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48-Un pensiero felice

Dafne

Sono davanti a un macabro spettacolo.

Non oso guardare; giro la testa da un lato e chiudo gli occhi nel tentativo di estraniarmi da quell'incubo, ma le urla di Melissa mi dilaniano l'anima. Urla di dolore, miste al piacere di quei due che la fanno a pezzi, in ogni modo in cui, una donna, può essere distrutta nella sua intimità.

«Guarda, Dafne.» sussurra quell'uomo che è rimasto al mio fianco. «Hai la possibilità di conoscere il tuo passato, attraverso questo meraviglioso viaggio.» Lo sento mentre si avvicina e il suo alito che appesta di sigaro m'ivade le narici. «Ti ho detto guarda!» ordina perentorio.

Ma io non lo faccio. Mi rifugio nel mio inconscio, cercando di aggrapparmi a quel pensiero felice che sfugge, ogni volta che tento di raggiungerlo.

Mi afferra dalla testa, con le sue mani sudice e, con forza, mi costringe a voltarmi, premendo sul cranio. Tengo le palpebre ancora chiuse, nella speranza che, se non le apro, niente può  diventare reale.

Come una bambina che prova a nascondersi sotto le coperte, in una notte di tempesta, e si sente protetta dal piumone pesante, anche da quel mostro che continua a vivere sotto il suo letto.

«No!» urlo, mentre provo a divincolarmi.

Porto le mani sulle sue, infilo gli artigli nella carne e provo a tirarla via. Via dalle sue ossa e dalla mia testa che pulsa, sotto le dita del re dei folli. Preme ancora più forte; sembra non sentire i graffi che lacerano pelle, ma io lo sento il dolore. Quello che aleggia nell'aria di una stanza che sa di sofferenza, e nella fitta di un'unghia che si spezza.

«Invece guardi, puttana» dice, per poi leccarmi il collo. Mi fa così schifo che un conato mi si blocca in gola, «se non vuoi che quella ragazza faccia una fine peggiore di questa.»

Al suono della minaccia che arriva, come la più affilata delle lame, non esito più.

Apro gli occhi, ma provo lo stesso a non pensare alla scena che sto osservando, anche se è impossibile.

È impossibile non vedere come viene derisa, dagli uomini intorno che la guardano, mentre si toccano, eccitati da una violenza disumana. È impossibile fare finta di niente, quando arriva il primo schiaffo, poi il secondo e il terzo. Mentre la trascinano dai capelli, per farla voltare, è impossibile non sentirmi svuotata, insieme a lei.

Lo vedo dentro i suoi occhi distrutti che, anche lei, sta cercando di trovare il suo pensiero felice, per estraniarsi da quel momento perverso e disgustoso che la sta uccidendo.

«Voglio che tu sappia che io non ti ho mai toccata» Le parole arrivano, come un macigno, dalla bocca di un essere che non meriterebbe di esistere. «Ho sempre preferito un reale consenso. Inoltre, non mi eccitano le ragazzine» Non so se davvero stia pensando che sia una consolazione, neanche m'importa, mi fa solo ribrezzo, «ma ora... ora sei perfetta.»

Rimango paralizzata, per qualche secondo, prima di realizzare. Le sue dita hanno allentato la presa e mi sfiorano i capelli, come fossi una bambola e lui un collezionista ossessivo compulsivo.

«Cosa vuoi fare?» Tremo, terrorizzata da una risposta che possa dare conferma a i miei pensieri.

«Ti ho fatto una promessa, Dafne e voglio solo portarla a termine.»

«Di cosa stai parlando?» Ormai non mi resta altro che la verità, anche se non sarà mai abbastanza.

«Prima o poi torneremo a prenderti, puttana. Renderemo la tua vita uno strazio e, un giorno, saprai chi ringraziare, non rimembri?»

Quella frase risuona nella mente, come una campana stonata. La ricordo bene. Pensavo di averla lasciata in un posto nascosto della memoria, nella speranza di perderne ogni traccia. Era già tornata una volta, qualche mese fa, quando persi i sensi alle tende sulla spiaggia, e io l'avevo presa e messa via, di nuovo. Lo avrei fatto altre milioni di volte, e altre ancora, fino a farla sparire, per sempre.

Annuisco. Non posso nascondermi davanti a quest'uomo che sembra conoscere tutto della mia vita. Il pensiero che sia riuscito a manovrarla fino a oggi, senza che me ne rendessi conto, è diventato polvere che si sgretola.

Sgretola ogni parte parte di me e di ciò che ho sempre creduto. Ogni passo fatto, verso una felicità che credevo di riuscire a raggiungere era solo un passo indietro, mentre lui, ne faceva dieci avanti.

«Vedi» continua il suo disgustoso discorso, «Steve è sempre stato un alleato. Ho cercato di plasmarlo a mia immagine e somiglianza, ma non credevo sarebbe andato oltre le aspettative» Lo sento prendere un grosso respiro, uno di quelli che vogliono mostrare orgoglio e rispetto. «Lui sì! Lui c'era, quella notte, e giocava con te, nello stesso identico modo in cui lo sta facendo con quella ragazza.»

Quante volte e in quanti pezzi, può disintegrarsi una persona?

Me lo chiedo, ogni volta che sento il mio cuore frantumarsi. Penso sempre sia l'ultima, ma mi sorprendo a scoprire che può farlo ancora e ancora, fino a ridursi i polvere, per poi rinascere. All'infinito.

«Steve?» domando con un filo di voce. «Lui ha fatto questo, con me?» Punto il dito sulla scena che sta portando via l'anima di quella donna, sotto le loro mani perverse.

«Inizialmente, era tutta una questione di affari, Dafne. È sempre stato il mio lavoro.» confessa, e io vorrei solo mettergli le dita al collo per strangolarlo. «Quando Steven volle andare in quel campus, per adescare ragazzine, mi venne l'idea più folle di tutte. Scommesse. Non avrei mai pensato di raccogliere scommettitori da ogni parte del mondo. La voce si sparse a macchia d'olio e i soldi arrivarono, come acqua piovana nel periodo dei monsoni.» Prendo una boccata d'aria, quando mi libera dalla sua presa e infila le mani nelle tasche, per poi girare intorno alla mia figura paralizzata. «Non avevo mai azzardato a tanto, ma dovevo pur far divertire anche il mio bambino, con le sue coetanee. Ho unito l'utile al dilettevole, proprio come il migliore dei padri.» Diamo un premio al genitore del millennio, penso, ma lo tengo per me. «Fino a quando non arrivasti tu e, dopo qualche anno, lui perse la testa» commenta in un sospiro che sa di disgustosa malinconia. «Era ossessionato, Dafne. Il mio gioiello non è mai stato innamorato, ma il pensiero costante di un odio che si portava dietro da troppo tempo, lo portò a non avere occhi che per te» continua con la sua follia, e io lo lascio fare. «Ed è così che diventasti il Jackpot finale. Con tutti soldi racimolati in quella notte, avremmo potuto, perfino, smettere, ma, ehi, chi ce lo fa fare di toglierci tutto il divertimento, no?»

«Voi. Siete solo. Dei malati di mente» Scandisco le parole a denti stretti. Provoco, in quell'uomo, una risata che rimbomba tra le mura della stanza. Le risa di un fuori di testa senza controllo. «Lasciate stare quella ragazza!» urlo, liberandomi dalle catene invisibili che mi tenevano bloccata nel terrore di una possibile reazione del mostro.

Provo a raggiungerli, per tentare di mettere fine a quel dolore, ma il padre dell'anno mi afferra dai capelli, tirandomi indietro. Perdo l'equilibrio e cado sulle travi, graffiandomi, a causa delle schegge che escono fuori dal legno.

Fanno poco caso a quel vano sforzo di cambiare le sorti di Melissa. È andato a finire col culo a terra, insieme a me, tra l'indifferenza di quegli uomini che continuano a mettere in scena lo spettacolo del ribrezzo.

Ma non mi sono mai fermata. A ogni caduta ho sempre fatto forza per rialzarmi, e non farò nulla di diverso, ora.

Lo faccio di scatto, prima che quell'essere provi a fermarmi di nuovo. Annullo la distanza, facendomi spazio tra gli energumeni eccitati, e mi spingo sul corpo nudo di Steve, per poi conficcargli le unghie nella spalla sudata. Non serve a niente cercare di strappargli via la pelle. Proprio come suo padre, viene pervaso dalla rabbia e mi scaraventa a qualche passo da lui, addosso a uno di quegli uomini che coglie l'attimo per afferrarmi dal seno.

Alla vista di quella scena, Steve perde il controllo, lascia Melissa sdraiata sul materasso sudicio, con Matt a farle da balia sadica.
Si avvicina a grandi falcate, afferra il ragazzo dal collo, in una morsa che vorrebbe ucciderlo.

«Non devi toccarla, fino a quando non sarò io a dirtelo» minaccia con gli occhi che escono fuori dalle orbite. Allenta la presa, per poi rivolgere lo sguardo nella mia direzione. «E tu? Cosa credevi di fare, piccola?» chiede sardonico. «Hai fretta di unirti a noi? Dobbiamo aspettare l'ospite d'onore, Dafne, non lo hai ancora capito?» La sua raffica di domande mi manda in confusione, ancora di più di quanto lo fossi prima.

«Steve, ti prego, lasciala.» È l'unica cosa che riesco a dire, per non affogare nelle lacrime.

«Guardami, piccola!» l'urlo soffocato è ricco di frustrazione, mentre porta le mani a mostrare la sua erezione. «Guarda il mio cazzo! Ti sembra che io possa fermarmi?» La sua è una domanda retorica che sottolinea il suo essere viscido e spregevole che non deve chiedere, ma pretende e prende con forza tutto ciò che vuole.

Peter Pan non è mai stato più crudele di così. Le favole raccontano quello che i bambini vogliono vedere, ma lui è un mostro, un uragano che porta via le loro anime indifese. Li attira sulla sua isola, fuori dal modo e distrugge ogni briciola della loro infanzia, imprigionandoli in un corpo che non vuole crescere. Nessuno è protetto dalla brutalità di colui che spazza via il resto di quello che è, e di quello che è stato, mentre crea un vuoto incolmabile.

Si volta, lascia che due uomini mi afferrino, mentre suo padre continua a ridere di me.

«Steve!» urlo il suo nome, nella speranza che ci sia dell'umanità in lui.

Quella che mi sono illusa di vedere in tutti gli anni passati nella menzogna. Tutto orchestrato per farmi cadere nelle trappola della perversione.

Ma non c'è nessuno a sorreggermi e portarmi via dall'isola che non c'è.

«Con le tue grida, stai rovinando l'atmosfera, piccola.» Non si scompone. Alza il braccio in un comando silente, senza voltarsi.

Gli uomini mi trascinano via dalla stanza delle torture, ma io cerco di liberarmi da quella presa forte che sembra spezzarmi le braccia. Scalcio l'aria, ormai persa nel caos che regna nella mente.

«Melissa, perdonami!»

Le chiedo scusa, perché, è causa mia, se si trova in questa situazione.

Le chiedo scusa, perché, non sono riuscita a fare nulla, per aiutarla a scappare da quelle mani sudice sul suo corpo candido.

Le chiedo scusa, perché, non sono riuscita a vedere che il suo attaccamento ad Elias era solo un modo per chiedere aiuto.

E noi, non lo abbiamo visto. Abbiamo chiuso gli occhi, pensando fosse solo una pazza in preda al delirio.

I sottoposti delle bestie mi scaraventano in camera, come un giocattolo che non serve più.

Non appena si richiudono la porta alle spalle, lascio uscire fuori le lacrime che ho trattenuto, fino a questo momento. L'ho fatto nella convinzione che vogliano vedermi crollare e non ho intenzione di dare loro questa soddisfazione.

Loro: gli artefici del mio destino.
Gente ignobile che ha avuto la pazienza e la costanza di giocare con la mia vita, le nostre vite. Ancora i motivi rimangono nell'oscurità di una notte che non vuole scorrere. Una di quelle che lascia un senso di vuoto e di vomito che vorresti sparisse con una passata di spugna abrasiva sulla pelle, per togliere via la sensazione di lercio.

Passano le ore e continuo ad avere incubi a occhi aperti. La scena di quei due uomini che abusano di una ragazza indifesa, il pensiero che sia stato fatto per far riaffiorare dei ricordi, che non hanno intenzione di tornare e la certezza che, tutto quello schifo, sia successo anche a me e a chiunque altra, non mi lascia respirare.

Sento un dolore costante al petto,  vorrei lenirlo con una tazza di bollente di acqua, da mandare giù d'un fiato e non ascoltare le voci ansimanti e sporche che rimbombano ancora nelle orecchie.

Lo scatto della serratura mi riscuote dai pensieri. Mi terrorizza la possibilità che siano venuti a prendermi.

«Posso?» La voce delicata e appena udibile di Melissa mi fa tirare un sospiro di sollievo.

Mi alzo dal letto, senza preoccuparmi di non fare rumore. Tolgo uno di quei teli che coprono le finestre, per fare entrare un filo di luce. Lei porta l'indice sul naso per intimarmi di fare silenzio, spalanca gli occhi, nella penombra della stanza, spaventata dalla possibilità che qualcuno abbia sentito.

Non posso fare altro che calmarmi e ascoltare la sua supplica. Mi accomodo, lenta, sul materasso cigolante e le mostro il posto accanto al mio, per invitarla a sedersi.

«Come hai fatto a venire qui?» domando, mentre si avvicina.

«Dormono quasi tutti.» dice, forzando un sorriso che nasconde l'angoscia di una persona che ha subito tanto, ma si rifugia in pensieri che vanno oltre quello che accade. «Non preoccuparti, sarà difficile farli svegliare, dopo tutto quello che hanno ingerito.» Mi tranquillizza.

«Cosa ci fai qua, Mel? Perché rischiare, per venire?» Le mie domande sono lecite.

Non oso immaginare cosa potrebbero farle, se la beccassero.

«Avevo bisogno di dirti una cosa» Stringo gli occhi in due fessure, come a provare a leggerla dentro. «Tu, Dafne, non hai fatto nulla» Prova a rincuorami da quel senso di colpa che mi sta distruggendo. «La loro malattia mentale non è una tua responsabilità. Non dovevi chiedermi di perdonarti, anzi, devo essere io a chiedere il tuo perdono, perchè sapevo tutto, ma ho avuto paura.»

La luna si riflette nei suoi occhi stanchi e una lacrima le riga il viso, mentre mi afferra le mani e  fa scivolare un oggetto sottile in un palmo. Il metallo caldo che mi riempie la mano diventa la possibilità di fuga che aspettavo.

«Scappa. Fallo ora che loro dormono. So che hai visto quella finestra in bagno. Puoi uscire solo da lì. La porta di entrata è controllata da due guardie, qua fuori ce n'è solo una, ma è una specie di amico che chiuderà un occhio ed è già andato a tenere a bada gli altri due.»

«Vieni con me.» sussurro, stringendo le mie mani nelle sue.

«Dafne, no!» risponde perentoria. «Io mi assicurerò che tu sia lontana, prima che si accorgano della tua fuga. Sono distrutta, servirei solo a rallentarti.»

«Non posso lasciarti qui. Mi stai chiedendo troppo.»

«Puoi. Devi. Le mie gambe non reggerebbero. Per me è troppo tardi.» dice, con l'aria di una persona che si è arresa da tempo.

Mi volta le spalle e si allontana, ma si ferma, prima di riaprire la porta.

«Dafne» sospira. «Io amo davvero Elias. Mi sono innamorata dell'amore che lui prova per te. Ho pensato potesse guardarmi allo stesso modo e che riuscisse a portarmi via da quest'incubo.» si volta di nuovo, per tentare di incrociare i miei occhi nella leggera luce che regna nel silenzio della notte. «Ho accettato di fingere una gravidanza per due motivi. Speravo cadesse nella trappola e mi salvasse, e sapevo che tu avresti fatto di tutto per scoprire la verità» Le sue parole mi tagliano il cuore in un'esatta metà che vorrei donarle, per darle la forza di farcela. «Ora vai, Dafne. Troverai delle scarpe di ginnastica in bagno. Fai più in fretta che puoi.»

Lascia la stanza, in una preghiera che sa di primavera. Quella che dona la speranza che il sole torni a splendere e riscaldare, dopo un rigido inverno.

La porta rimane aperta e io seguo la scia di Melissa, dopo aver indossato una vestaglia nera, in coordinato con la lingerie che mi hanno costretta a mettere.

Mi dirigo in bagno e il mio cuore continua ad aumentare i battiti, a ogni passo su quel legno cigolante.

Entro, per poi richiudere la porta alle spalle, prima di guardare cosa ho tra le mani: un coltellino a scatto. Uno di quelli dalla lama ben affilata. Non credo di aver mai ricevuto un dono più bello. Infilo i calzini e le scarpe che Melissa ha lasciato all'angolo della vasca arrugginita, per poi salire sul mobile, sotto la finestra.

Inizio a grattare via, in modo minuzioso, il silicone con il quale hanno bloccato l'apertura. Non riesco a toglierlo facilmente, ma accendere il phon, per ammorbidirlo, rischierebbe di distruggere ogni possibilità di fuga, a causa del rumore. Insisto sui lati e gratto, gratto, gratto, fino a quando non sento più le dita, per via del dolore. Riesco a insinuare il coltello nella fessura. Spingo più forte e vado avanti per continuare a tagliare. La lama è più affilata di quanto pensassi, e il silicone di scarsa qualità, per fortuna.

L'ansia sale, mentre assaporo quegli istanti che mi separano dal mondo lì fuori.

Una volta raschiato lo strato che incollava l'anta al telaio, faccio leva, con l'attrezzo che ho in mano, per sollevarla. Inserisco il coltello nella calza, che arriva fin sopra il polpaccio, e concentro tutte le energie che mi rimangono, per schiuderla del tutto. Ho rischiato di perdere l'equilibrio, su quel mobiletto traballante, ma ci sono riuscita. Mi infilo, in fretta, in quel buco e mi spingo oltre l'uscita che sa di libertà. Mi ferisco alla pancia e a una gamba, mentre mi lascio cadere sull'erba, ma non m'importa cosa mi abbia tagliata, non ho tempo per capire.
Devo scappare...

Andare il più lontano possibile da questo posto e da quelle persone che non aspettano altro che giocare con la vita degli altri. Un gioco meschino che li diverte.

Sentire le urla, li diverte.

Vedere le gambe che tremano, li diverte.

Provocare lacrime e senso di nausea, li diverte.

Il terrore negli occhi della loro vittima, li diverte.

E, allora corri, Dafne. Corri, prima che ti prendano. Prima che il mostro ti afferri dalle caviglie per trascinarti sotto il letto. Corri, e lascia l'isola che non c'è, anche se non riesci a volare. Torna al sicuro, tra le braccia della tua famiglia che non vede l'ora di vederti crescere.

Raggiungo la vegetazione che costeggia la spiaggia e tento di nascondermi tra il fitto fogliame. Ho il timore d'incontrare qualche animale selvatico, ma non sarà più feroce delle bestie chiuse dentro a quel campus.

Le tenebre sono meno spaventose di quel raccontano gli incubi. Ho come la sensazione di essere osservata da tanti piccoli occhietti indiscreti, ma credo sia solo suggestione, mentre scappo il più veloce che posso, con il cuore in gola e il fiato corto.

Sento le gambe cedere. Perdono forza a ogni passo in corsa. Rallento, e il cuore, che pareva essersi abituato a quel ritmo, rimbomba nelle orecchie. Le premo, per tentare di farlo tornare al proprio posto, ma decido di fermarmi. Solo per un po', giusto il tempo di riprendere fiato.

Ormai, i miei occhi, si sono adattati al buio e la tenue luce della luna che filtra tra gli alberi, mi aiuta a trovare un masso, non troppo comodo, per sedermici sopra.

Mi perdo nei sogni. Cerco di riagganciarmi al mio pensiero felice. È da troppo tempo che non riesco a farlo, bloccata dal terrore di non sopravvivere. Ma ora... ora ho la speranza di rivederlo, magari, sotto un cielo stellato, per esprimere quel desiderio che ho conservato, quando ho visto cadere la stella nel cielo della Senna. Magari, un giorno, quando saremo soli, potrò dirglielo che l'ho tenuto in caldo per lui.

Un rumore, poco distante da me, mi mette in allerta. È quello dei passi che frantumano i ramoscelli sul terreno. E io tremo. Tremo, ancora una volta, prima di alzarmi di scatto e ricominciare a correre, mentre le gambe seguono la scia del mio corpo. Non riesco a reggermi in piedi, ma, i passi dell'ombra, si fanno sempre più vicini e veloci.

Perdo l'equilibrio, inciampo su qualcosa che sporge dalla terra.

Questa volta, provo a rialzarmi, ci provo con tutte le forze, ma non ne ho più. Sono stanca, dolorante, disorientata e distrutta.

A fatica, riesco a malapena a voltarmi, per cercare di distinguere la figura della bestia che mi ha trovata. Mi spingo con i talloni all'indietro, come se strisciando il sedere sulla terra, potessi sprofondarci dentro e sparire, divorata dal nulla.

Chiudo gli occhi, non appena vedo che mi ha raggiunta. Lo scricchiolio dei legnetti diventa una musica assordante. Un profumo di muschio invade le mie narici, quando mi sfiora il ginocchio con le dita fredde. Pizzica; devo essere piena di graffi e ferite, più o meno profonde. Smetto di tremare, rassicurata da quel tocco leggero e dall'odore di casa: la mia casa.

«Allora, continua ad essere un vizio, quello di sbucciarti le ginocchia, scarabocchio.» Quelle parole sussurrate, diventano speranza e luce, nel buio che mi stava portando via con sé.

«Elias?.» Riapro le palpebre, ancora scettica. Il cuore mi esplode nel petto, quando mi assicuro che non è frutto della mia immaginazione.

Lui è qui, ed è reale.

Mi afferra le braccia, per poi legarle al suo collo e aiutarmi ad alzarmi.

E io non vorrei più lasciarlo andare. Vorrei rimanere legata al collo per mille anni, ed essere sicura di non perderlo, neanche in un'altra vita.

«Stai bene?» domanda, spostando una ciocca di capelli dalla mia guancia.

«Un po' ammaccata, psicologicamente distrutta, ma, sì, me la cavo.» Tento la strada dell'ironia, per non vedere i suoi occhi spegnersi.

Gli strappo un breve sorriso, ma me lo faccio bastare, per ora.

«Ti ho vista scappare dalla finestra. Hai rischiato grosso, lo sai?» chiede in una domanda che non ha bisogno di risposte.

«Rischiando mi sono data una possibilità, Elias. Tu non hai idea di quello che hanno intenzione di farmi.»

«Cosa? Cosa, Dafne? Cos'hanno in mente?»

Non faccio in tempo a rispondere. Le luci delle torce, s'infrangono nella boscaglia e il vano tentativo di smettere di respirare, per evitare di fare rumore, non serve a niente.

«Bene, bene, eccovi qua. Che bella sorpresa, Elias. Avevo scommesso che non ci avresti trovati e, invece... mi hai fatto perdere, stronzo!» Matt digrigna i denti, mentre le luci rischiarano i dintorni.

Non riesco a distinguere gli uomini che si nascondono dietro le torce, ma sono quattro fari.

«Tu hai perso le rotelle, Matt. Ora ti preoccupi di una scommessa?» domanda sardonico.

«Oh, Elias, farei meno simpatico, se fossi in te» afferma, prima di alzare il braccio che impugna una pistola. «È carica, bastardo di merda. Prendimi a pugni, ora. Provaci!»

È puro istinto il suo modo di reagire. Si volta di spalle allarmato, mi abbraccia, come se potesse farmi da scudo, ma resta di pietra quando si rende conto che ho già un ferro puntato alla tempia.

«Ti prego Dafne, fidati di me» Sono le uniche parole che sussurra, prima di voltarsi verso quel mostro che non desidera altro che sguazzare nel nostro dolore. «Abbassa quella cazzo di pistola» ordina. «Non puoi farmi niente, lo so che lui mi sta aspettando.»

«Non vedeva l'ora di rivederti.» sogghigna l'uomo, mentre porta la pistola a grattare la testa.

Sono confusa. Era lui l'ospite d'onore che doveva arrivare?

«Allora? Cosa aspetti?» lo incita Elias, con il tono della provocazione. «Portami da lui... ora!»

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