37-Specchi
Elias
«Cosa cazzo è successo?»
Un tonfo metallico mi sveglia, nel mezzo della notte. Il rumore mi spaventa, ho il cuore che sta per scoppiare nel petto, il respiro affannato e le mani che tremano, per l'agitazione. Ci metto qualche secondo, prima di realizzare.
Jonathan!
Faccio uno scatto dal letto, preoccupato dalla possibilità che possa aver avuto un malore. Quell'uomo, un giorno, mi ucciderà. Inciampo sui miei stessi passi, per la fretta di assicurarmi che non gli sia accaduto nulla di male. Non appena arrivo in cucina, mi rendo conto, che non è affatto come pensavo, per sua fortuna, ma non per la mia.
Lo trovo seduto sulla penisola, gioca ad alzare uno sgabello in ferro, con le gambe. Un gioco di equilibrio finito male, per quello che, cadendo, ha interrotto il mio sonno. Non appena mi vede, porta l'indice a sfiorare le labbra, intimandomi di fare silenzio, batte con i piedi sul pavimento e cerca di trattenere una risata sguaiata. Accanto a lui, noto una bottiglia di rum aperta e un bicchiere vuoto. Stringe le dita sul collo della fiasca, per riempire il vetro con il liquido ambrato. Lo tracanna d'un fiato e continua a soffocare nella sua felicità. Dovrebbe strozzarsi, per aver disturbato il mio sonno. Dormo poco da giorni ed ero riuscito a fare, ben, ventidue minuti di fila.
Grazie mille, cretino.
«Devo levarti le chiavi di casa.» dico, mentre sfrego gli occhi. «Ah, ma la colpa è mia che non le ho mai riprese.» Deve avere qualche scoop da gossip queen da darmi, perché, noto un'espressione di entusiasmo immotivato, oltre al fatto che è ubriaco fradicio. «Su, scricciolo, dai fiato alle trombe.» Lo invito a parlare, mentre mi accomodo su una di quelle sedie sopravvissute.
«Credo, e sottolineo, credo, di essermi innamorato.» Porta i pugni alla bocca, per mordicchiarli.
Lo guardo incredulo. Era da tanto tempo che non lo ascoltavo parlare in questi termini. Sento aprire la porta del bagno e, con la coda dell'occhio, vedo una figura entrare, alla svelta, in quella che, ormai, è diventata la camera di Jonathan. «È meraviglioso! Senza contare che a letto è una vera bomba.» Sbatte le palpebre, con lo sguardo sognante, mentre osserva quella camera che lo ha visto sparire.
«Oh Dio, Jo. Ti sto perdendo sul serio?» chiedo ironico. «È arrivato il momento di lasciare libero il mio appartamento, bene. Almeno, una relazione darà i suoi frutti.» Lo canzono. «Non credi che dovresti presentarmi gli ospiti, quantomeno? Dovrebbe essere casa mia, questa.»
Scende dal ripiano, si lamenta per aver preso una scossa al piede, a causa dell'impatto con le piastrelle, per poi avvicinarsi e sussurrare nel mio orecchio: «È un timidone, Elias, ma è lui. È quello che ho sempre cercato.»
Mi ritraggo, scettico, lo fisso negli occhi e cerco di capire. La piccola luce soffusa e calda, accesa, subito sopra la penisola, non lascia passare inosservato il sorriso inebetito del mio amico.
«Come vi siete conosciuti?» domando curioso.
«Amici di amici!» risponde, dopo aver schiarito la voce, per l'imbarazzo.
«Che cazzo di risposta è?»
«La risposta di uno che ha la bocca cucita.»
«Hai avuto milioni di possibilità e scegli di farlo giusto ora?» Non è mai stato in silenzio, sarebbe la prima volta.
Qualcosa non quadra.
«Bocca cucita!» ripete, prima di mimare la chiusura della zip sulle labbra e voltarmi le spalle, per andare a raggiungere il suo principe azzurro.
Rimango solo, con i gomiti poggiati sul ripiano della cucina, mentre guardo Jonathan chiudersi la porta alle spalle.
Penso a quanto si possa restare delusi dalla vita, quando ti porta via le persone che ami, quando non ti aiuta a raggiungerle, anche se lotti con tutte le tue forze, fino a perdere il respiro e il senno. Che senso ha quando non puoi guardarti nemmeno allo specchio. Quello fatto di un passato che ti lascia elemosinare briciole di ricordi che non vorresti toccare, che speri non brucino come fiamme incandescenti. Che non chiedono di essere salvati, ma dimenticati.
E io lo sto facendo...
🪞🪞🪞🪞🪞🪞🪞🪞🪞🪞🪞
Mi risveglio sudato, guardo l'orologio, avrò dormito tre ore in tutto. L'ho sognata. Era in una strada buia, terrorizzata. Non vedevo quale fosse il pericolo, ma sapevo che c'era. Non potevo muovermi; le mie gambe erano infossate nell'asfalto che si scioglieva sotto le scarpe. Era buio e, più provavo ad avvicinarmi, più venivo risucchiato dal terreno, mentre urlava qualcosa, in un'eco che si allontanava, insieme a lei. Persi, in un luogo senza tempo né nome. Era un sogno, ma fottutamente reale: "Puoi trovarmi tra le stelle"; ricordo questa sola frase, tra le mille voci che sussurravano parole al vento, in una notte afosa.
Non ho mai creduto nei sogni premonitori, ma credo nelle ansie. Cazzo se ci credo!
💭💭💭💭💭💭💭💭💭💭💭💭
Dopo una doccia rigenerante, decido di passare la serata con Jonathan, per recuperare i momenti persi, a inseguire le nostre dolci metà. Il suo ragazzo non ha ancora trovato il tempo e la voglia di farsi conoscere, continuando a darmi modo di pensare male. Avrei tanto voluto fare una di quelle uscite a quattro, da coppiette felici, per avere una spalla con cui giudicarlo. E, invece, pare che dovrò aspettare.
Non posso pretendere molto da questo tizio. Provo, anche, a mettermi nei suoi panni, a dirla tutta. Non è facile sopportare uno come il mio amico. Lui è una prima donna che tende a farti fare pessime figure e a dirti le cose che pensa, senza considerare i contesti, ma gli si vuole bene anche per questo. Sarebbe preferibile, adorarlo a chilometri di distanza, ma parliamo di semplici dettagli
Ci troviamo, per puro caso, a passare dal Mor. Entriamo, solo per capire che aria tira. Mi mancano le serate passate seduti al tavolo a bere birra e discutere di come conquistare il mondo.
Lara è di turno, questa sera. Jonathan la raggiunge al bancone e io lo seguo, anche se sono consapevole che, la signorina, mi saluterebbe, volentieri, dandomi una testata. Non appena lo vede, si allarga in un sorriso, per poi piegarlo all'ingiù, schifata, quando incrocia il mio sguardo.
«Steve vi ha lasciati soli soletti, stasera, oppure è in perlustrazione ai piani alti?» chiede ironico, mostrando verso il tetto.
«Quanto sei idiota, Jo.» gli risponde, scuotendo la testa. «Non che v'importi, ma pare stia organizzando una serata memorabile, almeno così si dice in giro.»
«Sarò in prima linea, allora.» Il mio amico risponde entusiasta a qualunque evento riservi alcol e buona musica.
Nel suo curriculum si può trovare anche la voce: dancing queen.
«Mh, non credo proprio.» Lara smorza il suo entusiasmo. «L'evento si terrà tra due settimane esatte.»
«Non vedo dove sia il problema.» Jonathan è una schiappa nel ricordare le date.
Dimentica, sempre, anche il mio compleanno, festeggia lo stesso, però. Ironia della sorte, sono nato il quattordici febbraio; il giorno in cui si celebra l'amore, ma l'amore non celebra me.
Io lo so qual è il problema, sto facendo il conto alla rovescia, insieme a Hellin.
«La sfilata, Jo. Coincide con il debutto di Dafne.» gli ricorda, palesando il suo dissenso.
«Oh, vero, che cretino che sono.» Si batte la mano in fronte. «Altre ragioni per festeggiare. Continuo a non vedere il problema.» Sorride, per poi proteggersi il viso, quando Lara finge di lanciargli dell'acqua.
Rimango all'angolo, nel mio mutismo. So bene di trovarmi di fronte all'amica incazzata, e ne sento tutto il disagio. Da una parte mi chiedo, cosa ci faccio in questo posto, dall'altra, sono abbastanza sicuro di non essere dalla parte del torto. Di certo, non ho avuto i modi, non lo nego, ma non avevo alternativa, io. Non possiamo stare insieme, punto. Abbiamo ricevuto troppi segnali e non mi illuderò ancora, con il destino contro.
Mi siedo su uno di quegli sgabelli alti, in legno, del bancone e faccio cenno, al ragazzo dietro, di spillarmi una pinta. Una birra ghiacciata è ciò che ci vuole, per togliere il sapore aspro dell'insicurezza. Non sono affatto convinto della mia scelta, continuo a ripetermi che è quella giusta, ma qualcosa mi dice che sarebbe meglio sparisse.
Proprio come ora.
Ora che la vedo entrare, da quella cazzo di porta, a braccetto con un tizio, che ha tutta l'aria di uno che si è fatto sputare sui capelli, leccati dal gel.
Sì, sarebbe meglio che sparisse. Che tornasse in Libano o che optasse per il Burundi. Che ne so! L'importante è che vada il più lontano possibile da questa città e mi lasci affrontare i miei demoni da solo.
«Chi è quello?» Avrei voluto trattenere la domanda tra le labbra, ma, a quanto pare, riesco a usare poco il cervello, nell'ultimo periodo.
Jonathan si irrigidisce, quando si volta per guardare i due ragazzi che sembrano sfilare, per salutare la gente. Non l'ho mai visto prima il tipo inamidato, ma anche Lara sembra conoscerlo. Li saluta da lontano, per poi lanciarmi uno sguardo che mi ordina di allontanarmi, prima di raggiungerli e accoglierli con un abbraccio
«Jonathan, rispondi alla mia domanda.» ripeto, anche se dovrei solo silenziarmi.
Non mi deve importare nulla. Non ho alcun diritto di provare questa sensazione allo stomaco. Io ho Sally, e a lei ho fatto una promessa che non sogno di rimangiarmi, anzi. A costo di sposarla...
«Lucien, lui è Lucien.»
Questo nome non mi è nuovo e, il modo in cui lo nomina, mi accende una lampadina.
Lucien, Lucien, Lucien...
Chi cazzo è Lucien?
Già, ora ricordo. È il tizio meraviglia che guidava la macchina di Hellin, qualche tempo fa. L'autista, stranamente, non attempato. Perfetto, direi!
«E cosa ci fa qui, questo Lucien?» Qui con lei, è la vera domanda che vorrei porre.
Jonathan si volta per guardarmi, piega la testa di lato e lo vedo. Lo vedo, mentre tenta di capire, di leggermi dentro e provare a tirare fuori qualcosa, ma non glielo permetto, non posso.
«Farà un po' il cavolo che gli pare, Elias, non credi?» Arriccio le labbra e ingoio un groppo di saliva, insieme alla risposta che vorrei dargli, ma la tiro giù, fin dentro lo stomaco, per accumulare altra merda su quella sensazione che mi si è annidata, non appena ha messo piede nel Mor, con 'sto cazzo di Lucien.
«Era una semplice curiosità.» Mi limito a dire, prima di allontanarmi, come se non me ne fregasse nulla. Indifferente.
Quando, di indifferente, non ho proprio niente.
Mi accomodo a un tavolo vuoto, con la mia pinta in mano. Stringo il manico tra le dita e abbasso la testa, per osservare la scena, attraverso il liquido ambrato e le bollicine. Forse, se li guardo con il filtro farà meno male, mi dico, ma non è così.
Anche Jonathan è felice di vederla. Le stringe la mano, sorride a Lucien, come se ne fosse ammaliato. Se non fosse per i capelli, che sembrano cagati da un piccione, sarebbe proprio un bel ragazzo, lo ammetto.
O, forse, potrei riuscire a immaginare di annegarlo dentro questo bicchiere.
L'alcol diventa più scuro, fa sparire il magico quadretto che stavo osservando attraverso il vetro.
«È libero qui?» La voce di una donna mi riporta alla realtà.
«Puoi ripetere?» Ho capito benissimo la domanda, ma non sono in vena di ammiccamenti.
«Chiedevo...» dice, per poi fare una pausa e accomodarsi sulla sedia libera, «Se questo posto è libero.»
«Credo che tu lo abbia occupato, ormai.» rispondo atono, picchiettando le dita sul tavolo, mentre, con l'altra mano, porto il boccale alla bocca per gustare la schiuma morbida della birra.
«Credo che tu abbia bisogno di compagnia.» Lo dice con un voce che vorrebbe essere provocante e suadente, ma risulta sgradevole e irritante.
La squadro e, mi rendo conto, che non avevo neanche notato la profonda scollatura che mette in risalto i seni sodi.
Ma che cosa mi prende?
«Non di certo della tua.»
Ripeto... cosa mi prende?
«Cafone!» Mi insulta e, mentre si alza, con poco garbo, solleva il tavolo.
Riesco a bloccare il bicchiere che sta per cadermi addosso, ma un po' di birra esce fuori, finendo sulla camicia bianca.
Cafone io?
Afferro il fazzoletto dal tavolo e tento di asciugare il più possibile. Sento gli occhi della gente puntati addosso. Anche Dafne ha notato il piccolo spettacolo avvenuto dalle mie parti.
Mi alzo dalla sedia e raggiungo il bagno, per tentare di lavare via la macchia e, magari, fare una passata con l'asciugamani elettrico. Nelle toilette dei pub, oltre al lerciume che si trova a metà serata, odio la fila che si forma dietro la porta. Aspetto, come un deficiente per una decina di minuti, ma, chi è entrato prima di me, deve aver mangiato qualcosa di avariato, perché non accenna a uscire.
«Tieni.» La sua voce mi sorprende alle spalle.
Chiudo gli occhi, esausto, e prendo un grosso respiro, prima di girarmi. Mi porge uno di quei foulard salvavita che tiene sempre nella borsetta, ma non oso prenderlo.
«È troppo piccolo, Dafne, ma ti ringrazio, comunque.»
Senza contare che è impregnato del suo profumo, quindi: grazie, ma no, grazie.
Sento stringere il nodo della cravatta. Porto la mano al collo per allargarlo, ma... non ho una cazzo di cravatta, diamine!
«Cos'è successo con quella ragazza?» chiede, incrociando le braccia, in attesa di una risposta sensata.
«È una alla quale non piacciono i rifiuti, a quanto pare.» rispondo, mentre alzo e abbasso le spalle
«Un rifiuto, eh! Tu?» domanda scettica.
«Sono un uomo impegnato, ti ricordo.» E io lo sento.
Lo sento il momento in cui, per l'ennesima volta, le ho spezzato il cuore. Lo vedo mentre deglutisce a fatica e rilassa le braccia lungo i fianchi.
«Vero.» risponde con lo sguardo impassibile e la voce che vorrebbe tradirla. «Perchè ti comporti così, con me?»
«Così, come? Ti ho solo risposto.» dico confuso.
«Non mi hai chiesto neanche come sto, dopo tutto quello che è successo.»
Lo so che non l'ho fatto e non hai idea di quanto avrei voluto, ma devo starti lontano, tu devi starmi lontana. Chilometri. Non sarebbero abbastanza, comunque.
«Come dovresti stare? Lo so bene che stai una merda, per Hellin.» Abbasso lo sguardo sul pavimento in legno. «Ma devi sapere una cosa, Dafne.» dico, aspettando che sia pronta ad ascoltarmi. «Lei ti ama. Ti ama a tal punto di aver fatto di tutto per conoscerti e tenerti con sé.» Fa per parlare, ma io la fermo, alzando la mano per mettere un blocco alle sue parole. «Credimi, sono stato il primo ad avere difficoltà a capirla, ma, delle volte, siamo prede dei nostri errori e, quando li ammettiamo a noi stessi, non è detto che siamo pronti a farlo con il mondo.»
Ci facciamo talmente schifo da non riuscire a guardarci neanche allo specchio, ma, se quello specchio diventasse lo sguardo deluso delle persone che amiamo, si trasformerebbe in un'arma letale, capace di frantumarsi e conficcare le sue lastre di vetro taglienti, dritte nel petto.
«Hadi sapeva benissimo quello che ho passato a causa delle bugie, Elias. Quello che abbiamo passato. E cos'ha fatto? Non si è fatta scrupolo di aggiungerne altre, a quella lista che non avrà mai fine, nella mia vita.» Stringe i pugni così forte, che le unghie sembrano infilarsi nella carne dei palmi.
Finalmente, il tizio esce dal bagno, ma io faccio passare avanti quello venuto dopo. Mi rendo conto solo ora che non siamo in un luogo adatto, per affrontare un discorso così delicato
Controllo nelle tasche, ho ancora le chiavi della porta che dà accesso al terrazzo. Gliele mostro, ma lei scuote la testa per farmi capire che non ha intenzione di salirci.
Le poso e afferro il pacchetto di sigarette che ho nella giacca. Ho ripreso a fumare, e non dopo una scopata. Fumo più di mezzo pacchetto al giorno e non scopo, dalle tredici alle quindici volte, proprio no.
Le faccio cenno di uscire fuori dal locale e lei mi segue. È dietro le mie spalle, non posso notare se si stia guardando intorno per vedere l'aria giudicante dei suoi amici e di quel Lucien. Vado dritto verso l'uscita, senza dare un'occhiata per vedere cosa stia facendo Jonathan. A me non serve vedere i suoi occhi ammonirmi.
«Hellin...» dico, per riprendere il discorso, mentre clicco sull'accendino e accendere la sigaretta.
«Hadi!» risponde infastidita.
Sorrido sardonico, alzo gli occhi al cielo, mentre sputo il fumo.
«Oh, Dafne. Per me rimarrà sempre Hellin.» La difendo. «Mi ha cresciuto come Hellin, mi è stata al fianco come Hellin. È stata sempre Hellin, per me, e anche per te.» sottolineo, stringendo la paglia fra le dita. «Hadi è morta. Lo ha fatto per davvero, quando ha capito lo schifo che aveva combinato. Ora c'è solo Hellin. E non sono la stessa persona.» Scuote la testa e arriccia naso e bocca, come se stessi dicendo solo puttanate. «Tu l'adoravi, prima di sapere chi fosse davvero. Ha consolato anche te e ha asciugato anche le tue di lacrime.» Abbassa la testa e copre il viso con la mani. Forse, quello che le dico è troppo reale quanto incomprensibile, per lei, ma è la verità. «Tua madre si sta forzando di perdonarla. A piccolissimi passi, certo, ma ci sta provando. Ed è lei la vera vittima di Hadi, tu hai conosciuto solo Hellin, cazzo.» Inizio a innervosirmi.
Trovo stupido perdere del tempo a domandarsi come sarebbe stato e non vivere il presente e... il ciò che è. Tutto diventa impossibile, se non si è capaci di perdonare.
«Io no ci credo, Elias. Le persone non cambiano.» dice restia.
«Beh, non mi sembra di aver conosciuto una donna menefreghista, che pensa solo alla carriera e se ne fotte di chi ha intorno.» Alza la testa di scatto e incastra i suoi occhi nei miei. «Io non so chi sia Hadi, ma conosco Hellin, e lei non lo farebbe mai.»
Inizia a camminare avanti e indietro sul marciapiede, giocando a infilare il tacco in una fessura tra i mattoncini.
«E tu? Tu sei riuscito a cambiare?» La sua domanda mi sorprende.
Io sono cambiato innumerevoli volte, ma sono sempre io.
«Io mi adatto alle situazioni, diciamo.»
Sorrido e faccio l'ultimo tiro, prima di buttare la cicca in un cestino dell'immondizia, dopo averla spenta.
«Che risposta è?»
«La risposta di uno che si adatta.» dico, sbeffeggiandola.
Lo vedo che vuole continuare con le sue cinquecentomila domande, ma io vorrei solo scappare.
«L'altra volta non mi hai risposto, ma ora fallo, rispondimi. Metti una pietra sopra a questa storia.» dice, per poi avvicinarsi, infilare una mano nella tasca della giacca e prendere una sigaretta.
La guardo stranito, non l'ho mai vista fumare, ma prendo l'accendino per passarle la fiamma.
«Mi stai confondendo. Di che diavolo parli?» Non so a cosa a cosa si riferisca.
«La ami?»
Ancora? Non è stufa di pormi sempre la stessa domanda?
«Ti ho già detto che l'amore è un concetto sopravvalutato.»
«Elias, dai, ti pre-.»
«Sì» rispondo, per mettere fine a quest'agonia.
«Non ci credo.»
«Okay, pensa un po' quello che vuoi, ma la amo. Lei mi sta offrendo una via d'uscita e io, non posso fare altro che prenderla.»
A costo di perdere tutto. A costo di perdere me.
Mi volto, le giro di spalle e m'incammino verso la moto. Prendo il telefono e invio un messaggio a Jonathan per fargli sapere che aspetterò nel parcheggio, perché, quello che sto per fare, non mi permetterà di mettere più piede dentro questo locale, oggi
«Eh, Dafne, un'ultima cosa.» Mi volto, per assicurarmi che non sia rientrata e che le mie parole arrivino chiare e limpide. «Mi sono sbagliato.» Mi guarda con aria perplessa. «Io non ti amo e, forse, non ti ho mai amata.»
Succede che, delle volte, dobbiamo fare ciò che va fatto, anche se, questo può sembrare inaudito, incredibile e falso.
Succede che, delle volte, lo facciamo una volta di troppo, e sappiamo che spezzerà il cuore dell'altra persona, ma, quella volta di troppo, diventa necessaria per chiudere il cerchio di un dolore infinito.
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