47-Sipario
Dafne
Una nuvola portata via dal primo soffio di vento, ecco cosa vorrei essere.
Vengo trascinata, senza alcuna delicatezza, all'interno di una stanza rischiarata dalle luci di candele che rendono l'atmosfera inquietante. Penso di essere stata portata direttamente all'inferno, nel girone destinato alla lussuria. Un grande materasso, abbandonato sul pavimento scuro, al centro della camera, è coperto da lenzuola nere di seta. Altre, sono sparse sul pavimento, come fossero tappeti. Dal soffitto, scendono numerose catene agganciate alle travi in legno.
Mentre le osservo, cerco di inghiottire della saliva che sembra bloccarmi il respiro. Abbasso la testa per guardarmi intorno, ma sarebbe stato meglio chiudere gli occhi sin da subito. Non posso non notare che le finestre sono oscurate da pesanti tende color del sangue. Lo stesso che vogliono farmi versare su quel materasso che sa di morte.
Spero solo di riuscire ad estraniarmi dal mio stesso corpo e volare lontano, là, oltre le nuvole, dove ci sta sempre il sole.
Mi hanno fatto indossare un intimo in pizzo nero e una sottoveste dello stesso colore. Non avrei voluto farlo, ma hanno messo al rogo i miei vestiti lerci. Non avevo altre opzioni.
«Sei splendida, piccola.» La voce di Steve risuona, come aghi che mi trafiggono i timpani. «Ho provato così tante volte a convincerti di stare con me che, alla fine, mi sono stancato, come vedi.» Fa una strana smorfia con la bocca. Arriccia il muso per sottolineare meglio il concetto. «Dafne, Dafne, Dafne» Si avvicina, mi sfiora il viso con le dita luride e io mi ritraggo. Ho sempre avuto l'impressione che fossero sporche, ma non fino al punto da farmi venire il vomito. «Hai giocato troppo con il fuoco, avresti potuto evitare di bruciarti, magari solo con qualche piccola lesione, ma sei così...» stringe il pugno tanto forte da fare schiarire le nocche, «testarda.»
«Che vuoi, Steve?» Lo chiedo per avere una risposta reale sui motivi che lo hanno spinto a questa follia.
«Divertirmi, che domande!» risponde sardonico, mentre alza e abbassa le spalle. «Vedi, piccola, sarò sincero, non me n'è mai fregato un cazzo di tutte quelle puttanate che ti ho raccontato» dice, per poi riempire la stanza con una risata inquietante. «Una pinta, invece di un bicchiere di champagne, non è poi un così buon motivo per perdere la testa. L'ho buttata su due piedi, quella stronzata. Volevo farti credere di essere un perfetto Principe azzurro, ma tu hai preferito lo stalliere.»
L'ho pensato anche io, per un'attimo, che avrei potuto scegliere lui. Volevo vederlo, con tutte le forze, il meraviglioso principe che provava a mostrare. Volevo dipingere Elias come un mostro e ancora provo a farlo, ma non mi riesce benissimo. La verità è che il mostro si nascondeva dietro le fattezze di un gentiluomo. Io lo percepivo, anche se non sono riuscita a fare a pezzi quella maschera di cera.
«Cosa vuoi, davvero, Steve?» ripeto quella domanda, perché, lo vedo che sta divagando.
Cerco di mantenere una calma apparente, mentre le persone, intorno, ridono di me.
Quelli che poco prima incitavano Matt a farmi del male, ora passano il tempo a osservare lo spettacolo del delirio di onnipotenza di uomo che ha preso il sopravvento, anche sulle loro vite. Hanno indossato un cappuccio color del vino, per nascondere le facce da perfetti perversi. Come se già non le avessi memorizzate, una a una.
Mi tengono ferma dalle braccia, ormai livide, a causa della stretta che m'infliggono mentre tento di liberarmi. È l'istinto che mi porta a farlo. So benissimo che la loro presa è più forte del mio tentativo di divincolarmi. Anche se dovessi riuscirci, non potrei scappare.
«Avere le mie rivincite» dice, con una voce che esce rauca, dietro a quelle parole sussurrate. «Io sono andato avanti con un solo obbiettivo. Tutto ruota intorno ai miei scopi.» confessa, camminando verso un tavolo, in fondo alla stanza, dove sono riposte cianfrusaglie di ogni genere. Ne afferra una, la osserva e la ripone sul ripiano. «Il Mor, tu, Elias, Melissa: ogni singola mossa delle mie pedine era tutta una messa in scena, per raggiungere l'obbiettivo.»
Ho i brividi. Scendono lungo la schiena, percorrono le gambe, raggiungono le braccia, fino a colpire la punta del cuore. Sono paralizzata al pensiero di quello scopo che sente il bisogno di raggiungere. La sua vita è uno spettacolo teatrale di cattivo gusto. Uno di quelli crudeli, dove, alla fine, il protagonista impazzisce e si scaglia contro il suo pubblico, prima che si chiuda il sipario.
«Qual è il tuo obbiettivo, Steve?» Lo chiedo, mentre mi lascio sprofondare. Sento le gambe molli, come se non riuscissero a reggere il peso di una follia che sta divenendo reale.
Qualcosa mi dice che, questa pazzia che sta mostrando, sia solo la punta di un iceberg colossale.
E noi, solo onde che s'infrangono.
«Mhm, sei una piccola ficcanaso, non mi piace.» dice, facendo cenno ai ragazzi di mollare la presa dalle mie braccia. Mi lascio crollare sul pavimento, per poi reggermi con le mani ed evitare di schiantarmi. «Ti chiedo solo un po' di pazienza, me la devi.»
«Te la devo? Io non ti devo niente.» Lascio uscire quelle parole con l'ultimo filo di voce che mi rimane.
Inerme e annientata, manca solo che mi facciano a pezzi, per davvero, però. Dentro, lo sono già da un po'.
«Oh, sì, piccola. Me lo devi, proprio per la pazienza che ho avuto con te.» Credo stia blaterando parole a caso. Non è possibile che possa pensarlo sul serio. «Tu non hai idea di quanto ho sofferto tutte le volte che stavi per cedere, per poi lasciarmi a bocca asciutta. Avrei voluto solo prenderti dai capelli, tapparti quella cazzo di bocca e scoparti fino a farti male, e invece...» Si avvicina a passi lenti, vedo le scarpe tirate a lucido a qualche centimetro dalla mia faccia. Mi raggiunge, piegandosi sulle ginocchia, con l'avambraccio poggiato su di esse. Mi afferra dal mento e fa in modo che i miei occhi incrocino i suoi, «ho dovuto accontentarmi delle briciole che quella merda mi lasciava, quando gli girava male.»
«Di che cosa stai parlando?» Lo chiedo, perché non ho idea di dove voglia arrivare.
O forse ce l'ho, ma è un qualcosa che va oltre la pura pazzia e non ho intenzione di arrendermi a questa ipotesi.
Continuo a guardarlo, mi costringo a non abbassare la testa, per paura di perdere anche l'ultima briciola di controllo che mi rimane. Non posso abbandonarmi alla disperazione che sento crescere, ogni secondo che passa, come un uragano che porta via con sé tutto ciò che incontra.
Io non voglio finire dentro quel vortice.
«Sto parlando di tutte quelle volte che sei venuta da me solo per sfogarti. Credi che non lo sappia?» chiede retorico. «Credi che non mi sia accorto che mi saltavi addosso per ripicca, per poi tirarti indietro, dopo avermelo fatto venire duro?» Si alza e inizia a camminare avanti e indietro, indietro e avanti, in maniera compulsiva. «La prima volta, ricordi?» Mi rivolge la domanda, ma continuo a fissarlo senza battere ciglio. «Ricordi?» Urla e io annuisco, anche se non so cosa intenda, ma ho così tanta paura che non ho intenzione di contraddirlo. «Non avrei dovuto farlo venire su quel tetto. È stata una mossa sbagliata. Mi serviva, però. Non potevo farlo incazzare.»
«Cosa c'entra, Steve? Non sapevo neanche chi fosse, ancora.»
«Mi hai baciato per nasconderti da lui.» Mi lascia impietrita. «Anche quella volta che ti ha raggiunta sul terrazzo, mi hai baciato, perché avevate discusso. Per non parlare della volta che stavamo per farlo, solo perché lui era a cena con Melissa. E pensi anche che io non abbia avuto pazienza?» La sua aria sardonica mi spaventa a morte.
Provo ad alzarmi, mi faccio forza su braccia e gambe. Cedo, a causa del tremore che non le mantiene rigide, ma ci riprovo e riesco a farlo.
Riesco ad alzarmi. Ce la faccio tutte le volte. Ho solo bisogno di riprovarci e non arrendermi.
Devo trovare il modo di andare via da questo posto. Di allontanarmi da quelle mani che non desiderano altro che farmi del male.
«È vero!» ammetto. «È sempre stato il sentimento che provo nei confronti di Elias a farmi agire, come una bambina. Ho sbagliato, non lo nego, ma non può essere questo il tuo problema.»
«Il mio problema non sei tu.» Ed era proprio qui che volevo arrivare e ciò che più temevo. «Questo teatrino è dedicato a Elias. Tu sei solo un effetto collaterale. Se lui non provasse quello che prova non saresti qui.»
«Sai benissimo che non stiamo insieme. Ti sei sbagliato, a quanto pare.» dico, mentre mi spunta un sorriso sarcastico senza che io lo voglia.
«Te l'ho detto, Dafne. Volevate fregarmi, ma vi hanno visti.» Finalmente, ferma quella camminata compulsiva che pareva durare da secoli. «Vi hanno visti sulla spiaggia, al gazebo, quel giorno che siete venuti a cercare il nulla. Elias li aveva sentiti, a quegli idioti. Per fortuna, te ne sei uscita con la storia degli animaletti selvatici e lo hai distratto.»
Il fruscio tra le foglie, lo ricordo bene. Siamo stati seguiti anche quel giorno. È tutto così assurdo che mi aspetto che qualcuno esca fuori e dica che è stato tutto uno scherzo.
«Hanno visto molto male. Lui non mi vuole.»
«Anche se fosse? Tiene così tanto a te che farà di tutto per trovarti, piccola ingenua.» Soffoca in una risata e vorrei tanto fosse anche l'ultima. Vorrei che soffocasse sul serio e smettesse di respirare. «Ti amo.» dice, tornando serio. «Tu ci pensi? Sono arrivato a dirti questa puttanata, per convincerti a stare con me» Torna ad essere troppo vicino, mi afferra da entrambe le guance con una mano, «Non ho mai dovuto supplicare nessuno, stronza!» per poi spingermi via, come fossi una bambola di pezza.
Cado di nuovo sul pavimento, mi ferisco a una gamba con qualcosa di appuntito che spunta dal legno. Sussulto, a causa del dolore che mi provoca. Alzo la testa per guardarmi intorno e vedo quegli uomini schierarsi in una fila ordinata, sui due lati della stanza.
«Mi è stato insegnato a essere almeno un passo avanti, sempre» continua, mentre i fari di un auto, all'esterno, oltrepassano le tende, rischiarando la stanza. S'infrangono nelle sue iridi oscure che mi fissano, come se fossi una tenera preda succulenta. «Bum, piccola. Che la festa abbia inizio!» dice, alzando la mano, a pugno chiuso, vicino al viso, per poi aprirla di scatto.
I brividi diventano lame affilate che trapassano la carne. Provo dolore. Il dolore di un terrore crescente.
La passerella umana, ai lati della camera, china il capo in segno di riverenza, per accogliere l'ospite appena arrivato.
Una figura esile e coperta, fino alla testa, da un mantello dello stesso colore del cappuccio degli uomini presenti, appare sulla soglia. Il tacco a spillo, laccato di rosso, che intravedo sotto la lunga stoffa, non lascia dubbi sul fatto che si tratti di una donna.
Rimango immobile, ancora seduta sul legno del pavimento, a osservare una scena che sa di disgusto e perversione, mentre allunga la mano per afferrare quella di un uomo con il doppio dei miei anni, circa. Uno di quelli che, a un primo sguardo, potrebbe affascinare, per l'aura di mistero e depravazione che si porta dietro.
La mascella affilata rende i tratti spigolosi che una leggera barba incolta, non riesce a nascondere. Un sorriso sghembo e occhi taglienti che mi trafiggono l'anima, quando incrociano i miei, mettono in risalto un'aria familiare, ma non credo di averlo mai visto, in realtà. È una sensazione strana e, allo stesso tempo, disgustosa.
Si attacca alla pelle, sa di viscido e di casa, come se fosse sempre stato presente nella mia vita, ma non lo avessi mai incontrato. È terrore; puro terrore. Quello che ha il sapore delle ferite che ho cercato di rimarginare negli anni, ma che continuano ad aprirsi, perché non viene lasciato il tempo di farle cicatrizzare.
Distolgo lo sguardo da quella figura ingombrante. Pare infettare tutto ciò che si trova a pochi passi dal suo passaggio, con la sua essenza di muschio e sigaro, che invade la stanza.
Osservo Steve, sembra avere il petto tronfio di orgoglio, mentre incrocia le braccia, incantato dell'entrata di quell'uomo e della sua accompagnatrice.
Ritrovo la forza di alzarmi, ancora una volta, indietreggio, fino alla parete che mi blocca.
Prego di essere risucchiata all'interno di quel muro, di sparire e non fare ritorno, anche se fosse per sempre. Preferirei vagare nel nulla, piuttosto che scoprire cosa mi attende.
«È un piacere rivederti.» La sua voce, calma e inquietante, si fa sentire. Risuona intonata, come in un canto che già conosco. Allunga le braccia a mezz'aria, dopo aver lasciato la mano della donna, come a raccogliere l'atmosfera e sfiorarla con le dita. Sospira a occhi chiusi e tira aria dai denti. «Da quanto, figliolo?» Si volta, rivolgendosi a Steve, «da quanto tempo attendo questo momento?»
«Tredici anni, padre.» risponde, provocandomi un sussulto.
Padre?
«Come lo hai chiamato?» chiedo, mentre una sensazione di nausea mi porta a stringere una mano sullo stomaco.
Steve si avvicina, a passi lenti e silenziosi, ma sembrano rimbombare sul pavimento, come quelli di una bestia immonda.
«Pa–dre.» sillaba la parola, rendendola ripugnante, mentre la sussurra nel mio orecchio.
«Tuo padre?»
Non riesco a realizzare. Padre e figlio, in combutta per rovinare la vita delle persone.
Potrei vomitargli sulla camicia inamidata.
«Oh, piccola Dafne. Non è ancora il momento delle presentazioni ufficiali. Far parte della mia famiglia è un merito che non ti è più dovuto. Dovrai guadagnartelo.» La sua risata sardonica si diffonde a macchia d'olio, provocando l'ilarità delle persone che, pur restando al proprio posto, non riescono a smettere di ridere. O, forse, devono farlo.
L'unica a non cogliere l'ironia becera è quella donna che, ancora, rimane nascosta dietro al suo mantello, in disparte. Immobile. Non capisco neanche se stia respirando.
L'uomo senza nome, si rende conto a chi è rivolto il mio sguardo, in questo momento. Sono distratta da quella figura misteriosa e dal suo modo di rimanere impassibile.
«Avvicinati, mia cara» dice, rivolgendosi a lei. «La nostra Dafne vuole vederti.» continua, intimandola, mascherando il comando con un tono gentile.
La donna tentenna, per poi raggiungerlo a passi lenti ed eleganti, su quel tacco da dodici centimetri che le fa da trampolo.
Steve si posiziona all'altro fianco della ragazza. Padre e figlio hanno lo stesso sorriso crudele e assetato. Entrambi alzano il braccio per poggiare la mano sul grande cappuccio che le fa ombra in viso. La luce tenue delle candele, non mi permette di distinguere i tratti del volto.
Abbassano quelle stoffa di troppo e la chioma bionda della donna mi fa perdere un battito.
Mi si gela il sangue. Diventa ghiaccio, sotto la pelle nuda.
Non c'è alcuna espressione sul volto di Melissa, quando alza lo sguardo che teneva puntato a terra, per guardare dritta davanti a sé, come una perfetta macchina lobotomizzata.
«Dafne, sembri esserci rimasta male.» Il padre di Steve commenta con sarcasmo. «Non siete mai state grandi amiche, o mi sbaglio?» continua, rivolgendosi alla bionda.
Lei non parla. La vedo ingoiare un groppo di saliva. Forse, era proprio quello che non le permetteva di respirare.
«Rispondi, cazzo! Rispondi a mio padre.» Steve l'afferra dai capelli e la scuote con uno strattone all'indietro.
«Sì, è vero, mio Signore. Io e questa ragazza non siamo mai state grandi amiche.» Viene tradita da una voce che fatica a uscire senza tremare.
Ha paura. Lei ha così tanta paura che non riesce a muoversi.
«Bene, allora non c'è alcun motivo per farsi prendere dai sensi di colpa.» afferma con entusiasmo, l'uomo senza nome.
Steve le slaccia i fili che tengono il mantello legato al collo, per poi spogliarla da quella stoffa e farla rimanere con indosso solo l'intimo, dello stesso colore delle scarpe. Fa cenno, a uno degli uomini incappucciati, di avvicinarsi. Non ne richiama uno qualunque.
Solo quando il ragazzo si libera dal copricapo, mi rendo conto che si tratta di Matt. Mi sorride con aria di sfida, per poi dirigersi, a passo svelto, al tavolo delle cianfrusaglie per scegliere, con cura, uno di quegli aggeggi sopra riposti.
Fino a che punto arriverà questa follia?
Steve blocca le mani di Melissa. Le tiene strette tra le sue, per farla smettere di tremare.
«Dai, su, Mel. Dovresti essere abituata, ormai.» Le dice, sfiorandola in volto, con le sue dita luride, per poi stringerle le guance e leccarla sull'orecchio.
«Non avere paura, non ti faremo troppo male.» sussurra, ma in modo che io possa sentire, mentre mi guarda con l'aria di un perverso.
Lei cede all'emozione e un'espressione di puro terrore, misto al disgusto del vomito, le si disegna in volto.
Anche lei si trova sull'isola che non c'è, io l'ho capito. Anche lei vorrebbe scappare da questo posto che sa di male, di marcio. Lei è la piccola Wendy. Chissà da quanto tempo l'hanno rapita.
Il loro Signore, incrocia gli arti dietro la schiena, si morde un labbro, prima di voltarsi dalla mia parte.
«Benvenuta, Dafne.» Allunga il braccio, mostrando gli altri, con il palmo della mano rivolto verso l'alto. «Ti presento gli attori che hanno partecipato allo spettacolo che ho messo in scena per te, quella notte.»
E io muoio dentro. Vorrei morire anche fuori, perché la realtà di questa pazzia, non ha niente a che vedere con la vita che ho sempre creduto di vivere. È una realtà che uccide, come il più crudele degli assassini. Una realtà che mi ha fatta a pezzi e continuerà a farlo, fino a quando, di me, resterà meno di niente.
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