22. (𝕱𝖆𝖜𝖓)
Intorno a lei sentì ancora il clangore delle armi, tanti passi, qualche grido sparuto. L'odore del sangue tutt'attorno si mischiava al soffocante aroma di bruciato: a un olfatto ignaro sarebbero potute sembrare carni di animale poste su un falò, non fosse stato per quella nota acre e pungente, a tratti nauseabonda. Fuliggine nera nell'aria, la cappa leggera di fumo grigiastro a coprire anche quel posto, quella terra, quelle anime. Il fuoco era riuscito a liberarsi anche sul mare: era sempre il suo fuoco, alla fine, quelle fiamme dannate che la maledicevano sin dalla nascita, figlie di una qualche colpa indefinita.
Alzò la testa quando ogni rumore sembrò essersi spento. Ormai vigeva la calma, qualsiasi cosa fosse accaduta tra i nemici ammantati di nero e le guardie di Kyma era già giunta a termine, ma nulla sembrava avere più importanza. Il tempo si era fermato.
Guardò le grandi radici che ancora le immobilizzavano le gambe, ormai insensibili: persino loro sembravano aver perso colore e robustezza, come se con la morte del loro padrone ogni linfa di vita fosse evaporata e avesse lasciato dietro di sé solo devastazione e aridità. Ne toccò una con le mani e cercò di aprirla per liberarsi dalla morsa, senza successo. Provò a usarle entrambe, ma il legno era secco e solido, restio a dimenticare e a lasciarla andare. Usò i polpastrelli e iniziò a staccare dal ramo dei piccoli frammenti, piano, poi sempre più veloce. Graffiò e lacerò, più forte e con maggiore energia. Schegge acuminate le si conficcarono sotto le unghie, ma le ignorò: cominciarono a farle male, le dita si tagliarono, sanguinarono, le chiesero di smettere. Andò avanti. Sbrindellò il ramo a pezzetti, senza rallentare: più male faceva, più insisteva.
Qualsiasi cosa, pur di non dover vedere ancora quelle fiamme scaturite dal demonio e non doverle usare più. Nemmeno lo schermo di lacrime che ne copriva la soglia di casa le avrebbe placate. Le sentiva ancora lì, dietro alle orbite, mentre schiacciavano per uscire. Non avevano pietà di lei, non ne avevano mai avuta.
Una presa salda interruppe il suo raschiare convulso: una mano ben più grande della sua le afferrò le dita e gliele scostò. Ne intravedeva la pelle brunastra sotto al sangue scuro e rappreso di cui era ricoperta. Alzò il viso: batté le palpebre un paio di volte, quel velo di lacrime era ormai diventato una coltre fitta. Osservò il comandante avvicinare una piccola lama a una delle radici e iniziare a tagliare, con delicatezza.
Perché continuava ad aiutarla? Perché non vedeva quanto fosse tutto sbagliato, contorto, maligno? Quanto non meritasse quelle attenzioni da parte di nessuno? Il problema non erano gli umani, i Misteri, né chiunque altro: era lei, era sempre stata solo lei. Inquinava ogni cosa e sapeva regalare solo dolore, disperazione e morte, a chiunque avesse cercato di starle vicino.
«Non aiutarmi». Allungò una mano per scacciarlo via. Lui non la prese in considerazione, le afferrò il polso, lo spostò, continuò a tagliare. «Sei sordo? Ti ho detto di lasciarmi in pace, non mi devi aiutare, cazzo!»
Si inceppò verso la fine: non riusciva a parlare, quelle dannate lacrime continuavano a scendere, lei non riusciva a respirare e quell'idiota non le voleva dare retta. Non ci vedeva più, ma si lanciò con entrambe le mani contro la lama per toglierla via. Nemmeno si premurò di non ferirsi nel farlo, sarebbe stato indifferente. Sarebbe stato giusto.
«Non è colpa tua».
L'aveva sussurrato, ma l'aveva sentito con chiarezza. Si bloccò per un attimo, il petto che non riusciva a fermarsi e lei a non sobbalzare. Allungò ancora le mani contro la lama che Devon continuava a usare su quei rami maledetti, ma lui la spinse via per l'ennesima volta, con calma.
«Mi hai sentito? Non è colpa tua».
Sì, lo sentiva, aveva anche alzato la voce e lei aveva compreso benissimo, ma non aveva alcun senso. Lui non aveva alcun senso e non poteva capirla, non aveva visto abbastanza, non sapeva e non si rendeva conto. Un ultimo tentativo: singhiozzò più forte e cercò di rubargli il coltello dalle mani, senza successo. Lui non si scompose e continuò a parlare: «Non lo dimenticherai. Tornerà ogni notte, per il resto della vita. Forse ti capiterà di vederlo anche alla luce del sole, soprattutto all'inizio. Mi devi ascoltare, però, per quel che vale: non è colpa tua».
Lo lasciò fare e si accasciò, molle, il pianto che ormai era così incontrollabile da spingerla a urlare e a rilasciare gemiti ad alta voce, che si persero nel vento. Rimase ferma e continuò con quella sequela di lamenti, finché Devon non terminò, le porse una mano e la aiutò a rialzarsi.
Un altro sussurro, appena udibile: «Così va bene. Ora lascia parlare me, vediamo cosa hanno da dirci questi amabili signori».
Cercò di tornare in sé e di capire cosa stesse accadendo, placò le emozioni. Un plotone di guardie li osservava, in testa quello che doveva essere il loro capitano, la barba fiera e curata a delinearne la rigidità del viso. I ricci lunghi e castani fuoriuscivano dall'elmo ancora scintillante: nonostante la breve battaglia che si era appena svolta, il suo aspetto non sembrava esserne stato scalfito. Il portamento indomito di qualcuno che era stato disturbato e che ora attendeva risposte o segnali, o una qualsivoglia forma di comunicazione ufficiale.
«Vi ringrazio per essere passati, un tempismo perfetto...»
Guardò Devon e il suo fare stoicamente tranquillo: lo sporco e il sangue, sia suo che nemico, non facevano che peggiorare l'aspetto già incolto che aveva di consueto. Le parve una scena strana, assurda: il suo comandante aveva ben più potere e autorità di quell'uomo a capo di un villaggio sulla baia, almeno per quanto lei potesse capirne in termini semplici, eppure un abisso di ostentazione li separava. A una prima occhiata lui sembrava solo un ragazzo trasandato, quasi un delinquente qualsiasi dalla pelle troppo abbronzata, messo di fronte a un pomposo e austero superiore.
Sul serio è un duca?
«Siamo stati chiamati, donna Ishbel ci ha comunicato che si stava svolgendo un attacco a un fantomatico emissario reale. Immagino siate voi».
«Perspicace».
Un sorriso accennato, come a voler offrire del sarcasmo al suo interlocutore, che parve non darci troppo peso. Devon le lanciò uno sguardo di sfuggita: non gli aveva detto di averli chiamati lei. Sapeva o no, di quella capacità di parlarsi nella mente? Ormai sentiva di non avere più alcuna certezza.
«Mi è stato riferito che portate con voi anche un Mistero, cosa alquanto insolita per un corpo reale. Vorrei dirvi quanto la cosa ci lusinghi, sono molti anni che il nostro conte cerca un'apertura di questo tipo da parte del sovrano. Tuttavia, non posso nascondervi una certa perplessità per il tipo di potere a cui avete scelto di dare fiducia...». L'uomo indugiò a lungo sull'ambiente circostante, sui corpi riversi a terra da cui uscivano ancora deboli spirali di fumo, sulle parti di carne annerita che sbucavano dai resti di metallo. Non nascose una smorfia di disgusto, dopo aver annusato l'aria.
«Il nostro Re deve scegliere molto bene in chi porre la propria fiducia, in tempi come questi. A quanto ci risulta dopo oggi, esistono Misteri anche tra le fila nemiche. Probabile che siano stati catturati e usati con la forza... Torturati, chi lo sa. Visto il tipo di popolazione sotto il vostro comando, farei più attenzione alle difese che offrite alla gente che sceglie di affidarsi a voi».
«Siamo più che capaci di difendere la nostra città».
«Non si direbbe».
Li osservò entrambi, spostando gli occhi dall'uno all'altro. Nonostante il capo delle guardie non fosse neanche sceso da cavallo e guardasse Devon dall'alto al basso, fiero nella sua immagine tirata a lucido, il comandante non cedeva di un singolo passo. La sua figura, all'apparenza modesta, pareva sovrastare chiunque e qualsiasi cosa, incapace di piegarsi: un orgoglio del genere avrebbe potuto far inchinare le montagne.
Si sentì una sciocca subito dopo averlo pensato, da quando in qua lo adulava?
Quella nota di biasimo parve fare breccia nel soldato, che si risentì, ma scelse di non ribattere ancora. Rispose a Devon con fare algido: «Vi ringrazio del consiglio, di certo teniamo alla sicurezza più di quanto non sembri dopo l'incontro funesto di quest'oggi. Portate i saluti e gli omaggi del conte al sovrano, affinché sappia che il popolo di Thalassan è fedele alla causa. C'è qualcosa che possiamo offrirvi? Insisto. Cure, riparo, sir...?»
«Carraig. E no, non ci serve niente. Togliamo il disturbo».
Fece per voltarsi e andarsene, si fermò quando capì che lei non lo stava seguendo. Fawn tentennò. Davvero non avevano bisogno di nulla? Era ormai sera, e quel braccio... lo guardò meglio: non aveva l'aria di una ferita superficiale, non si capacitava nemmeno del perché lui fosse ancora in piedi, a parlare con tanta sicurezza. Quanto sangue aveva perso? Fiumi.
«Non... Non sarebbe il caso di fermarci? Voglio dire, for...»
Lo sguardò che le lanciò sarebbe stato sufficiente a far tremare qualsiasi carattere appena più morbido del suo. Si zittì e Devon usò un tono che non aveva mai avuto fino a quel momento, di fronte a lei: «Ho detto che ce ne andiamo, non mi risulta di aver chiesto consigli».
Lo seguì, ancora incerta. Era lo stesso uomo che aveva cercato di calmarla, solo poco prima?
Lui si fermò dopo pochi passi e si girò verso il capo delle guardie, ancora una volta. Indicò con la mano il corpo senza vita di Darragh: «Il Mistero di cui vi ho accennato. Dategli una degna sepoltura». Prese da una fondina legata al fianco un borsello nero, frugò dentro e ne tirò fuori un paio di monete d'oro, grandi quanto due noci. Non le lanciò, si chinò con calma e le lasciò a terra, vicino al cadavere. «Lo saprò, se non sarà stato fatto. Vi saluto».
Non servì rivolgerle più alcuna parola. L'ennesimo sguardo furente che le lanciò fu sufficiente a convincerla. Trotterellò vicino a lui e se ne andarono, senza più guardarsi alle spalle.
*
«Posso darti la mia umile opinione?»
«No».
Sbuffò. Erano appena usciti dalle mura di cinta, cavalcavano da pochi minuti e in lontananza c'era solo arida terra. Il primo tratto di accennata foresta distava almeno cinque miglia da lì, il sole era calato da un bel pezzo, nessuna prospettiva di incontrare nuovi villaggi o edifici chiusi, almeno fino a mattina. Ammesso di cavalcare per tutta la notte, cosa che suonava davvero come un'idea pessima. E lui era pallido.
Non era un essere sovrannaturale, non covava terribili segreti o immortalità ereditate da divinità lontane appena uscite da un canto di festa: era solo uno zuccone. Un insopportabile, terribile, testardo e incredibile zuccone, all'improvviso pallido come uno straccio.
Ci riprovò: «Capisco l'aver rifiutato ospitalità da quel tale, ma non potremmo almeno fermarci e ripartire domattina? Posso cucirla io, la ferita, l'ho già fatto».
«Ci fermeremo a tempo debito, dobbiamo portarci avanti. È tardi e ci aspettano».
Inalò più aria possibile. Non riusciva a credere di averlo persino rivalutato o essere rimasta affascinata, poco prima. Si poteva essere più scriteriati di così?
«Che cosa aspettano gli altri cavalieri, mio signore? L'arrivo di un morto in veste gloriosa?»
Silenzio. Il sarcasmo non era la migliore delle soluzioni, forse. Gli gettò uno sguardo attento: persino la mandibola serrata lasciava intendere quanto stesse soffrendo. Possibile, per tutti gli dei?
«Dico davvero, ho cucito più ferite e tagli di quanto tu possa sapere e ti assicuro che quella roba lì non ha un bell'aspetto...»
Ancora nulla.
«Chi mi proteggerà dai briganti notturni, quando sarai bello che stecchito?»
Uno sguardo inviperito, più del dovuto. D'accordo, niente ironia.
«Se posso insistere, ed è chiaro che non potrei, ma più ci allontaniamo più la cosa si farà difficile. Ho intravisto una locanda, a ridosso delle mura, proprio all'ingresso della città. Io dico che dovremmo tornare indietro...»
«Pensavo avessi altre destinazioni argute da proporre, se ci pensi bene ti verrà in mente qualche deviazione sicura in cui perdere tempo».
Si zittì. D'accordo, era un gioco e sapeva giocare, chi meglio di lei avrebbe potuto capirlo? Attaccare per ferire ed eludere le domande, semplice e a prova di stupido, quale lui era. Anche se non faceva meno male, per questo.
Si sforzò di ignorare la cosa: lui aveva iniziato a sudare, le parve di scorgere persino un tremolio delle mani che tenevano le redini.
«Non ho altre destinazioni da proporre, se non la locanda, sono sicura che entro l'alba tutto sar...»
Lanciò un piccolo strillo: Devon si era afflosciato tutto d'un tratto, lasciandosi ricadere in avanti sulla sella di Tory. Si ritirò su, con fatica. Per un momento aveva temuto sul serio che stesse per cadere da cavallo.
Fece per parlare ancora e sputare fuori quanto fosse un totale incompetente, furiosa, ma lui la precedette, la voce ormai un mormorio fievole e carico di affanno:
«Torniamo indietro, fermiamoci...».
🦌🤎⚔️🔥
Lo ammetto, questo capitolo avrebbe dovuto contenere un'altra parte ingente, ma siamo alle solite: sarebbe stata troppo lunga, quindi ho scelto di dividerlo ^^
Poco male, vi prometto che arriverà presto.
Un piccolo capitolo di connessione, dunque, in cui ho voluto restituire sia le sensazioni di Fawn che un altro scorcio di questi due insieme.
Devon non è perfetto, anche se può sembrare, ricordatevelo xD
Impressioni? Sensazioni?
Abbiamo lasciato Lyam di là, da solo, alle prese con un paio di traditori: cosa preferireste avere prima? Continuiamo con Fawn e Devon o torniamo da lui? ^^
Bacini.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro