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44-L'isola che non c'è

Dafne

Volevate fregarmi? Pensa un po', non ci siete riusciti! È la tua serata... piccola.

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Sono in un incubo dal quale non riesco a svegliarmi. Continuo a sentire quella voce ripetersi mille volte, poi altre dieci e altre mille ancora.

Piccola.
Piccola.
Piccola.

Potrebbe anche salirmi il vomito, se solo riuscissi ad aprire gli occhi, ma i brutti sogni non vogliono finire.

Piccola.
Piccola.
Piccola.

Arriva ovattata, ma così vicina da farmi venire i brividi, sulla pelle morta. Se fossi morta, per davvero, non continuerei a rivivere sempre la stessa scena, però

Provo ad aprire gli occhi, a fatica, risvegliata dall'ennesimo incubo che ricomincerà da capo, e dall'odore stantio di muffa, misto a quello della vernice fresca. Mi scoppia la testa e, forse, è ciò che mi porta a richiuderli, di nuovo. Non so neanche da quanto tempo io stia dormendo. Ricordo perfettamente, ogni singola volta in cui ho provato ad alzare le palpebre.

L'inferno porterebbe essere un posto migliore di questo dall'odore nauseabondo. Quello pungente dello zolfo sarebbe della delicata lavanda, se paragonato al puzzo che ho intorno.

Mi domando dove sono e riesco a forzarmi di schiudere gli occhi, fin troppo pesanti, per cercare di capirci qualcosa.
Di sicuro, non mi trovo a casa. Il soffitto nero non è per niente simile a quello di camera mia, ma non c'è neanche un piccolo spiraglio di luce che possa aiutarmi a distinguere altro.

In lontananza, sento voci indistinte, gutturali e delle grida che mi lacerano l'anima. Provo una sensazione di terrore che mi spinge a richiudere gli occhi, per dormire un altro po'. Un incubo non può fare male, al contrario della realtà.

Ancora quella voce. Diventa sempre più chiara e meno distante.

Le sue mani che spingono la stoffa umida sul naso, mentre cerco di urlare, mentre tento di respirare di nuovo e liberarmi dalla stretta che mi tiene bloccata.

Le dita le sento ancora sulla pelle, come qualcosa di sporco che non verrebbe via neanche con l'acido muriatico. Si aggrappano con la prepotenza di una possessione mai concessa e mi portano a desiderare di dormire ancora un altro po'.

Apro gli occhi, ancora stordita, non riesco a connettermi con il mondo. Questa volta, le palpebre sono meno pesanti, ma le gambe non vogliono collaborare.

"Non è ancora sveglia?"

Sento voci, ma non capisco da dove provengano. Vedo una piccola luce entrare dalla fessura di quella che ha tutta l'aria di essere una porta. Vorrei sfregarmi gli occhi, per aiutarmi a mettere a fuoco, ma anche le braccia sono immobili. Immagino che ci sia qualcuno dall'altra parte.

"Le abbiamo ficcato in gola l'Ambien, direi che ne avrà per molte ore ancora." Credo sia meglio non emettere fiato, smettere di respirare, per evitare che mi sentano.

"Potremmo approfittare del sonno." È un botta è risposta che mi spaventa, e non poco.

"Abbiamo ordini precisi, idiota."

"Aveva promesso che ci saremmo divertiti con lei. Chi è che si sta divertendo ora?" Una delle due voci ha un tono spazientito che mi porta ad avere brividi terrore.

"Vedrai che tra un po' ci chiameranno."

"Che facessero un po' il cazzo che gli pare. Io voglio la ragazza. Dai, andiamo, chi vuoi che lo venga a sapere?"

Le parole arrivano come pugnalate nelle orecchie. Mi rendo conto che quei tizi fuori dalla stanza stanno parlando di me. Vorrei che fosse solo un altro incubo, ma il dolore ai polsi è troppo reale per fingere che lo sia.

Il terrore sta risvegliando anche sensi che non credevo di avere. A poco alla volta, gli occhi si adattano al buio e il corpo inizia a reagire. Con cautela, muovo il braccio e prendo coscienza di non essere bloccata, ma legata. I polsi, sopra la mia testa, sono stretti in delle corde robuste, agganciati a una testiera in ferro. Distesa su di un letto dal materasso lercio, ho il timore che qualunque movimento, anche il più silenzioso, potrebbe provocare uno scricchiolio assordante.

Provo a stringere gli occhi per focalizzare i dettagli di questa camera e riesco a distinguere due finestre oscurate da un telo. Il chiacchiericcio che sentivo, fino a qualche minuto fa, sembra essersi esaurito, ma dormirò per sempre, se questo dovesse servire a tenerli a bada.

Respiro quest'aria putrida, per tentare di rilassare i nervi. Non serve a molto, ma devo cercare di distrarmi e non farmi venire uno dei miei soliti attacchi, non ora, non qui.

Lo sapevo che Peter Pan, prima o poi, mi avrebbe portata sull'isola che non c'è. Non ho né il mio pensiero felice, né la polvere di fata con me e, purtroppo, non posso volare.

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Non ho idea di quanto tempo ho passato, fingendo di dormire. Ogni volta che ho sentito il rumore dei passi avanzare e il loro chiacchiericcio deviato farsi strada e avvicinarsi a quell'anta che ci separa, ho chiuso gli occhi e immaginato di non essere qui.

In questo posto che non so ancora quale tortura mi stia riservando. Su questo materasso logoro che sembra essere stato immerso nel piscio.

Ecco da dove proviene la puzza.

«Ehi, voi?» grido, in un impeto di coraggio che mi sorprende. Non posso più continuare a fingermi un cadavere. Sento l'urgenza di lavarmi dal sudiciume della mia stessa urina. «Dove siete andati a finire, stronzi?» L'urlo ha il suono di una supplica che vorrebbe essere ascoltata.

Volevate fregarmi? Pensa un po', non ci siete riusciti! È la tua serata, piccola.

Ancora quella frase, ancora quella voce. Ora, che sono sveglia e attenta, ne percepisco ogni sfumatura. La sento come se mi soffiasse nell'orecchio, ancora una volta, per imprimermi la sporcizia di quella bocca che ha sfiorato la mia. Mi ha sempre irritata quel nomignolo del diavolo e mi rendo conto di quanto facesse schifo, in maniera profonda e reale.

«Steve!» L'urlo disperato, vuole assicurarsi che lui senta, ovunque si trovi. Anche se fosse a chilometri di distanza, deve arrivare e perforagli i timpani. «Bastardo, cosa vuoi da me?.» continuo a gridare, ma non ricevo risposte.

Dopo qualche minuto di lotta incessante, sento il cigolio della maniglia che si abbassa. La porta si apre e appare la figura di un uomo avvolto nella penombra.

«Non avere paura di me» sussurra, per poi portare l'indice alla bocca, indicandomi di fare silenzio. «Cosa posso fare per te? Chiedimi qualunque cosa.»

Non sembra volermi fare del male, ma non posso fidarmi del mio istinto.

«Liberami e fammi andare via da qua» Lo chiedo in una specie di ordine che vuole anche supplicarlo.

«Non proprio qualunque cosa, allora.» specifica. «Intercederò per te con il mio superiore, ma non farò nulla che possa farmi rischiare.» Lo vedo, in contro luce, mentre si gratta la testa. «Vuoi del cibo? Acqua?»

«Ho bisogno di una doccia.»

Tentenna per un attimo, prima di uscire dalla stanza, lasciando la porta aperta.

Una luce tenue, che presumo possa arrivare da una stanza vicina, rischiara quella in cui mi trovo. La mano di vernice scura, passata da poco sulle pareti, ha donato una nuova veste a questo posto infestato dai demoni, ma non potrebbe mai mascherare la realtà: mi trovo al campus. Queste bestie di Satana, mi hanno riportata nel luogo in cui ho lasciato i pezzi del mio cuore rotto.

«Okay, ti ha dato il permesso di utilizzare il bagno come meglio credi» Il ragazzo mi riscuote dai pensieri al suo ritorno. «Io sono Marcus, comunque.»

È serio?

Lo osservo inebetita, ancora stesa su questa latrina, con l'aria disgustata.

«Pensi che me ne possa fregare qualcosa del tuo nome?» chiedo in una domanda retorica che lui non può fare altro che afferrare, senza provare a rispondere.

Entra nella stanza e ho un sussulto, mentre si avvicina.

Non voglio essere sfiorata. Non voglio essere neanche guardata. Voglio tornare a casa mia, nel mio letto, tra le mie lenzuola. Svegliarmi e scoprire che, anche questo, è uno di quegli incubi che mi tormentano, niente di più.

Per fortuna, si ferma vicino l'armadio, accanto al letto. Ne apre i cassetti per prendere dei teli e mostrarmeli.

«Questi, sono gli asciugamani puliti, e questi» afferra con l'altra mano una stoffa nera, «gli abiti che dovrai indossare.» Si limita a dire, prima di riporre tutto in una cesta in vimini.

Fa un piccolo passo nella mia direzione, cauto, per poi azzardare al secondo e al terzo. Si sporge, per afferrare le corde che mi tengono legata al letto e le slega dal pezzo di ferro, senza svincolare i polsi. Mi afferra dal braccio, con delicatezza, porta l'altra mano ad agganciare la cesta, per poi accompagnarmi fino alla porta del bagno, vicino alla stanza che mi ospita.

«Fa' alla svelta, ti aspettano.» dice, prima di richiudere l'anta alle sue spalle e lasciarmi sola.

Mi guardo un po' intorno. La toilette è più una specie di bugigattolo. Li ricordavo più grandi, questi bagni. Le mattonelle blu, laccate lucide, hanno impronte di mani, lasciate sulla superficie che riflette la luce. All'angolo, non c'è una vera e propria doccia, ma una piccola vasca in metallo, arruginita sul fondo e ai lati. Il flessibile è sprovvisto di soffione, in compenso, hanno lasciato vari saponi per la pulizia di corpo e capelli.

Con i polsi ancora legati, ho difficoltà a spogliarmi, ma non demordo, quando, per togliere il vestito che indosso da giorni, lo lacero da un fianco. È l'ultimo dei miei problemi, ora.

Mi infilo nella tinozza, ben attenta a ogni più piccolo movimento. Non vorrei ritrovarmi con le dita dei piedi tranciate.

Lavo via dalla pelle il lerciume che insozza ogni più piccolo lembo, gratto delle croste di sangue, di qualche ferita provocata da chissà cosa, mentre penso a tutto ciò che è accaduto. Se torno indietro con la mente, mi rendo conto che avrei potuto anche capirlo. Le sensazioni che avevo nei riguardi di quell'uomo che mi ha portata in questo posto, dovevano mettermi in allarme. Ogni volta che mi toccava, sentivo che dovevo fare un passo indietro e poi un altro, ma sarebbe stato troppo poco comunque. Sarei dovuta espatriare, avrei dovuto dare ascolto a Elias.

Andare il più lontano possibile, per evitare di fare marcia indietro e ritrovarmi proprio qui, dove sono ora.

Non posso lasciare che le sue mani mi tocchino ancora e provino a sotterrarmi. Di sicuro morirò, ma non sarà a causa sua.

Lascio che l'acqua mi solletichi la pancia e accarezzi le coscie, mentre m'incanto a osservare la finestra sigillata che si trova in direzione di un mobiletto in legno. Esco dalla vasca, lasciando il getto aperto, prendo lo sgabello dove sono poggiati gli asciugamani e lo posiziono subito sotto il finestrone. Avevo visto bene: è incollato con uno spesso strato di silicone trasparente. Dovrebbe essere abbastanza facile scioglierlo con il calore del phon e forzare l'apertura. Sarebbe tutto più semplice, se avessi a disposizione qualcosa di sottile da infilare nella fessura e fare leva.

Troverò qualcosa!

Mi avvolgo nell'asciugamano più grande, prima di chiudere i pomelli. Dopo qualche secondo, il cigolio della maniglia rompe il silenzio, ho un sussulto nel momento in cui vedo apparire la figura aberrante di Matt.

«Vai via!» urlo con tutto il fiato che ho nei polmoni, stringendomi nel tessuto bagnato, come se potesse proteggermi dai mostri

Si avvicina e, con prepotenza, tenta di spogliarmi dalla mia protezione.

Non ho mai trattenuto niente con questa forza. Non l'ho fatto neanche con l'amore che mi legava a Elias.

«Ehi, puttanella. Te l'ho detto che ci saremmo rivisti.» Si arrende e porta le mani ad afferrarmi il mento, per bloccare il mio sguardo sul suo. «Avresti dovuto stare con me, sarei riuscito a convincerli di lasciarti perdere, ma hai dovuto fare la troia.»

Con l'altra mano tira con forza uno schiaffo a dita aperte. Mi colpisce in volto, lascia il mento, per afferrarmi dai capelli con una presa ferrea che mi fa credere che possa staccarmi la cute.

«Lasciami!.» È l'unica cosa che riesco a gridare, prima di sputargli in faccia tutto il mio odio, insieme alla saliva.

Un altro schiaffo, e un altro ancora.

Schiaffi che fanno meno male di quello sguardo da porco che mi riserva.

«E questo,» mi scaraventa sul pavimento e sbatto la testa alla tinozza, che mi provoca un dolore lancinante, «è per il morso che mi hai dato l'altra volta, puttana.»

«Ti prego, Matt, uccidimi ora.» Lo desidero davvero, perché sto iniziando a razionalizzare tutta la merda che mi attende lì fuori.

Fuori da questo bagno, fuori da quella stanza putrida, non mi aspetta l'inferno, no! Mi aspetta l'isola che non c'è. Quella dove non ci sarà nessun adulto a proteggermi dai giochi perversi di Peter Pan. Quel posto dal quale non riuscirò a salvarmi, perché non mi è rimasta neanche una briciola dei miei pensieri felici.

«No, tesoro. Sarebbe troppo facile per te.» dice, portando le mani a sfregarle fra di loro. «Sai? Quando ho scoperto di te e Steve ho dato di matto. Quella sera avrei voluto ficcarti la pasticca in gola e, se non fosse stato per quel mentecatto del tuo ragazzo, ci sarei riuscito.» ammette con un velo di orgoglio negli occhi. «Dopo aver rinunciato, sono andato a cercare Steve. Volevo distruggerlo sotto le mie stesse mani, ma lui sai cos'ha fatto?» Lo guardo immobile con gli occhi sgranati, pieni di quel terrore che riesce a paralizzarmi. «Rispondi! Lo sai?» Grida con la prepotenza che ha sempre contraddistinto i suoi modi. Quella che ottiene tutto con la forza.

Stringo le labbra tra loro, mentre chiudo gli occhi, per cercare di trovare qualunque pensiero che possa farmi tornare a respirare.

«No.» rispondo in un sussurro, per poi inghiottire le lacrime.

«Mi ha riso in faccia. Mi ha dato del coglione, mentre si faceva fare un pompino da Melissa.» rimango di pietra. Non riesco a muovere un solo muscolo. Sembra una pellicola venuta male di un vecchio film da buttare. «Avresti dovuto seguire l'esempio di quell'altra puttana e, invece, hai voluto fare di testa tua e inseguire l'amore.» Mi canzona con un sarcasmo che vuole ferirmi, ma io non sento più niente oltre la paura di non farcela.

«Lasciami stare.» Mi raggomitolo all'angolo, ripetendo quella stessa frase in un loop che non vuole finire.

Tengo gli occhi ancora chiusi, magari funziona. Magari quel desiderio riuscirà a realizzarsi, quando li riaprirò e scoprirò che lui è sparito, per sempre.

Le urla devono aver attirato qualcuno, perché sento un chiacchiericcio indefinito, farsi sempre più vicino. Qualcuno lo provoca, incitandolo a fregarsene di quello che hanno ordinato dall'alto e distruggermi, ora che sono senza alcuna difesa.

«Ti avevo detto che non dovevi sfiorarla.» La voce familiare, ma poco rassicurante di Steve, mi porta ad aprire gli occhi, per guardare cosa sta succedendo.

I ragazzi presenti aprono un varco per farlo passare. I suoi occhi, iniettati di sangue, hanno puntato la loro preda. Prende l'altro dal collo, lo stringe in una morsa che vuole tranciarlgli il respiro. «Devi attenerti al piano, mi hai capito, stronzo?» La testa di Matt prova a muoversi, tra quelle dita che lo stringono. «Mi hai capito?» ripete, digrignando i denti che sembrano voler sbranare la faccia di Matt.

Mi stringo ancora di più in quell'angolino sudicio, quando Steve lascia il collo dell'altro, per avvicinarsi a me. Si abbassa, tiene il gomito sulle ginocchia ripiegate e sorride.

«E tu vestiti, piccola. Noi ti aspettiamo di là» Lo dice come se tutto questo fosse normale e la cosa mi distrugge.

Non lo vedono quanto le loro menti siano deviate e, non solo mi spaventa, ma mi porta a desiderare di morire, prima che possano farmi qualsiasi cosa gli passi per quella testa crudele e perversa.

Non voglio che mi vedano versare neanche una lacrima, nel loro mondo fatto di merda e dolore.

No, non mi abbasserò a piangere, per farli godere delle mie sofferenze. È quello che vogliono e non posso essere io a realizzare i loro desideri malati.

Vorrei stringere, ancora una volta, il mio pensiero felice, non riesco ad afferrarlo. Ci sto provando, ma, senza la speranza a fare luce nell'oscurità, è impossibile riuscire a vederlo.

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