24- Man in Black
Elias
Indietreggio per raggiungere il letto, aspettando che rientri dopo averle lanciato addosso il mio cuore. Mi sento un bambino in trepidante attesa, mentre aspetta dietro l'angolo che Babbo Natale scenda dal camino.
Ma lei è reale ed è bellissima quando si scaraventa di nuovo nel loft e i suoi occhi s'incupiscono nel non trovare subito i miei.
«Ho pensato che avresti potuto sbattermi la porta in faccia se fossi rimasto lì dietro», dico a braccia conserte, seduto sul materasso. «E, di sicuro, non potrei essere andato troppo lontano, visto che in quella cabina armadio non si trova Narnia. Te lo assicuro, ho controllato.»
Ride, mi corre incontro per avvinghiarsi con le gambe al mio busto e divorarmi, ancora una volta, su quelle lenzuola che hanno visto noi due amarci.
«Non l'ho mai negato, perché è tutto vero.» sussurra, e sprofondiamo nelle coperte che ci accolgono. «È vero, sono sempre stata gelosa di chiunque abbia osato sfiorarti, anche solo con il pensiero.» ammette. «Ed è vero che tu sei l'unico che abbia mai amato, che amo e che amerò, fino a quando me lo permetterai.» Forse, ho sempre sperato che tutto questo diventasse reale. Ma quel forse, non è mai stato un forse. «Ti amo dalla prima volta che mi hai sorriso e messo le mani tra i capelli per consolarmi del mio ginocchio sbucciato.»
Ed è proprio in questo momento che riesco a ricordare, quando, per la prima volta, i suoi occhi incontrarono i miei.
Era poco più di una bambina.
Be', lo ero anche io, ma eravamo ancora troppo piccoli per capire che due anni non sono poi così tanto distanti.
Ricordo di quando vidi a terra quella bambina e, per soccorrerla, rischiai di spaccarmi i denti.
Ricordo quando le accarezzai la testa, per consolarla, e di come quel suo sguardo, puro e magnetico, riuscì a farmi sorridere per la prima volta, dopo la scomparsa di mia madre.
È sempre stata lei la mia salvezza. L'amavo quando ancora non credevo di poterlo fare. Dentro di me ho sempre saputo che anche lei prova un sentimento che ci lega, al di là di ogni cosa, ma ho atteso questo "ti amo" per la stessa eternità passata a odiarci.
Ora che lo ascolto, sento di poterlo toccare quasi con mano, come la sua pelle morbida e profumata. Sono, finalmente, a casa, tra le sue braccia.
Le sfilo il vestito, senza alcuna delicatezza.
Ho bisogno di sfiorarla ancora, sentirne il tocco sul mio corpo, imprimerne il profumo sulla pelle e portarlo con me per tutto il giorno. Assaporare i seni nudi , fino a farmi bloccare il respiro e perdere la testa dietro al brivido che ho sentito in quel ti amo.
«Steve ti aspetta.» sussurro, stringendo il labbro inferiore fra i denti.
«Chi?» risponde.
Porta le mani ad afferrare il cazzo e scivola piano, seguendo la scia dei baci che lascia su ogni muscolo dell'addome. S'infrangono all'interno della discesa a forma di V e si fermano sopra l'erezione che non ha smesso di pulsare fra le sue dita roventi. Passa la lingua sopra la punta e sorride, incastrando gli occhi smeraldo nei miei.
«Che si fotta Steve.»
Già, che si fotta, mentre lei fotte me.
Piego la testa all'indietro, quando affonda la bocca sull'uccello e mi logora.
Lei è il mio perché.
Il motivo per il quale apro gli occhi ogni mattina e non ho più paura di affrontare la vita, da quando l'ho incontrata. Perché lei esiste e, anche se abbiamo passato anni a detestarci, è stato il mio gancio, la mia ancora di salvezza.
Ho sentito dire, da qualche parte, che sono tre cose ad accomunare le persone.
L'amore.
Il tempo.
La morte.
Passiamo la vita a desiderare di essere amati e amare, allo stesso modo. Lo sogniamo e non facciamo caso allo scorrere del tempo che attraversa giorni, mesi, anni e altri ancora, fino a quel momento inesorabile che ti porta a chiudere gli occhi, per sempre.
Abbiamo tutti un po' paura della morte, ma io, oggi non ne ho, mentre mi sta uccidendo, portandomi nella mia isola felice.
Risale con le mani, accarezzando le incanalature dei muscoli delle gambe, ne segue ogni linea, le sfiora con le unghie, risale lenta fino ai pettorali, mentre dona un ultimo bacio alla cappella. Sale sul letto; prima un ginocchio, poi l'altro, accanto ai miei fianchi. Sento il cazzo pregare. Una preghiera mistica che richiama la sua passera umida. Con un colpo secco l'affondo, mi sollevo leggermente per incastrare la mano nei suoi capelli e portarla a divorare ogni parte di me con un bacio che rischia di farmi vedere la luce.
Io e lei siamo luce.
Lo siamo solo insieme.
Come due stelle che, da sole, brillano da lontano e non sempre riesci a scorgere.
Ma quando si scontrano, le puoi vedere a occhio nudo, anche se i lampioni della città vorrebbero impedirtelo.
Ecco, io e Dafne, siamo due stelle in collisione. E ora, stiamo esplodendo insieme, in uno scontro di anime che potrebbero raggiungere il paradiso, ma che scelgono di rimanere all'inferno, perché è decisamente più divertente.
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Quella mezz'oretta di ritardo si è trasformata in poco meno di due ore. Tabella di marcia rispettata più del dovuto, a mio parere.
Per quanto mi riguarda, avrei preferito che non lo incontrasse mai più nella vita, ma lavora ancora per Steve e, vederlo, sarebbe comunque necessario.
Questo non m'impedisce di andare nello stesso ristorante, con il mio lettore del labbiale di fiducia. Non riesco a fare a meno di pensare che quell'uomo possa riuscire nel suo intento di allontanarci per sempre. La manipolazione è un gioco sottile, non lo vedi, ma modifica il tuo pensiero e, quando te ne rendi conto, - se te ne rendi conto - è troppo tardi.
Non sono ancora riuscito a vedere quali carte ha da scoprire e, l'unico modo che ho, per capirci qualcosa è quello di essere sempre un passo avanti, fingendo di farne uno indietro.
Ho chiamato Jonathan per dirgli di raggiungermi e mi ha chiesto un solo piccolo favore, al quale non ho potuto dire di no, non mi avrebbe accontentato, altrimenti.
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Aspetto, come un coglione, dietro il palazzo del ristorante. Un sushi bar sulla 90° West street. Un puzzo di pesce stantio mi invade le narici. Sono circondato dai cassonetti dell'immondizia che esce dalla cucina di questo posto
Jonathan è in ritardo, come una perfetta diva di Hollywood. Non mi meraviglia
«Ti pare normale sostare in questa fogna?» Non appena arriva, lo vedo portare le dita al naso per tapparlo, mentre con l'altra mano sventola l'aria per allontanare il cattivo odore.
Ha voluto mi vestissi di nero, con occhiali da sole e cappello borsalino in testa.
«Ti rendi conto che sembriamo John Belushi e Dan Aykroyd in The Blues Brothers, vero, Jo?» domando, mostrandoci attraverso la vetrata che circonda il ristorante.
Avrei dovuto capire che il suo piccolo favore prevedeva il vestirsi in modo identico.
«Ti sbagli!» sghignazza. «Siamo Tommy Lee Jones e Will Smith in Man in Black» dice, indicandoci con un dito. «Io sono J. e tu sei K., ovviamente.»
«In Man in black non avevano il cappello.» Sto iniziando a delirare anche io dietro al mio amico imbecille.
«No, vero, ma fa figo.» Alzo le sopracciglia e lo guardo con un'espressione schifata e incredula, mentre piroetta su sé stesso, orgoglioso di avere avuto un'idea tanto stupida.
Io non ho parole.
«Cioè, fammi capire», continuo a osservarlo perplesso, «credi sul serio che conciati così passeremo inosservati?»
«Non l'ho mai detto», risponde, come se la cosa fosse ovvia, «ma stai sicuro che nessuno ci riconoscerà» Finge di portare una sigaretta a sfiorare le labbra, si gira, inizia camminare, ancheggiando come la più economica delle puttane.
Certo, nessuno lo riconoscerà.
Quando apriamo la porta del sushi bar, non c'è una sola persona che non si sia girata a guardarci, a parte quelle troppo in fondo, per poter vedere l'entrata.
Per fortuna, Dafne e Steve sono seduti proprio da quelle parti.
Chiediamo di poterci accomodare a un tavolo poco distante dall'ingresso e ben nascosto da un pilastro. Non passeremo inosservati, ma non sono così scemo da mettermi in bella mostra.
«Da qui non si vede un cazzo.» Sbatto le mani sulla tovaglia, mentre cerco di affacciarmi da dietro il grande pilastro. Dovrei rimanere con la sedia sulle due gambe posteriori, in perfetto equilibrio, per poterli vedere bene.
J. Non è del mio stesso avviso, però. Chiede al primo cameriere di passaggio, il giornale di oggi e, quando lo porta, sposta la sedia indietro e lo apre, coprendosi la faccia.
«Sul serio sei così cretino?» domando retorico, fissandolo. «Siamo per caso in un film? Non c'è bisogno di tutta questa sceneggiata.»
«Mi stai disturbando, Elias.» Mi rimprovera dietro a quei fogli.
«Dice che non conosceva questo posto, ma che ama il sushi.»
Riesce a leggere sul serio da questa distanza? È proprio vero, tutti i migliori sono matti.
«Ma come cazzo fai?» Non voglio saperlo davvero, l'importante è che lo faccia.
«È felice che le piaccia il posto e bla, bla, bla. Cazzate di questo tipo, insomma» Sposta l'aria con il dorso. «Lei sta dicendo che sarebbe bastato un caffè, senza bisogno di tutto questo sforzo.» Sposta un attimo il giornale dal viso. «Cos'è successo ieri sera?»
«Perché?» Lo osservo perplesso.
È successo il finimondo. Prima ero incazzato, poi deluso. Disperato, felice, triste e poi, felice di nuovo. Sono apparse emozioni nuove che non saprei neanche paragonare ad altre. O forse, non le riconosco, ma come glielo faccio a spiegare?
«Sta dicendo qualcosa che mi ha confuso un po' le idee.» ammette. «Parla di qualcosa che è successa ieri sera. Una proposta. Le cose affrettate, la frequentazione con una palma. Capisci Elias? Con una palma, c'è qualcosa che non va.»
«Sì, tu. J. Concentrati, per favore.» Prego che non faccia l'idiota, perché, per me, è importante capire, per filo e per segno, cosa si stanno dicendo.
Dafne mantiene le distanze. L'ho visto provare, un paio di volte, ad afferargli la mano che lei tiene sul tavolo. Si ritrae, sempre.
«Chi è questo Erik che sta con la torta?» Scuoto la testa e lo fisso rassegnato.
«Lo sapevo, siamo troppo lontani. Stai confondendo le parole» dico nervoso, stringendo le dita in un pugno.
«Oh, cazzo! Si sta alzando, nasconditi.» Impreca, mentre cerca di infilarsi sotto il tavolo, con poco successo.
«Jonathan siamo in incognito, ricordi? Vestiti come J. e K.» rispondo, mostrando prima me e poi lui.
«Io sono J. e tu sei K. Non te lo scordare.»
Steve cammina a passo nervoso verso l'ingresso, non ci nota neanche quando attraversa il nostro lato della sala.
Come si fa a non vederci?
Appena fuori dalla porta sfila un pacco di Winston blu dal taschino, per prendere una sigaretta. La accende, tirandone una boccata a pieni polmoni.
Mi lascio scivolare sulla sedia, confuso, e continuo a osservare ogni più piccolo movimento dell'uomo lì fuori.
Dovrà fare una mossa sbagliata, prima o poi.
«Salve, ragazzi» La voce di Dafne, divertita e stranita, allo stesso tempo, mi fa mancare un battito. «Tu devi essere J.» Guarda Jonathan con sospetto.
«Hai visto, Elias? Io sono J.» dice orgoglioso. «Ha percepito il carisma.»
«Lo ha dedotto dal colore della pelle, imbecille.» Sono sul punto di esplodere, perché ora è me che guarda e vorrei sprofondare nel pavimento, ma non si apre nessun varco.
Mi fissa ancora, e il suo sguardo non è per nulla accomodante. Come predetto, non eravamo poi così irriconoscibili.
Dafne si abbassa, poggiando i gomiti sul tavolo, i miei occhi vanno a finire nella scollatura e ingoio un groppo di saliva. Con l'indice mi solleva il mento, per tentare di attirare la mia attenzione su qualcosa che non siano le tette.
«Mi hai seguito e non ti sei fidato» contesta. «Non voglio neanche conoscerne i motivi. Spero solo tu abbia la decenza di alzarti, prima che Steve ti veda, e aspettarmi nel tuo appartamento.» Il suo sussurro ha tutta l'aria di una minaccia.
Fa un mezzo giro su se stessa, senza aspettare una giustificazione al mio comportamento infantile, e ritorna a sedere al suo posto.
«Uno spara flash cancella memoria sarebbe utile in questo momento.» Jonathan mi guarda preoccupato, ma Dafne ha ragione.
Dobbiamo andare prima che ci veda, anche perché sarei poco credibile vestito come un coglione.
«Appena rientra Steve, cerchiamo di svignarcela. Hai capito, Jo?»
Sembra non darmi retta. È incantato a osservare dall'altra parte della strada un bmw grigio, decappottabile, parcheggiato sul marciapiedi.
Dafne può dimenticarsi che io vada via, ora che ho visto chi c'è fuori dal locale. Sto per raggiungerlo e pestarlo, sporcarmi le mani di sangue, perché la rabbia mi logora da dentro, in sua presenza. Matt non ne ha avute abbastanza. Non ne avrà mai abbastanza. A ogni tiro di sigaretta, spero che Steve lo noti, ma guarda da tutt'altra parte. È distratto da una ragazzina bionda che porta a spasso il suo cagnolino peloso. La osserva e sorride, mentre gli passa davanti.
Dopo aver fumato, l'uomo rientra e raggiunge Dafne al tavolo e noi cerchiamo di farci piccoli e sparire da quel posto. Una volta fuori, mi guardo intorno e la macchina di Matt sembra svanita nel nulla, ma non mi fido. Qualunque cosa faccia quella merda, io non posso fidarmi.
Decido di tornare dietro quel vicolo che sa di marcio.
Matt li sta pedinando e non posso fare finta di nulla.
Le ho voltato le spalle una volta e non accadrà di nuovo. Ora, io ci sono e non mi lascerò manipolare da nessuno.
Meritiamo di amarci come mai prima d'ora. Lo meritiamo davvero, ce lo siamo guadagnati, con le lacrime. Sarà per sempre o per il tempo della vita di una farfalla, ma sarà quanto lo vorremo noi, senza più alcun ostacolo.
Matt è morto, se solo osa toccarla. O io, o lui...
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