39- Non le guardo più
Dafne (Due giorni prima della sfilata)
La casa di moda è in fermento, mentre, io, evito, come la peste, di incrociare lo sguardo sofferente di Hellin.
Ripenso alle parole di Elias, quelle vere, quelle che mi hanno aperto la mente sulla possibilità di fare un passo indietro. Hadi non esiste più, non è mai esistita in realtà, per me. È vero quello che dice lui; io ho conosciuto una donna meravigliosa, che non ha fatto altro che mentirmi, però.
Sono di nuovo in bilico, lo sono per tutto e lo sono sempre stata. È come vivere nell'abitudine della consapevolezza che, prima o poi, cadrai dal filo sottile che ti regge appena. Non è facile passare la vita, mantenendo un equilibrio instabile.
Vorrei provare ad avvicinarmi a lei, anche solo un po' ma, forse, è troppo presto per affrontarla.
Con Dalia, invece, sembra abbiano stipulato un nuovo accordo di stupidaggini. Mamma ha accettato di prendere un'appartamento nello stesso palazzo di Hellin. Aveva trovato un lavoro, come segretaria, per un mio vicino di casa che fa l'avvocato, ma ha preferito, accettare la proposta, come aiuto sarta, all'interno dell'azienda di sua madre. Non ha molte competenze, ma cuce molto bene e alla svelta. Giusto per i ritocchi pre-sfilata, pre-interviste, pre-servizi fotografici, pre-pre-pre-, qualunque cosa serva.
Non la capisco, e non è una novità. "Ho bisogno di darle una possibilità", mi ha detto. "Lo devo fare per non pentirmene dopo".
Quella possibilità è diventata la sua casa, in poco tempo. Quelle due hanno passato serate intere a conoscersi di nuovo. Le posso solo immaginare a stringere un calice di vino tra le dita, mentre ridono sulle storielle delle mie ginocchia sempre sbucciate, di quando ero bambina, o qualunque altra cretinata. Io ci vedo solo tanta ipocrisia, che loro si ostinano a chiamare seconda chance.
Come se non bastasse, Elias non fa altro che venire in sede per controllare lo stato psicofisico di Hellin, portandosi dietro Sally. Potrebbero optare per la psicoterapia, tutti quanti, invece di continuare a mostrarsi. Voglio che quell'uomo sia felice, ma preferisco che decida di farlo lontano dai miei occhi. Fa male. Cavolo se fa male.
Vederli insieme, fa male.
Guardarlo mentre le stringe la mano, fa male.
Sentire i loro profumi mescolarsi, nella sala relax, fa male.
Osservarli a scambiarsi sorrisi, fa male.
Sapere che lui non ha provato mai niente per me... fa malissimo.
Cerco di non pensarci, ma quelle parole continuano a martellarmi. Si legano ai pensieri intrusivi e non posso fare altro che tentare di lasciarli fuori, ma diventa con un loop senza fine, un'arma a doppio taglio che mi logora dentro.
Delle volte, mi ritrovo a ragionare, facendo prevalere l'istinto omicida. La voglia di strangolarlo sale, mentre la mia maturità crolla a picco, quando mi rendo conto di essere a un passo dai trenta.
Non rimpiango nulla, però. Elias mi ha aiutata a guardarmi dentro a scoprirmi forte, anche se, ancora, innamorata come una scema. Amo ancora tutto di lui e, la sensazione che questo sentimento mi accompagnerà per il resto della vita, diventa sempre più reale.
Da quando si può controllare il cuore? Vorrei saperlo fare, perché, il mio, continua a credere che sia, il suo, la metà esatta. Una metà di niente, una metà di me.
Scrivo e riscrivo il suo nome, senza rendermene conto, come una bambina che, davanti la prima cotta, ostenta l'amore su un foglio di carta.
La felicità è passata anche da queste mani. L'ho toccata per la seconda volta. Stupida felicità. Mi ci stavo aggrappando con tutte le forze, dimenticando che i sentimenti sono mutevoli. Ero convinta che, i nostri, non lo fossero. L'amore è un problema; un grosso, immenso problema. Spesso, riesce a illuderti, nella convinzione che gli occhi si guardino nello stesso modo, ma sono solo i tuoi a voler vedere ciò che non esiste.
«Ti dovrei parlare, bambina mia.» La voce di Dalia, mi riscuote con la dolcezza di una madre in pena.
Stringo, tra le dita, un foglio che stavo per firmare, ma che continuavo a osservare, persa nel vuoto. Lo infilo nel primo cassetto della scrivania, con la speranza che, il gesto, passi inosservato.
«Dimmi tutto, mamma.» La invito a parlare, anche se non ho voglia di ascoltare niente.
Vorrei tapparmi le orecchie e cantare canzoni a squarcia gola, pur di non sentire.
«Tua nonna sta soffrendo. Le manchi da morire, dolcezza. Forse più di quanto le sia mancata io stessa.» I suoi modi gentili e comprensivi, nei confronti della donna che l'ha abbandonata, mi disgustano.
«Cosa fai? Stai dalla sua parte, ora?» Un sorriso sarcastico mi esce spontaneo, mentre penso a quanto sia irreale tutto questo.
Lei si avvicina, gira intorno alla scrivania e mi raggiunge, per poi sedersi sul tavolo in legno.
«Cos'è successo alla donna più comprensiva che io conosca?» chiede, in una domanda che non ha bisogno di risposte. «Bambina mia, lo sappiamo tutti che tua nonna è stata incommentabile, in passato, ma sta facendo di tutto per rimediare.» dice, accarezzandomi la spalla. «L'ho visto da come si è comportata con te, nel modo in cui ti ha amata dal primo secondo, non appena ha letto il tuo nome su quei documenti al campus.» Scende dalla scrivania, ruota la poltrona girevole, dove sono seduta e la posiziona in modo tale che possa guardarla negli occhi. «E non l'ho visto solo io, vero?» Mi guarda, come se si aspettasse una reazione che non vorrei far uscire fuori, ma il mio sguardo parla, sempre, per me. «Elias pensa che-»
Non ci posso credere. Ora le importa anche del pensiero di quell'uomo. Bene!
«Elias, mamma? Elias? Tu mi stai prendendo in giro.» dico, mentre porto le mani a stringere i capelli.
«No, Dafne. Abbiamo avuto modo di fare una breve chiacchierata. Non pensare che mi sia congratulata con lui.» specifica, tentando di minimizzare. «Solo che ho capito che tiene davvero a te.»
«Credi che mi possa bastare?» domando retorica.
No che non mi basta.
Lui è da qualche parte, in questo palazzo, con una donna che non sono io. Una donna apparsa dallo stesso nulla cosmico in cui hanno buttato me. E mi sono persa, non c'è luce qui dentro, non riesco a trovare l'uscita.
«Ti passerà, tutto passa. Il tempo aiuta a guarire le ferite.» Cerca di consolarmi, con la frase più banale del mondo.
Il problema è che, quelle stesse ferite, sono troppo profonde per rimarginarsi. Potrebbero lasciare cicatrici visibili o, addirittura, uccidermi. E non lo posso permettere.
«Certo, ma devo dimenticare e non posso farlo, se rimango qui.»
Non dovevo dirlo, non dovevo proprio. Che diamine ho combinato?
Mi rendo conto, solo dopo aver pronunciato quelle parole, che l'ho fatto a voce alta.
«Cosa vuoi dire, Dafne?» chiede, prima di fermarsi a pensare e arrivare alla sua conclusione. «Cos'era quel foglio che hai nascosto?»
«Niente!» Mi affretto a rispondere. «Solo carta.»
L'istinto mi porta a serrare, con il corpo, il cassetto. Dalia mi sposta e lo apre. Prende in mano il documento e ne legge il contenuto, mentre tiene l'altra in alto, per bloccare il mio intento di strapparlo dalle dita.
«Questo è un contratto di lavoro, Dafne.» Alza lo sguardo, per incrociare il mio. Chiude gli occhi e sospira, quando si rende conto che non è uno scherzo di pessimo gusto.
«Ho mandato un po' di curriculum in giro.» confesso. «Mi hanno risposto, mamma. Tutti. Dopo la sfilata, con calma, deciderò dove andare, ma non resterò qui.»
«Ma io mi sono appena trasferita, per stare con te.» sussurra, pietrificata, con gli occhi che fissano il vuoto, mentre lascia scivolare il foglio sul pavimento.
Lo raccolgo, per riporlo nel cassetto e chiuderlo a chiave. Alzo lo sguardo, per assicurarmi che respiri ancora, dopo questa notizia. Continua a restare ferma, in una posizione plastica e, un po', mi preoccupa.
«Puoi venire con me, se ti va.» Non sarebbe male averla fra i piedi.
Si volta dalla mia parte, irrigidisce il braccio che aveva lasciato scivolare sul fianco, insieme alla carta, mentre sfiorava le piastrelle. Mi punta il dito contro, come a fare partire una minaccia. La stessa che ricordo, quando, da bambina, teneva il mestolo in quella posizione, per costringermi a mangiare le verdure.
«Tu non andrai da nessuna parte.» ordina, dimenticando che sono abbastanza grande per non ascoltarla. «Sono ancora tua madre e non voglio che tu vada via per un capriccio.»
«Non è un capriccio, mamma!» Alzo un po' la voce, per far uscire fuori il fastidio che sento dentro. Porto le dita alle tempie, per rilassarle con massaggi circolari. «È successo tutto troppo in fretta: Elias, subito dopo Hellin; io non ce la faccio.»
Scappo sempre quando le cose diventano difficili da gestire.
Con la coda dell'occhio vedo una presenza che mi turba, affacciarsi dalla porta. Perdo un qualche battito e il respiro si accorcia, quando mi rendo conto di chi si tratta. Elias poggia la spalla allo stipite e, a braccia conserte, mi rivolge un sorriso beffardo.
«Fa' pure, Dafne. Va' dove ti porta il cuore. Vai più lontana che puoi, però.» Mi sbeffeggia, provocando la reazione di Dalia che stringe i pugni lungo i fianchi, fino a sbiancarsi le nocche.
La raggiungo e, con calma, le sfioro la schiena, per farla voltare: «Ti prego, vai.» Le sussurro.
Lei mi ascolta, per mia fortuna, ma, soprattutto, per la buona stella di quest'uomo all'entrata.
La lascia passare, mentre lo guarda come se volesse cavargli gli occhi, prima di sparire dietro le mura del corridoio.
«Da quanto se qui?» domando, con il timore che possa aver sentito, mentre parlavo di lui.
Ritorno verso la scrivania, giro intorno per accomodarmi sulla poltrona. Forse, sarà il legno a proteggermi, dalla presenza nefasta del diavolo.
«Abbastanza.» risponde.
«Non avevi alcun diritto di ascoltare. Sai, la privacy esiste, ancora.» Mi nascondo dietro l'ironia di una donna spezzata, perchè non voglio che lui sappia che sono distrutta.
«Sono d'accordo con te.» ammette, lasciando lo stipite, per avvicinarsi al tavolo.
«Oh, un altro traguardo raggiunto.» rispondo, fingendo di controllare alcuni disegni che tengo in mano. «Peccato che sarebbe strano se pensassi che origliare sia la cosa giusta.» continuo sardonica.
«Peccato che non mi riferissi a questo.» Si siede dall'altra parte della scrivania, per poi poggiare i gomiti sul tavolo e mostrare la sua migliore faccia da stronzo. «Fossi in te, opterei per un altro continente.» Il modo in cui lo dice, mi stringe lo stomaco.
Vorrei vomitargli addosso l'odio che sto provando in questo momento, per il modo in cui mi parla.
«Non sei costretto a guardare ancora la mia faccia.» dico, sforzandomi a fissarlo negli occhi.
Si spinge indietro con la sedia, per poi alzarsi e voltarmi le spalle.
Ancora una volta, una volta di troppo.
«Ed è qui che ti sbagli, Dafne. Sono obbligato a vederti ogni giorno, perché sei la nipote di Hellin, perché lavori qui e tutto quello che lei desidera è averti al suo fianco.» Infila una mano nella tasca e porta l'altra ad accarezzarsi i capelli. «Quindi, sì, vai, scegli un posto lontano, che non ti permetta di tornare indietro tanto facilmente.» specifica, e fa così male da bloccarmi il respiro. «Restaci più che puoi, con la consapevolezza, però, che, quando tornerai, e se tornerai, il dolore sarà qui ad aspettarti.» sottolinea quella che è la realtà. «Quindi, non tornare, Dafne, se non vuoi torturarti.»
Io la desidero la mia felicità e non posso averla, se continuo a rimanere vicino a quest'uomo che non fa altro che infilarmi coltelli affilati nel petto.
«Siamo d'accordo.» Continuo a fingere una disinvoltura che non mi appartiene.
Mi alzo dalla sedia, per raggiungerlo e indicargli l'uscita. Lo vorrei fare con classe. Nella mia testa sto progettando ogni mossa. Una a una, per non sbagliare e mostrare le mie fragilità, perché, in questo momento, vorrei solo crollare.
«Non mi lasciare, Dafne.» Il suono della sua voce arriva in un flebile sussurro che riesco appena a sentire.
«Scusa? Hai detto qualcosa?» Lo vedo, è rivolto verso il finestrone, come se stesse evitando il mio sguardo e, questa scena, inizia a sembrarmi strana.
«No.» dice secco.
«No, Elias. Sono abbastanza sicura che tu abbia detto qualcosa.» Stringo gli occhi in due fessure e mi avvicino a lui.
Continua a rivolgermi la schiena, non osa voltarsi. Gli giro intorno e mi piazzo davanti, nella pretesa di una risposta.
Cerco il suo sguardo, ma tentenna a trovare il mio, scuote la testa, in un movimento involontario, evitando di incrociare i miei occhi, fino al monto in cui si sforza di farlo: «Te lo sarai immaginato.»
Sto impazzendo. Lo sto facendo davvero. Ora sento pure le voci. Quest'uomo mi sta facendo uscire fuori di testa.
Devo trovare il mio domani in un posto dove lui possa essere solo un lontano ricordo. Dove io possa sentire il tiepido calore del sole e non il gelo che si diffonde in questa stanza, accanto a lui. Il sole, il mio sole, è troppo lontano per non farmi sentire il freddo e, allo stesso tempo, troppo vicino da bruciarmi.
Il fiato si accorcia, fatico a respirare. Sento come se stessi per soffocare e porto la mano al petto, come a fermare quel battito che sta per uscire fuori dal mio stesso corpo.
Sembra una linea sottile che ti separa dalla morte, ma non muori sul serio. È come affrontarla e rimanere, comunque, in vita. Come se vincessi tu, per l'ultima volta, e poi un'altra e un'altra ancora, nella speranza che, la prossima, ti porti via con sé, per davvero.
«Sai, quei due stanno organizzando una bella festa.» dice, di punto in bianco, in un discorso che sembra non c'entrare niente.
Affanno, ma mi obbligo a rispondere.
«Chi? Di che parli?» Mantengo il respiro costante, come mi ha insegnato Elias. Chiudo gli occhi, per cercare di pensare a qualcosa di bello, mentre provo a riprendere il controllo.
Tutto ciò che mi viene in mente, sono i nostri sorrisi.
È un po' come tentare di andare sull'isola che non c'è. Peter ci provava a far volare Wendy con i suoi pensieri felici e la polvere di fata. Ecco, Elias è il mio pensiero felice nei momenti come questo. Peccato che Peter Pan, fosse un probabile criminale che rapiva i bambini e li costringeva a vivere una vita infelice.
«Ops, forse non lo sapevi.» dice, tappandosi la bocca con la mano. «Ho rovinato la sorpresa a Jonathan è Lara. Poco male, se ne faranno una ragione, mi servivano.»
«Non ti capisco.» dico, scuotendo la testa.
«Non mi è venuto altro, sul momento, per distrarti.» ammette. «Come va ora?» chiede, stringendosi nelle spalle, mentre si allontana di qualche passo.
Il respiro è tornato regolare, il cuore non sembra più esplodermi nel petto, anche se è ancora un po' accelerato.
«Lo hai fatto di nuovo.» dico, sottolineando quello che è ovvio anche per lui. «Tu li vedi prima di me i miei attacchi di panico. Riesci a fermarli sul nascere e io...» Mi osservo le mani. Fino a qualche secondo prima tremavano, ora, hanno ripreso anche loro il controllo, «io sto avendo difficoltà a vivere senza di te, Elias.» Non sono riuscita a ometterlo. Non ci ho neanche provato, perché non sapevo che stavo per dirlo.
«Dafne...» Prende un grosso respiro e sbuffa. Finalmente, si avvicina. Mi stringe le spalle e mi spinge a infrangermi contro il muro, mentre mi blocca tra lui e il cemento, per poi poggiare la fronte alla mia e chiudere gli occhi «La devi smettere, ti prego, ascoltami. Vattene.» Lo ripete, ancora una volta, per rendere chiaro il suo desiderio. «Ma, prima di farlo, passa a salutarmi, un'ultima volta.»
«No, non lo farò.» Lo provoco, perché voglio capire a che gioco sta giocando.
«Te ne pentiresti, scarabocchio.»
E io mi sciolgo al suono di quel nomignolo che non sentivo da troppo tempo. Mi fondo con il suo corpo e la sua anima che, ora, sembra soffrire, come la mia. Mi lascia dare solo una piccola occhiata, per poi nasconderla, ancora una volta e, spero, non sia per sempre.
«Nah, tu te ne pentirai, un giorno.»
E quel giorno arriverà presto, portandosi via tutto di noi.
Devo trovare un nuovo tramonto per godere di stelle più vere. Le stelle che mi hai tolto.
Non le guardo più, sai?
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