33-Promesse mantenute?
Elias
«Mi dispiace, devo farlo!» Non posso esimermi da un qualcosa che avevo promesso prima. «Capisco tutto, ma ti assicuro che non hai nulla di cui preoccuparti.» Cerco di essere il più persuasivo possibile, mentre la convinco del fatto che sia la cosa giusta da fare.
«Ah sì? Ti sembra una cosa normale andare a perlustrare il viale dei ricordi insieme a Dafne?» risponde con una domanda retorica. «Trovo tutto così assurdo. Dov'eri durante il nostro discorso?»
«Con te.» Non potevo essere da nessun'altra parte.
Nessuna parte di me poteva.
«Tu non ti rendi conto...» Cammina avanti e indietro per il salotto, sembra quasi lasciare i solchi sul pavimento. Porta le mani alle tempie, per alleviare lo stress con massaggi circolari. «Ci cadrai di nuovo. È ancora troppo presto.» dice con un filo di voce.
«Devi stare tranquilla.» Mi avvicino, per stringerla in un abbraccio e tentare di mettere fine alle sue ansie. Poggio una mano sul mento e sollevo il viso, in modo che possa guardarmi negli occhi. «Non ho mai infranto una promessa, non inizierò oggi.» puntualizzo.
Tira un sospiro di sollievo e si libera dalla mia presa. Si volta di spalle, verso il grande specchio all'entrata. La osservo dal riflesso, mentre considera la possibilità di darmi il benestare. «Okay, va bene, ma che sia l'ultima volta, Elias. Non farmene pentire.» Mi guarda attraverso il vetro con l'aria di una che sta andando contro se stessa, accettando il rischio di uno scontro frontale.
Allungo un passo verso di lei, le afferro la mano e la costringo a non guardarmi più tramite un riflesso che la potrebbe raggirare.
Non mi sono mai fidato degli specchi. Il loro modo di mostrare è un po' il nostro modo essere. Vediamo ciò che vogliamo vedere, ciò che il nostro stesso pensiero ci suggerisce. Il mondo e le persone diventano un prolungamento di noi, ingannando la realtà. Gli specchi non sono sinceri. Gli occhi: quelli, sì, che non sanno mentire.
Le sorrido, infilo una mano tra i capelli che profumano di cocco – un po' banale per i miei gusti pretenziosi – e le schiocco un bacio sulla fronte, felice come un bambino, per essere riuscito a conquistare la sua fiducia.
«Non te ne pentirai, cioccolatino al rum.» La sbeffeggio, per farle spegnere quello sguardo cupo.
«Vai, idiota, prima che possa cambiare idea.» Mi spinge verso l'uscita, sorridendo rassegnata. «Voglio i dettagli, Elias.» sottolinea, quando sto per chiudere la porta. «Non tralasciarne neanche uno.»
Come potrei nascondere qualcosa a un cane da caccia come te?
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Mentre mi avvicino al luogo dell'incontro penso e ripenso a come sarà rivederla. Non ho idea dell'effetto che potrà farmi. È un po' di tempo che sento solo emozioni contrastanti che mi confondono.
Sono stato privato di ogni parte del mio cuore, per così tanto tempo, da non riuscire più a riconoscere alcun tipo di sentimento. Sento solo una sensazione di vuoto ma, forse, è proprio questo a completarmi.
Spogliato di ogni forma d'amore, sono un morto che cammina, consapevole di aver quasi raggiunto l'oblio.
Mi rimane l'affetto di Hellin; l'unico, al momento, che posso ricambiare senza limiti, il resto, lo lascerò agli eventi, senza fare domande.
Un milione di quesiti, però, me li pongo non appena intravedo Jonathan e Lara vestiti come due deficienti, entrambi con un cappello Deerstalker in tweed e un'invernes Cape del medesimo colore, sopra un vestiario formale.
«Chi sareste, ordunque?» li sbeffeggio, utilizzando l'eloquio adatto al contesto creato da loro, mentre il mio amico tira fuori dalle tasche una lente d'ingrandimento e una pipa giocattolo.
«Sherlock Holmes, elementare.»
risponde come se la cosa fosse ovvia per tutti.
«Immagino che tu sia Watson!» Mi rivolgo a Lara che mi lancia un'occhiata severa.
«Quello saresti dovuto essere tu! Io sono Enola.» Si volta di scatto, richiamando l'attenzione di Jonathan. «Non gli hai detto come vestirsi?»
«Certo che gliel'ho detto, per telefono, ma non mi ha dato retta, a quanto pare.» Entrambi mi guardano, incrociano le braccia, per poi scuotere la testa. «Oppure, eri distratto dalla signorina che mi stai nascondendo da un po'?»
Lo sapevo che mi stava spiando, lo stronzo. Vedevo l'ombra attraverso la fessura, da sotto la porta, quando mi chiudevo in camera per avere un po' di privacy.
Noto Lara sgranare gli occhi, mostra, con lo sguardo, dietro le nostre spalle per tentare di silenziare un discorso che non ho intenzione di fare uscire fuori, almeno per ora.
«Dafne, piccola primula di Kathmandu.» È Jonathan a voltarsi per primo, mentre io resto immobile, al mio posto, puntando lo sguardo al cielo. «Stavamo giusto parlando della tizia che Elias finge di non frequentare.» Sia io che Lara lo trucidiamo con lo sguardo. «Che c'è? Prima o poi lo avrebbe saputo comunque.» Alza e abbassa le spalle, come se avesse detto solo una grande verità. In poco, la sua attenzione viene attirata da qualcos'altro. «Be', a quanto vedo, anche tu non ti sei risparmiata.» dice, senza distogliere lo sguardo dal punto che lo ha distratto. «Quella meraviglia sarebbe Lucien?» domanda a Dafne, tirandole una leggera gomitata che la urta sul braccio.
Lei continua a non dire una parola e io vorrei solo girarmi e vedere di chi sta parlando il mio amico, ma mi trattengo.
Capisco cosa vuole fare. Si diverte a provocarci. Crede che cascheremo nel suo tranello idiota da perfetti imbecilli, mostrando la nostra gelosia.
Io ho solo una domanda che mi logora:
Chi cazzo è Lucien?
Mi dico che non ha importanza, ma mi ritrovo a guardare la Urus nera dai finestrini oscurati, allontanarsi e sparire al primo incrocio. Quella è una delle macchine aziendali di Hellin. È molto strano, di solito, i suoi autisti sono un po' datati.
Senza rendermene conto, cerco gli occhi di Dafne, come se mi potessero rassicurare di qualcosa. Non osa ricambiare, tiene lo sguardo puntato sul marciapiede, con aria colpevole.
Colpevole di cosa?
Ci incamminiamo verso la mia macchina, mentre Lara scandisce, a bassa voce, ogni tipo d'insulto nell'orecchio di Jonathan. Sono abbastanza vicino per godermeli tutti, uno a uno. Vorrei aggiungerne altri, ma quelli della ragazza basteranno, credo.
Osservare il tipo di rapporto che hanno costruito, in poco tempo, mi fa sorridere. Sarebbero una gran bella coppia, se non li accomunasse il gusto per l'orrido; meglio perdere la testa per il profumo di una donna che per un uomo dal rutto facile. Le eccezioni non fanno la regola.
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Il viaggio in macchina, diventa devastante, dopo circa tre chilometri. I due, cantano a squarciagola ogni singola canzone che passa alla radio, anche se non la conoscono. Riescono a inventarsi le parole, continuando a tenere il ritmo. È una tortura. Sposto lo specchietto retrovisore per assicurarmi che Dafne sia ancora viva. Non ha emesso un solo fiato, neanche quando le hanno intimato di seguire il ritornello di Bye Bye Bye degli NSYNC. È rimasta impassibile, a guardare la strada sfrecciare dall'altra parte del vetro, proprio come ora. Immersa nei suoi pensieri, quegli stessi che vorrei conoscere e farli anche un po' miei.
Ma non m'importa davvero, non mi deve importare. Stavamo ricostruendo qualcosa di più reale, rispetto all'amore di due semplici ragazzini, ma lei ha preferito continuare il suo viaggio da sola. Ha lasciato la mia mano e, ora, io lascio la sua, anche se la terrò in braccio.
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La desolazione che troviamo, una volta arrivati nei pressi del campus, è surreale. Le bellissime strutture in legno, che ricordavo come fossero delle eleganti baite sul mare, hanno lasciato il posto a catapecchie segnate dal tempo e da graffiti con riferimenti espliciti al sesso, e altri che sembrerebbero quasi astratti, senza un'apparente significato. Potrebbero essere dei simbolismi che richiamano l'appartenenza alla setta. Scatto qualche foto con il cellulare e seguo i ragazzi che continuano a camminare. Sotto i piedi, si sente lo scricchiolio delle foglie secche e dei rametti che calpestiamo a ogni passo.
Gli scalini, dove passavamo ore, seduti a parlare, hanno delle crepe profonde. Il legno marcio della pedana e i vetri rotti e scarabocchiati con della vernice rossa, danno, ancora di più, quel senso di depravazione che ha dovuto subire questo posto, abbandonato da Dio.
«Ditemi che è tutto un'incubo e io devo ancora svegliarmi!» Sono le prime parole che le sento dire. Dafne si perde a perlustrare ogni centimetro di questo luogo. Scalcia un pezzo di carta, portato dal vento, e abbassa lo sguardo sull'erba alta. Si china, come a prendere qualcosa.
«Non toccare niente, per favore.» Mi avvicino, spaventato. «Non sappiamo cosa cazzo facevano qui. Potresti sfiorare una siringa o qualsiasi altra porcheria che utilizzavano.» Le porgo la mano, per aiutarla.
Mi guarda, prima di rialzarsi e pulire le mani sui Jeans, ignorando il mio gesto.
«Da quanto tempo è chiuso?» rivolge la domanda al vento, perché è nel vuoto che sta guardando, mentre lo fa.
«Dalle mie ricerche, dovrebbero essere nove o dieci anni.» risponde Jonathan. «Non ci sono notizie precise. Sembra essere stato sequestrato per dei controlli di sicurezza, ma non è stato mai più riaperto.» Finge di aspirare dalla pipa, per darsi un tono. «La fondatrice è venuta a mancare molti anni prima della chiusura, presumo che nessuno se ne sia più interessato.»
«Lei era mia nonna.» confessa, portando la mano ad asciugare una lacrima.
I due ragazzi si avvicinano a lei. Lara le mette una mano sulla spalla, mentre Jonathan l'avvolge in un abbraccio.
Vorrei fare lo stesso, ma sarebbe solo un'ulteriore illusione, per entrambi. Per noi, non è il momento, non lo è mai stato e, forse, non lo sarà mai.
«Perchè non me lo hai mai detto?» chiede la sua amica.
«Non sarebbe cambiato niente.» risponde. «Avrei gridato che la mia vita è stata distrutta, proprio nel posto al quale mia nonna teneva di più.» La sua voce trema, al suono di quella confessione. «Quando lo dici diventa tutto reale.» sussurra, per poi prendere un grosso respiro. «Entriamo, dai, che facciamo ancora qui fuori?»
Osservo tutto da dietro le loro spalle, un po' come se non esistessi più nella sua vita. Io l'ho sempre saputo che Hadi era sua nonna, me lo disse quando eravamo ancora due ragazzini, ma sentire la sua ammissione è come farlo per la prima volta.
Fa male realizzare che si è persa in questi luoghi. Erano un sogno, per lei, prima che li conoscesse, per davvero. Prima che la risucchiassero dentro il loro lato oscuro e perverso.
I tre scalini che portano dentro la struttura degli – ormai ex – dormitori maschili, sono deteriorati dal tempo e dai maltrattamenti. Le porte, sfasciate e aperte, lasciano intravedere il degrado all'interno. Bottiglie di alcolici rotte, lasciate nello stretto corridoio in legno, fanno pensare a vari scenari terribili. Le pedane scricchiolano al nostro passaggio, facciamo attenzione a non calpestare i vetri che fanno da tappeto.
Quando entriamo nella stanza che mi ha ospitato per molte estati, sento un dolore pervadermi il petto. Il tempo potrebbe essersi fermato, perché io resto immobile, a fissare i materassi logori, non so neanche io per quanto. La spugna fradicia che ne esce fuori, emana un odore raccapricciante. Probabilmente, si tratta della puzza del piscio dei vari animali che trovano riparo per la notte.
La situazione non cambia nei dormitori femminili.
Passando per il porticato della sala comune, dalle finestre, scorgiamo altri materassi sul pavimento, ormai diventati splendidi sofà per ratti. Decidiamo di entrarci comunque, facendo estrema attenzione alle varie cianfrusaglie sparse. La porta della direzione, che non avevo mai visto aperta, è stata scardinata. Riusciamo a intravedere, in fondo alla stanza, degli armadietti in metallo riversati sulle tavole. Accanto a essi, sono sparpagliati dei fogli, molti, non visionabili. Il tempo e i topi li hanno ridotti in carta straccia.
Vedo Dafne avvicinarsi a una sedia rimasta integra. Sotto di essa, noto un mucchietto di foto, e m'incuriosisco anche io. Jonathan e Lara rovistano tra i documenti rimasti chiusi nei cassetti.
Abbiamo solo bisogno di una verità, una qualunque, basta che sia reale. Potrebbe anche ucciderci, ma, prima o poi, impareremo ad accettarla.
Faccio attenzione a non spaventarla, quando mi avvicino a lei. È raggomitolata sul pavimento, stringe in mano una foto ingiallita. Dovrebbe essere un'istantanea di qualche anno prima del suo arrivo.
Mi sporgo, per guardare meglio. Nell'immagine, rivedo il sorriso di mia nonna, mentre stringe la mano di Hellin e sento il cuore bruciare nel petto.
«Cosa ci fa questa foto qui?» Mormora, per poi voltarsi a guardarmi, lasciandomi interdetto.
Oh, allora esisto ancora. Non sono diventato un fantasma.
«Non lo so, Dafne! Rose ed Hellin venivano spesso a trovarmi. Credo sia una foto della mia prima estate qui, al campus.» Ingoio a fatica la saliva che sembra soffocarmi, quasi come a sentirmi colpevole di qualcosa.
«Questa stessa foto, l'ho trovata nell'appartamento di Hellin.» dice, mostrandola. «Lo vedi il ragazzo sbiadito?» annuisco. «Bene, qui non si capisce, ma nella foto che ho visto io, ti fissava in maniera inquietante.»
«In che senso?» chiedo, più per tornare a respirare che per effettiva curiosità.
«Non so spiegartelo, so che non mi ha fatto un bell'effetto» risponde, per poi arricciare il naso, come se qualcosa la infastidisse.
«Addirittura?» domando.
Fa cenno di sì, con la testa, prima di tornare a guardare la foto.
«Frequenti davvero qualcuno?» domanda, quasi per gentilezza, più che per interesse.
«Sì, Dafne!» rispondo secco. Indietreggia d'un passo, inciampa sui suoi stessi piedi. E io, non so perché, continuo. «All'inizio, era solo una ripicca, lo ammetto, ma ora è diventata una necessità.»
Quel passo lontano da me, si fa più profondo, vorrei riavvicinarmi, ma fingo che non m'importi della sua reazione e resto fermo.
Solo che la vedo mentre vorrebbe scoppiare a piangere, ma rimanda indietro le lacrime.
«Ragazzi, abbiamo un problema!» Veniamo richiamati da Jonathan che si avvicina, insieme a Lara, con delle cartellette, dalle quali sono state strappate le etichette, dove avrebbero dovuto essere scritti i nomi. «Lara presume che manchino un bel po' di
fascicoli.» Mostra quei faldoni che tiene tra le mani. «In questi contenitori avrebbero dovuto esserci i documenti relativi ai frequentanti del campus. Significa che, prima di abbandonare questo posto hanno fatto razzia, senza lasciare traccia della loro identità.» Lancia la sua pipa contro la parete, lasciandosi travolgere dalla frustrazione. «Non abbiamo prove, cazzo! È stato un viaggio inutile!» urla.
«Non è tutto perduto, magari Dafne, in quelle foto, ha trovato qualcosa d'importante.» dice Lara, per rincuorarlo. «Un attimo! Dov'è andata Dafne?»
Troppo concentrato su quei documenti e sull'isteria di Jonathan, da non accorgermi della fuga della donna a cui, consapevole, ho appena strappato il cuore.
Non sarò la tua cura, questa volta, ma verrò comunque a cercarti. Ti cercherò sempre e, anche quando non vorrai, io saprò dove trovarti.
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