36-Conosci il fantasma?
Hellin
Immobile...
Legata a menzogne
che bloccano il respiro.
Di te, solo resti di una vita
passata a mentire e nasconderti,
dietro una maschera di cera
che, inevitabile, si liquefà al tocco
di mani roventi...
🌘🌘🌘🌘🌘🌘🌘🌘🌘🌘
«Mamma?» Dalia sembra aver davanti un mutaforme e, invece, sono solo io.
Una bugiarda, una codarda che non ha avuto la forza di lottare, per semplice inerzia, probabilmente. Una questione di comodo.
«Hellin, davvero, perdonami. Ero andata un attimo in bagno.» Si affanna a spiegare Margot.
«Hadi! Si chiama Hadi questa donna.» rivela Dalia nello sconforto di una verità che avrebbe dovuto essere sepolta, come la donna che ha di fronte. «Ed è mia madre!» dice, prima di voltarsi verso Dafne. «Tua nonna!»
Ha difficoltà a parlare, si avvicina a un pilastro per reggersi e non perdere l'equilibrio. Le gambe tremano e danno l'impressione di poter cedere, da un momento all'altro.
Mia nipote è tanto rigida da dare l'impressione che possa spezzarsi al solo tocco di una carezza. La stessa che Elias le riserva da lontano, mentre guarda i suoi occhi enormi e sgranati che fissano il vuoto, increduli e incapaci di ogni reazione. La sala si riempie e, tra lo sconcerto di chi ha assistito e il chiacchiericcio di chi, ignaro, continua a chiedersi cosa sia successo, mi ritrovo in una sorta di vigile incoscienza.
Dalia mi si avvicina restia, stringe le palpebre, come se non riuscisse a mettere a fuoco una realtà dolorosa. Avvicina la mano al mio volto, per abbassare il velo che lascia intravedere solo gli occhi ai quali ha incastrato i suoi.
«Sei tu? Sei davvero tu?» Ancora scettica, accarezza ogni tratto del viso.
Passa le dita sulle rughe che segnano gli anni trascorsi a nascondermi. La lascio fare, immobile, mentre un brivido mi percorre la schiena, al tocco della mano che ho lasciato, per fuggire.
Davanti a me ho mia figlia, quella che avrebbe dovuto essere l'amore della mia vita. Quella che meritava di avere una madre che lotta con le unghie e con i denti per proteggerla da qualunque cosa potesse scalfirla. Una donna cresciuta nella convinzione che la sua mamma fosse morta e, per un po', lo sono stata per davvero.
«Dafne!» L'urlo di Elias risuona nella sala, quando lei scappa dall'ennesima coltellata di menzogne che la stanno distruggendo.
Le catene che lo legavano alla ragione si spezzano, per lasciarlo libero di andare incontro all'istinto e seguirla, ma trova la porta sbarrata.
«Non ti azzardare a provarci.» La minaccia di Lara, mentre blocca l'uscita, e un'eco che rimbomba tra le pareti della stanza. «Non hai alcun diritto di asciugare le sue lacrime. Torna dalla tua ragazza, Elias.» dice, con uno scatto della testa che lo intima a a fere un passo indietro.
Due, tre, quattro, fino a quando è abbastanza vicino alle sue catene dai capelli rossi. Lo sguardo di Sally ha tutta l'aria del rimprovero, misto a una rabbia che vorrebbe esplodere. La vedo prendere un grosso respiro per calmarsi, rassicurata dagli occhi pentiti di Elias.
Dalia scuote la testa, come se avesse assistito a uno spettacolo destinato a fallire. Mi volta le spalle, per lasciare la sala, ma si ferma, non appena Lara le fa spazio per passare.
«Non credere che sia finita qui, Hadi.» dice, riservandomi il muro della sua schiena, prima di voltare l'angolo.
Mi lascio crollare, inginocchiata, senza più forze, sul pavimento che sembra cedere, insieme alle mie gambe.
Elias mi tende la mano e io alzo la testa per guardarlo, convinta di non trovare comprensione nei suoi occhi.
«Andrà tutto bene, Hellin.» Mi sbagliavo. «La delusione e la rabbia lasceranno il posto alla necessità di sapere, te lo assicuro.» Mi aiuta ad alzarmi dal pavimento freddo, per poi portarmi via dal chiacchiericcio incessante dei presenti.
«È troppo tardi, Elias, le ho perse per sempre.» ammetto, più a me stessa che a lui, mentre cerco di fermare le lacrime che hanno bisogno di venire fuori.
Mi lascio invadere dal senso di vergogna, pentimento e disgusto nei confronti della donna che, un tempo, sarei dovuta essere, ma che per egoismo non sono mai stata: Hadi Waseem, il disonore dell'essere madre.
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I giorni passano, nella bolla di un silenzio che vorrei scoppiare, ma che mi blocca, incastrandomi al suo interno, insieme al terrore di affrontarle e di affrontarmi.
Dafne continua a lavorare da casa o dal laboratorio, dove io, per rispetto dei suoi sentimenti, non metto piede.
Cinque.
Cinque giorni sono passati, dal momento in cui le carte sono state scoperte. Cinque giorni che sono sembrati più lunghi di ogni singolo istante passato senza mia figlia, fingendo che non fosse mai esistita. Ho messo su una maschera di indifferenza e distacco emotivo, insieme alla stoffa che voleva nascondermi. L'ho fatto per non giudicare le mie stesse, orribili scelte.
Dopo ore passate ad ascoltare i consigli di Elias e di Jonathan - quel ragazzo riesce ad essere ovunque, nei momenti meno opportuni - realizzo che, per la prima volta nella mia vita, ho l'obbligo di fare ciò che non ho mai fatto per loro: munirmi del coraggio che mi è sempre mancato e cercarle.
Provo a rintracciarle. Lo faccio in maniera incessante, per quasi due settimane, prima di perdere le speranze e arrendermi al fatto che non vogliano sentire quello che ho da dire.
Cos'ho da dire? Niente!
Niente che possa giustificare quello che ho fatto e che ho continuato a fare, mentre prendevo in giro una donna che ne aveva già passate tante, a causa delle menzogne.
È arrivato il momento di essere sincera, anche con me stessa: io non merito neanche di essere ascoltata, figuriamoci il loro perdono.
Cosa voglio spiegare a loro, se sono la prima a non trovare una valida motivazione ai miei gesti. Sono stata una vigliacca, punto.
Il campanello che suona, mi riscuote da uno stato vegetativo. Asciugo le lacrime, passandoci sopra il fazzoletto che stringevo in mano. Mi alzo dal divano, che ha preso la forma del mio corpo, ormai, e mi trascino con inerzia ad aprire la porta. Lo scatto della maniglia, rimbomba nelle orecchie stanche. Lo sento più forte del suono del silenzio che divaga. Non mi soffermo ad accogliere gli ospiti, mi limito a dare loro il modo di entrare, per poi ritornare sul divano a poltrire, continuando a piangermi addosso, fino a quando loro non vorranno ascoltarmi, anche solo per finta.
«Non voglio giustificazioni, pretendo la verità.» La voce di mia figlia mi concede la forza di girarmi.
Non mi sembra vero, ma sono entrambe qui e mi guardano, come se potessi scappare da un momento all'altro.
«Okay, basta bugie.» rispondo, con il cuore in gola e l'anima pesante.
Mi libero di ogni sorta di imbarazzo e le invito a mettersi comode. Capisco il disagio, lo sento anche io, ma sarebbe ancora più forte se rimanessero lì, impalate, sull'uscio con il piede che batte sul pavimento, in attesa.
Dalia si ammorbidisce, si accomoda sul sofà di fronte al mio, mantiene comunque le distanze, ma è sempre meglio della posizione netta presa da mia nipote che, invece, sembra una statua di marmo modellata, con le braccia incrociate al petto.
Prendo un grosso respiro, per sputare fuori tutto il dolore che ho dentro. Lo stesso che ho lasciato nel cuore di mia figlia. Il mio non vuole essere uno sfogo, ma una vera e propria confessione di peccati.
Quello che sto per raccontare non ha nulla a che vedere con ciò che hai ascoltato qualche mese fa da Vanessa, piccina. La mia storia non ha inizio dalla fine. La mia storia è la fine. Quella a cui sono arrivata, senza l'aiuto di nessuno. Ho fatto tutto da sola.
Ho incontrato Will, tuo nonno, quando ero poco più di una bambina. Ne ero innamorata, a modo mio. È sempre stata una persona buona, affabile e di cuore. Ero una ragazzina, ma sapevo bene ciò che volevo. Volevo lui, perché non potevo avere ciò che desideravo davvero. Lui era molto più grande di me. Sono stata io a convincerlo, dopo un tempo che mi sembrò infinito, che la differenza di età era solo un numero insulso.
Passammo degli anni meravigliosi insieme. Anni in cui avrei potuto sperimentare e seguire l'istinto, ma non me lo concessi. Ero spaventata a morte da ciò che mi suggeriva il cuore e preferii silenziarlo.
Iniziai a lavorare come aiuto sarta, per racimolare qualche spicciolo e dare una mano, in casa, per pagare le bollette. Quel mestiere divenne arte nelle mie mani e, ogni giorno che passava, m'innamoravo un po' di più di ago e filo e un po' di meno di Will.
Dopo circa un anno e mezzo, rimasi incinta e dovetti abbandonare l'idea di cucire abiti, per potermi dedicare alla famiglia.
Intanto, Will lavorava giorno e notte, lasciandomi sola in casa, con il pancione. Riuscì a trovare un lavoro che ci permise di mettere un po' di soldi da parte.
Quando nascesti tu, Dalia, mi sembrò di non aver mai amato così tanto una persona. Decisi di dedicarti la mia vita, in tutto e per tutto, ma non riuscivo più a non fare nulla. Trovai il modo di lavorare, pur rimanendo al tuo fianco. Fondai un piccolo campus, accogliendo, in estate, bambini annoiati da genitori assenti. Tu eri sempre lì, con me. Eri così entusiasta e non vedevi l'ora che arrivasse quel momento. Stagione dopo stagione, facevi il conto alla rovescia.
Potevi avere sedici anni, all'incirca, quando ospitammo, per la prima volta Dafne e Vanessa. Ti affezionasti subito a quelle due ragazzine, ma non rimanevano per la notte, a causa del male che stava portando via una di loro. Ogni giorno, una donna le accompagnava al campus e rimaneva per tutto il tempo; era la baby sitter di Dafne. Vanessa era sua figlia, invece.
Osservavamo crescere la vostra amicizia, tra risate e fette di crostata, fino a quando, non tornarono più, per non farti male, ma io non smisi mai di sentire e vedere quella donna; Rose era il suo nome.
Erano anni che soffocavo in un rapporto che mi ero fatta andare bene, per vergogna. Ero cresciuta con la convinzione di essere sbagliata. Mi ero costretta a provare un sentimento per tuo padre, perché non riuscivo ad accettarmi, ma quella donna mi rubò cuore e anima.
Essere omosessuale non era come oggi. Ci nascondevamo. Per anni lo abbiamo fatto.
Con il tempo, Will si rese conto che non ero più la stessa e che, non appena ne avevo la possibilità, inventavo scuse per andare via di casa.
Il giorno del tuo primo spettacolo, ti accompagnai in teatro per le ultime prove, prima di andare a trovare Rose. Non mi resi conto che tuo padre mi stava seguendo e mi vide. Mi vide mentre la baciavo. Quando tornò a casa, ti disse che per lui ero morta e, quella morte, diventò definitiva nel momento in cui decisi di abbandonarvi.
Mi minacciò, per la prima volta in vita sua. Disse che avrebbe rovinato la vita della mia compagna, se l'avesse rivista. Gli credetti, ma solo per comodo, lui non l'avrebbe mai fatto, per davvero.
Non persi tempo e inseguii i miei sogni. In pochi anni riuscii a diventare qualcuno nel mondo della moda e vi eliminai dalla mente. Preferivo non ricordarvi, piuttosto che pensare a quello che avevo fatto, ma poi, Elias entrò nella mia vita. Fu in quel momento che mi guardai, davvero, allo specchio e, il mio riflesso, mi fece talmente schifo che compresi il motivo per il quale non lo avessi fatto prima.
Rose aveva, per anni, tentato di farmi capire i miei sbagli, senza mai smettere di amarmi, neanche per un secondo. Ero stata solo una grande egoista. Ho pensato al mio amore, alla mia carriera ormai in libera ascesa, alla mia felicità, a tutto ciò che era mio. Mio. Mio. Mio.
Mi nascondevo, mi ero sempre nascosta, per paura che Will potesse rovinarmi, dicendo al mondo che avevo abbandonato la mia famiglia, a causa di un amore imbarazzante, per una donna del mio calibro.
Ho sempre pensato prima a me stessa, anche a discapito di Rose, ma lei mi amava così tanto che faceva finta di non vedere. Il piccolo Elias ha riempito la casa di quel profumo che avevo lasciato andare, ricordandomi quanto fossi indegna di essere chiamata madre.
Quando Elias incontrò Dafne, non mi accorsi subito di chi si trattasse. Non sapevo neanche che avessi avuto una bambina.
Una sera, guardando tra i documenti dei partecipanti al campus, mi ritrovai in mano il fascicolo con la foto di quella splendida ragazzina con gli occhi che sapevano di casa: Dafne May.
Le avevi dato il nome della tua amica. Pensavo l'avessi dimenticata.
Non ci potevo credere. La Dafne di Elias era mia nipote. Avevo avuto una nipote.
Tu, tu Dafne, eri mia nipote.
Ti feci la prima crostata di pesche, quando Elias mi disse che le adoravi e che avrei dovuto farne una per te. Ero piena di orgoglio quando mi chiamò, entusiasta, per dirmi quanto ti fosse piaciuta. Volevo riempirti di quella torta alle pesche.
Quell'anno, ero distrutta, quanto Elias, quando raccontò quello che era successo. Ti ho persa, insieme a lui. Ti avrei fatto tutte le crostate di pesche del mondo per farti tornare.
Lo promisi a Rose e a me stessa; se ti avessi ritrovata sarebbe stato per sempre. Ti avrei preparato tante di quelle torte da farti venire il voltastomaco.
Eri in Libano. Facevi tirocinio da un mio collega, nonché caro amico. Senza saperlo, avevi seguito la mia strada. Non potevo che esserne orgogliosa. Margot non ha mai chiamato Elie.
Lo sentivo ogni santissimo giorno. Esasperato dalle mie telefonate, quando seppe che volevi andartene, decise di mandarti da me.
Fu una sorpresa quando vidi il tuo curriculum. Ti ho mentito, l'ho sempre fatto. Sapevo benissimo chi fossi. Non eri la ex stronza di Elias, eri mia nipote, e io lo sapevo.
L'unica che avrei preso a occhi chiusi. Non riuscivo a smettere di tremare, la prima volta. Non avevo dormito, quella notte, sapendo che avresti varcato la soglia della mia porta, la mattina. Volevo dirtelo. Tante volte avrei voluto, ma non ne ho mai avuto la forza. Mi è sempre mancato quel coraggio che Rose mi pregava di trovare. Avrei dovuto fregarmene dei giudizi, comportandomi da leonessa per la mia famiglia. E, invece, mi ritrovo ad essere la solita codarda.
Se non fossi arrivata tu, Dalia, non so se lo avrei mai trovato. Sono stata io a bruciare tutte le mie foto. Sono stata ben attenta a non rivelare chi fossi realmente: il fantasma di Hadi Waseem.
Non hanno emesso un fiato, mentre raccontavo e io ero talmente presa dal discorso che non ho visto il momento in cui è arrivato Elias. Me lo ritrovo accanto a stringermi la mano, per consolarmi dagli sguardi vuoti delle due donne che ho di fronte.
«Tu lo sapevi?» chiede Dafne rivolgendosi a lui. «Era questo il segreto che mi stavi nascondendo?»
«L'ho saputo qualche mese fa, sì.» risponde atono, ma la sua presa inizia a stringere un po' troppo.
«Non provi neanche a giustificarti?» I suoi occhi chiedono una comprensione che non arriva.
«E tu? Tu cosa non mi hai detto?» Questa domanda, provoca anche in me un senso di smarrimento.
Lo stesso che vedo nello sguardo di Dafne. L' ho costretta a mentire all'amore della sua vita e lo farà, ancora una volta, per mantenere la promessa fatta a Vanessa.
«Potevi fare qualcosa.» Lo rimprovera.
«Cosa, Dafne, cosa avrei potuto fare?» Si alza, la raggiunge e si posiziona davanti a lei. «Sai, c'è una sottile differenza tra i modi che abbiamo avuto di affrontare un segreto.» dice, per poi stringere il labbro tra i denti e tirare aria. «Io ero rimasto.» Lo vedo scuotere la testa. «A me non importava niente di un'ulteriore verità mancata. A me importava solo che tu restassi e non lo hai fatto.»
«È vero, Elias, non lo fatto!» urla, perché non riesce più a trattenere le lacrime. «Ma questa donna è mia nonna, potevi almeno convincerla a dirmelo prima.»
«Cosa credi che non ci abbia provato?» Le volta le spalle, per tornare vicino a me e stringermi la mano. «L'ho capito anche io che aveva bisogno di tempo, per trovare il coraggio.»
«Tempo?» domanda con aria di disgusto. «Più di trent'anni non le sono bastati?» chiede sarcastica. «Siamo state a stretto contatto per mesi. Mi ha trattata come fossi sua nipote e scopro, solo ora, che lo ero davvero. E tu mi dici che aveva bisogno di tempo?» La sua risata sardonica e nervosa, riempie il salone, mentre Dalia osserva la scena impietrita, sembra non stia neanche respirando.
Mi alzo dal divano, per raggiungerla, ma mi blocca, sollevando la mano in aria.
«Ti prego, Dalia, di' qualcosa» La supplico.
«Cosa dovrei dire?» chiede. «Potrei insultarti, ne avrei ogni diritto, ma non lo farò.» afferma, senza guardarmi. «Aspetterò. Io sono qui, e sono a pezzi. L'unica cosa che posso fare e sperare che tu faccia qualcosa per ricompormi.»
«Vieni a vivere con me, conosciamoci di nuovo.» So di aver detto una stupidaggine, ma non ho idea di cosa fare per farle capire che non la lascerò più.
«Ma che stai dicendo?» risponde, con una domanda che, dal tono in cui la pone, esprime tutto l'odio e il disgusto che prova, in questo momento. E io mi sento stupida. «Ti sei presa tutto il nostro tempo. Ora decido io come, quando e se ti offrirò il mio.»
La capisco.
Sarei dovuta essere lì, quella sera in teatro, a vedere la mia bellissima figlia debuttare.
Avrei dovuto stringerle la mano, darle la forza che solo una madre può dare, mentre metteva al mondo la creatura meravigliosa che è stata al mio fianco in questi mesi. Dovevo esserci per Dalia. Dovevo essere lì a cambiare i pannolini di un piccolo scricciolo, a vederla muovere i primi passi, a curare quelle ginocchia sempre sbucciate. Non c'ero, è vero.
Ci sono ora, però.
Ci sarò domani e lo farò per sempre.
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