo.
Lo sai in quei momenti in cui l'acqua bollente della doccia ti consuma la pelle, e sei solo.
E vedi, con la lucidità che non vorresti avere, che nient'altro che sembra così vivo come l'acqua ti toccherà mai.
Cosa accadrebbe se seguissi quella sensazione?
Se iniziassi a correre via sino a morire senza fiato?
Collasseresti alla fine del mondo.
Solo, forse col sapore dell'insoddisfazione in bocca per non aver capito come si chiama quella spinta.
Come si potrebbe mai chiamare qualcosa che senti solo tu, nella tua solitudine soffocante? Non lo saprai mai, si rincorreranno milioni di volte in cui la sentirai, così forte da alzarti in piedi di scatto coi piedi che quasi si muoveranno, se non fossero impastati col cemento. Miliardi.
E non saprai mai darle un nome -

Non prese fiato nemmeno una volta, andando avanti come trascinato da un lungo respiro del cuore, succhiando via l'aria dallo spazio tra i suoi organi.

La guardò, senza emozione. Odiava quello sguardo. Avrebbe preferito che le desse della stronza e la buttasse fuori dalla porta invece farla specchiare nei suoi occhi vuoti. Avrebbe voluto che si arrabbiasse così da potersi arrabbiare anche lei e urlare sino a non avere più nemmeno sangue da far bollire nelle vene.

- perché non hai spedito questo alla compagnia? -

Le parole, generalmente sue amiche, la tradirono sul più bello. Stette zitta.

Il suo corpo si contorceva come per dissolversi. Non era come Harven, lei. Lei non poteva far altro che plasmare la sua carne su sè stessa.

- per avere un successo sicuro e farti conoscere per qualcosa che non potrebbe nemmeno lucidare le scarpe a quello che scrivi quando fai tardi la sera in teatro e credi che io non ti guardi? Sei un'egoista? Avida? Da quando? Da quanto ti stai nascondendo?-

- da sempre- disse la verità. Mentì. Sputò la sua anima sul tappeto bianco mentre parlava e scoprì che era più nera di quel che si aspettasse.

- ma non sono un'egoista. Né avida-

- Sono solo una codarda- aggiunse, sperando bastasse.

- una codarda- ripetè lui, incalzandola a continuare. Maledetto, maledetto Harven ed i suoi occhi che la vedevano anche quando non esisteva per nessuno, tantomeno per sè stessa.

- pensi che sarei stata capace di far leggere queste cose alla compagnia se non riesco a farle leggere nemmeno a te? Mai. Non ne sarei mai stata capace - rise un pianto, che venne succeduto da un silenzio che si attaccò tra loro viscoso di miele e nastro isolante.

- Eva... - non avrebbe saputo racchiudere meglio il suo fallimento in una sola parola.

Il suo nome.


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