25-Maschere
Dafne
La situazione sta diventando pesante. Quei due cretini mi hanno fatto venire un colpo al cuore. Quando li ho visti varcare la soglia non sapevo se ridere o piangere. Ho optato per l'indifferenza totale. Devo ammettere che Elias è un gran figo, anche vestito da scemo.
È stato facile convincerli ad andare.
Non riuscivo neanche più a spiegarmi bene con Steve, quando li ho visti entrare vestiti da idioti. Avrei voluto sprofondare sotto il tavolo.
Ho reso l'atmosfera snervante, anche per lui. È dovuto uscire a fumare una sigaretta per stemperare l'animo, lasciandomi il tempo di sgattaiolare a incazzarmi con il mio bimbo di due anni accompagnato da quell'altro idiota.
Erano così carini, in fondo.
Quando Steve rientra, ancora nervoso, continua a fissarmi, mentre aspetta che io ricominci a parlare. Deglutisco, prima di confessare i miei peccati confessabili.
«Avevi ragione.» ammetto. «Quando, ieri, ho visto Elias entrare con quella bionda, non sono più riuscita a controllarmi.» Cambia espressione, l'agitazione si trasforma in qualcosa di diverso che non riesco a capire. «Non voglio niente da te, e ho sbagliato a lasciartelo credere.»
Tira fuori aria dal naso, butta la testa all'indietro, mentre chiude gli occhi e un sorriso sarcastico appare sulle sue labbra.
«Mi hai preso per il culo.» dice non appena riapre gli occhi, puntandoli su di me con aria seria.
«Non l'ho fatto di proposito, ma non voglio giustificarmi.» Non potrei farlo, non sono nella posizione di dire o commettere altre cazzate con lui. «Io sono innamorata di Elias. Ho tentato di tutto per nasconderlo, anche a me stessa.» Porta le mani al viso, come se, le parole che escono dalla mia bocca, siano solo blasfemia. «Mi sono avvicinata a te, per allontanarmi da lui e sono la prima a condannarmi, per questo.»
Avvicino le mani al petto, mortificata. So benissimo di aver fatto una stronzata, non so cosa mi abbia portato a usare una persona che non c'entra niente, per raggiungere il mio scopo, ma sono consapevole dei miei sbagli.
«Non puoi provare davvero dei sentimenti per quello lì.» Alza il tono della voce, stringendo la tovaglia in un pugno. «Dopo tutto quello che-» Le sue parole si bloccano in gola, mentre si copre il viso con la mano.
«Continua!» Il mio è un vero e proprio ordine che esce instintivo. «Dopo tutto quello che? Parla, ora.»
«So tutto, Dafne. Lara mi ha raccontato ogni cosa.» confessa, allungandosi sulla sedia, come se si fosse tolto un peso di dosso.
«Con quale diritto lo ha fatto?» domando più a me stessa che a lui.
«Aveva avuto una discussione con Elias, al Mor. Aveva solo bisogno di sfogarsi.» La giustifica. «Non puoi davvero prendertela per questo. Ha ragione lei.»
«Dimentica quello che ti ha raccontato Lara.» dico, stringendomi nelle spalle. «Era una versione distorta della realtà.»
«In che senso?» Si attenziona sull'argomento e lo vedo sgranare gli occhi.
«Abbiamo parlato, lui non ha colpe.»
«Certo, è facile credere a un manipolare.» dice sarcastico. «E tu te la sei bevuta, da brava asservita.»
Mi irrigidisco, perché, quello che dice, esce dalla bocca di un uomo che sta parlando senza sapere le cose.
«Be', anche se non gli avessi creduto, Matt ha confessato subito dopo.» Ora è lui a inasprirsi, lo vedo dalle spalle tese e dal sorriso sornione che mostra tra le labbra. «Senti, Steve, sei carino a preoccuparti per me.» Porto il discorso su un'altra piega. Non voglio addentrarmi in cose che non dovrebbe conoscere. «Non ce n'è bisogno, credimi. Elias è una brava persona.»
Quel sorriso si allarga in uno di derisione che mi colpisce in pieno petto.
«Ti ama, Dafne?» chede in una domanda che non aspetta risposta. «Ti ama così tanto da spargere il suo seme in giro per Manhattan.» Il suo tono ha tutta l'aria di uno di quelli che ha intenzione di ferire, senza preoccuparsi quale organo venga colpito.
«Stai delirando.» Digrigno tra i denti.
«Melissa è incinta, Dafne.» Il cuore è quello che ha deciso di trafiggere. «È scappato da lei e, ora, rincorre te per non assumersi le sue responsabilità.»
Lo ha preso quel cuore, non lo ha infilzato. Ha infilato la mano dentro il petto, estirpandolo. Lo tiene tra le dita che sanguinano, insieme ai battiti che regge tra le mani, ma non gliene importa niente. Non gli frega di come mi sta distruggendo; lento, crudele, come quel sorriso che mostra, mentre stringe le sue dita per ridurlo in polvere.
E lui mi vede. Lo sta vedendo che soffoco tra quelle parole che mi vogliono morta.
Allunga la mano per lasciarmi una carezza che non ho intenzione di cogliere, perché sembra una lama affilata che vuole darmi il colpo di grazia.
Ritraggo il braccio in una smorfia di dolore, quello che mi sta distruggendo dentro.
«Cos'hai, piccola?» Sento il tono canzonatorio e vorrei solo mandarlo a quel paese.
«Ti ho detto...», dico in una pausa che cerca di fare intendere meglio ogni parola, «di non chiamarmi piccola.»
Striscio la sedia sul pavimento, per alzarmi e andare via da quel tavolo che brucia come le fiamme dell'inferno. Raggiungo l'uscita, senza fare caso alla gente che assiste a questo triste spettacolo. Se stanno guardando o meno non m'importa, in questo momento.
Fuori dal ristorante, il fresco mi colpisce addosso, provo a stringermi nel cappotto, ma ricordo di averlo lasciato nel locale.
Cazzo, io non ci ritorno lì dentro.
Sento suonare il campanellino che avvisa dell'apertura della porta. Steve mi ha raggiunta, stringe nelle mani la mia giacca, come una specie di trofeo.
«Se vuoi scaricarmi, almeno copriti, prima.» Mi sbeffeggia, ancora una volta. «Dafne, ti prego.» dice, avvicinandosi per poggiare il cappotto sulle mie spalle. «Devi perdonarmi. Ero davvero arrabbiato e non ho pensato che stavo ferendo te per proteggere me.» Lascio che il cappotto mi riscaldi, ma non mi sembra che Steve abbia intenzione di togliere quelle braccia che mi stringono insieme al tessuto.
«Toglile quelle cazzo di mani di dosso.» La voce di Elias riempie la strada, sbuca dal vicolo all'angolo, porta l'uomo che mi sta abbracciando, a mollare la presa di colpo.
Si gira, l'osserva con aria di minaccia, mentre io rimango bloccata nel vedere quella scena.
«Pensi di farmi paura, Elias?» domanda.
«Certo che no», risponde, avvicinandosi a un centimetro dal suo volto, «ma aspettami al varco, sarà lì che ti cacherai nelle mutande, piccolo.» Le sue parole provocano un brivido all'uomo.
Lo riesco a vedere dalla pelle d'oca che gli passa sul collo. Alza la spalla per cacciarla e mandarla altrove, prima che Elias se ne accorga.
Jonathan appare dallo stesso angolo dal quale è uscito anche l'amico. Si avvicina ai due uomini, spaventato, Elias alza un braccio per comandargli di fermarsi, ma non stacca gli occhi da quell'uomo che ha appena minacciato.
«Con quale diritto mi dici di non toccarla?»
«Oh, nessuno, Steve. Ma è la mia cazzo di ragazza e non gradisco altre mani addosso, oltre le mie.» sussurra, digrignando i denti.
Ed è qui, proprio in questo momento, che la rabbia mi sorprende e mi porta a sputare parole confuse.
«Perche, Elias?» urlo in una morsa che mi opprime dall'interno, bloccandomi il fiato. «Io e te stiamo insieme?» domando, fuori di me. «Melissa è incinta!» Jonathan indietreggia di qualche passo, mentre Elias lascia andare Steve, come se si fosse accorto solo ora della mia presenza. «Ti devi assumere le tue le tue responsabilità e lasciarmi andare, stronzo.»
Lo afferro dai lati del giubbino di pelle e inizio a scuoterlo.
«Dafne, calmati!» Segue il mio tono, alzando le mani in segno di resa. «Stanno mentendo, entrambi.»
«Ah sì?» Steve toglie dal portafogli un pezzo di carta.
Lo strappo dalle sue mani, e inizio a controllare quel foglio riga per riga, senza tralasciare neanche una lettera.
È un documento, timbrato e firmato da una certa
Dottoressa Sallivan che conferma la gravidanza di Melissa.
Un piccolo particolare non passa inosservato.
Sul timbro si legge chiaramente:
Dottoressa Vanessa Sallivan
Ginecologia
8 Rue de la Gaité, 75014 Paris, Francia.
Parigi?
Elias, sta controllando con me il foglio e, anche a lui non sfugge quel dettaglio.
«Melissa ha soldi da buttare?» domanda. «Chi arriva fino a Parigi per una semplice visita ginecologica?»
«Era depressa, dopo la tua aggressione in quel caffè.» Puntualizza Steve. «È andata a trovare la sua famiglia in Francia e ha avuto un malore. Ha fatto una visita di controllo e...» fa una pausa che vuole sottolineare il suo disgusto, «tanti cari auguri, Elias, è un maschietto.»
Non avrei mai pensato che una notizia così bella potesse diventare la mia tomba personale.
Elias diventerà padre ma, la madre di suo figlio, non sarò io. Solo ora capisco quanto avrei desiderato stringere tra le braccia il nostro bambino, mentre ci riscalda l'anima con il suo primo sorriso.
Continuo a tenere quei dannati fogli tra le dita che tremano. Riesco a pensare solo alla parola che leggo a ripetizione. Vorrei averla letta male, forse spero che, se non sposto lo sguardo, possa cambiare, ma non è così.
Incinta.
Incinta.
Incinta.
Mi rimbomba in testa, come se me lo stessero urlando da dentro lo stomaco, arriva fino al cuore e lo spezza.
Mi avvicino all'uomo che ha combinato questo casino assurdo per sputargli in faccia ogni parola che penso in questo momento.
«Mi fai schifo, Elias!» Quasi lesiono i palmi, a causa della forza con la quale stringo ancora la carta per sbattergliela in faccia. «Questa è la prova di quanto sei stronzo.» Agito il braccio che stringe quei documenti. Jonathan mi afferra da dietro e mi tiene bloccata, per calmarmi. «Tu lo sapevi e non mi hai detto niente. Per questo l'hai lasciata e sei venuto da me? Per scappare dalla responsabilità di questo bambino?» Non voglio una reale risposta. «Sei un bastardo!»
«No, non lo sono, Dafne!» dice, cercando di mantenere la calma. «Se vuoi che lo diventi, continua pure a non credermi.»
Scuoto la testa, non posso pensare che non tenti neanche di giustificarsi per il suo comportamento.
«Oh, fai quello che vuoi, Elias», Allungo le distanze, arretrando di qualche passo, «ma prenditi cura di quel bambino e di sua madre.»
Sputa aria dal naso e sorride incredulo.
Tutto quello che abbiamo già passato è servito solo a farci più male di ieri.
«Non ci incontreremo mai, vero, Dafne?»
Lo avevamo fatto, ci eravamo incontrati. Abbiamo fatto l'amore ed è stato come impazzire, prima di morire, come raggiungere il paradiso per poi essere catapultati all'inferno, di nuovo, come ogni santissima volta che proviamo a stare insieme, ad essere felici. Io con te, tu con me.
«Andiamo, Steve.» Non dovrei andare via con lui, ma in questo momento non riesco a ragionare con lucidità. «Qui non è più il mio posto» sussurro, mentre mi sorreggo dal braccio dell'uomo.
«Dafne, non farlo, dopo sarà troppo tardi per tornare indietro.» Mi dà un avvertimento che ha tutta l'aria di essere l'ultimo.
«È già troppo tardi.» rispondo, prima di voltarmi e andare lontana da quell'uomo che non fa altro che dare e togliere, senza pietà.
Mentre raggiungiamo la macchina, scivolo con lo sguardo verso Steve. Ha tutta l'aria di essere orgoglioso di ciò che ha fatto. O forse è solo una mia impressione, influenzata da tutto ciò che è successo.
«Dafne, mi spiace davvero che tu abbia dovuto scoprire tutto così, ma era necessario. Dovevi aprire gli occhi» dice in un goffo tentativo di consolarmi.
«Hai ragione, non preoccuparti.» Le maschere devono cadere prima o poi. È vero, fa male scoprire che le persone a cui ti leghi sono in realtà delle fottute stronze. «Preferisco una verità che uccide, piuttosto di una bugia che illude. Non è così che si dice?»
«Sì, piccola, è proprio così.» dice tronfio. «Vedrai che, quando il dolore sarà solo un lontano ricordo, riuscirai a trarne il buono, da questa esperienza.»
Annuisco, pensando a quello che già mi ha lasciato tutto questo teatrino.
«Puoi accompagnarmi alla casa di moda?» Ho bisogno di trovare Hellin e parlare con lei.
«Ti accompagno dove vuoi, non c'è bisogno di chiedere.»
Entro in macchina, non riesco ad abbassare lo sguardo, continuo a puntare gli occhi sull'espressione di Steve ed è tutto fuorché rassicurante. Passiamo il tempo del viaggio in completo silenzio.
Mi lascia sotto il palazzo, facendomi promettere di farmi sentire quanto prima, per aggiornarlo sul mio umore.
Nel mio ufficio riesco a distendere i nervi. Sono così agitata che spaccherei tutto. Digito isterica, sui tasti del computer, la password per accedervi. In questa stanza riesco a sentirmi un po' come a casa.
Hellin ha voluto l'arredassi a mio gusto. Non me lo sono fatta ripetere due volte. Ho fatto togliere le tende che coprivano il grande finestrone da dove la sera si possono scorgere le mie amate stelle. Ho fatto ridipingere la stanza color carta da zucchero. Cornici nere contornano quadri astratti di vari colori. La scrivania bianca con i bordi scuri vicino al finestrone e una maestosa poltrona confortevole dietro di essa, dello stesso colore. Due grosse piantane tondeggianti ai lati. Un peloso tappeto caldo sotto un divano che fa angolo, sulla sinistra. Mi alzo dal tavolo e vado a stendermi su quella matassa morbida che mi aspetta sul pavimento. Sono arrabbiata e confusa, ma allo stesso tempo consapevole.
«Dafne?» Hellin si affaccia sulla soglia con il suo solito fare premuroso. «Bambina, cosa ti succede? Chi dobbiamo uccidere, questa volta?» Mi vede distesa sul tappeto e viene a sedersi accanto.
«Lo stesso cretino che abbiamo graziato l'ultima» La voce esce dura, ma cerco di mostrare un sorriso.
«Oh, santissimo Elias! Cos'ha combinato adesso?»
Le mostro il foglio stracciato che avevo conservato quando nessuno guardava.
La donna ha un sussulto, non appena capisce cosa c'è scritto su quel foglio. Stringe gli occhi in due fessure, sulla carta spiegazzata e rimane incredula.
«Capisci, Hellin? Si è fatto incastrare.»
«Sì, ma non nel senso che credi tu.» risponde, posando il foglio sul pavimento.
«E invece è proprio come credo.»
«No, non è possibile, fidati!» dice a denti stretti, mentre mi guarda con gli occhi lucidi. «La prossima settimana andrò a Parigi per lavoro e tu verrai con me, questa volta.»
«Bene, avrò bisogno di compagnia, perché sarei andata ugualmente.» sottolineo.
«Elias non deve assolutamente saperlo, promettimelo.»
«Non credo di avere altra scelta.» Rispondo rassegnata.
«Ora, raccontami per filo e per segno come sono andate le cose, bambina.»
La prendo in parola e racconto tutto, ma proprio tutto, dall'inizio di questa storia fatta di crudeli bugie.
Le racconto di come volessi frequentare il campus fondato da mia nonna, per cercare di creare un legame con qualcuno che non avrei mai conosciuto.
Di come mi sono innamorata di Elias e della sua gentilezza.
Di come mi sono sentita quando ho creduto che lui fosse innamorato di un'altra. Di quanto fossi stata ingenua a non capire che quell'altra ero io.
Le racconto della violenza.
Passiamo molto tempo a parlare, raccogliendo qualche lacrima. Mi ritrovo poggiata sul suo petto ad ascoltare il battito accelerato del cuore, mentre le racconto di come mi sia fatta manipolare da una persona che credevo provasse qualcosa per me.
«Ti va di dormire a casa mia, questa notte? Non mi va di lasciarti così.»
Non lo so perché, ma è l'unica cosa che mi va di fare.
🎭🎭🎭🎭🎭🎭🎭🎭🎭🎭🎭
Il giardino della villa di Hellin è un'ampia distesa di gelsomini, viole, camelie, ortensie e tanti altri fiori che non conosco.
Il vialetto illuminato da lampioni di una luce tenue, prosegue fino all'ampia veranda sistemata con un meraviglioso salottino da tè.
Arriviamo sotto il porticato e mi fermo ad aspettare che apra la porta.
Le ho chiesto di fare una piccola chiamata, mentre eravamo in viaggio.
E lui è già qui.
Sta aspettando, cammina avanti e indietro per il salotto, lo riesco a vedere dal finestrone che affaccia sul giardino.
Non appena entriamo, Elias non riesce a nascondere la sorpresa, ma cerca di non darlo a vedere.
«E lei cosa ci fa qui?» chiede rivolto alla donna che, di tutta risposta, sorride sorniona, alzando e abbassando le spalle.
«Ehy, è con me che devi parlare. Ti ho fatto venire io qui.» dico in un tono di rimprovero.
«Ah, sì? Bene, allora posso tornarmene da dove sono venuto.»
«No, tu resti.» Mi avvicino per spingerlo sul divano.
Non uso molta forza, ma lui cade, lo stesso, sul morbido sofà.
«Dimmi, Dafne, dimmi perché non mi hai creduto e spero sia una motivazione plausibile, perché io-» Non lo lascio finire di parlare, gli tappo la bocca con un bacio che gli spezza il fiato e gli fa tirare, allo stesso tempo, un sospiro di sollievo.
Cerco i suoi occhi di ghiaccio, mentre mi appoggio alla fronte e gli solletico la barbetta incolta con un dito.
«Sei un coglione, Elias.» sussurro. «Ti sei fatto fregare, di nuovo, ma io no. Mi è bastato guardare entrambi negli occhi per capire chi stava mentendo.» confesso colpevole.
«Allora perché mi hai fatto credere che mi stavi lasciando, stronza?» chiede con fare canzonatorio.
Perchè dovevo... perché quando il nemico prevede le tue mosse hai già perso, prima ancora d'iniziare la battaglia. Perché non volevo sospettasse che sarei andata alla fonte a pretendere quella verità che ci spetta di diritto. Perché io, senza te, sono niente, ma tu ancora questo non lo sai.
«Facciamo cadere le maschere a questi maledetti stronzi, Elias.»
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