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12-Al diavolo, stronza!

Steve

Dovevo portarla via dal ristorante. Avevo notato l'accesa discussione con Elias, da uno dei finestroni che affacciano al parcheggio.

Sono entrato in crisi.

Un forte senso di sconfitta si era impossessato di me.

Ho pensato alla banalissima scusa di un mal di testa improvviso, per poter uscire da quella situazione. Non avevamo neanche finito di cenare.

La luce della luna che passa dal vetro dell'auto, le illumina il viso. È splendida assorta nei suoi pensieri.

Di cosa stavano parlando?

Sapevo che non avrei dovuto lasciare che s'incontrassero, ma sarebbe comunque successo, prima o poi.

«Questo silenzio è preoccupante, piccola.» dico, mentre le afferro una mano. «Un penny per i tuoi pensieri.»

«Mi devi scusare, Steve.» Sembra mortificata sul serio. «Quel ragazzo mi fa uscire fuori di testa.» La capisco. «È così pignolo sul lavoro. Ha sempre qualcosa da dire, da rifare e da spostare.» afferma in tono infastidito, coprendosi gli occhi con con entrambe le mani.

«Da quando Elias disegna abiti?» domando confuso.

Stringo il volante, per scaricare la tensione.

«Elias? No, hai capito male.» Le strappo una risata. «Sta progettando un software di disegno, personalizzato, per Hellin.»

«Quali sono i termini?» Sento aumentare la rabbia, preme sui polsi e sulle mani che afferrano lo sterzo dell'auto in corsa, come se lo volessero fare a pezzi.

Quell'uomo deve prendere le distanze dalla mia relazione, prima di subito.

«Hellin non gli ha dato dei termini precisi, ma spero finisca il prima possibile.»

«Mette a dura prova i tuoi nervi, perché lavorate a stretto contatto?» chiedo.

Mi distraggo un secondo dalla strada per guardarla e lei annuisce, con la testa poggiata al finestrino.

«Non deve starti troppo vicino, Dafne, non lo sopporto.»

Non stiamo neanche insieme, pretendo troppo, forse.

«Abbiamo solo delle piccole divergenze di opinioni.» risponde infastidita. «Non ti facevo così possessivo, Steve.» La vedo con la coda dell'occhio, sposta la testa attaccata al vetro. Mi sta fissando e io faccio finta di nulla, continuo a guardare la strada.

«Confondi la possessività con l'istinto di protezione. Sento di doverti proteggere da ogni tipo di ferita.» Mi giustifico.

«Smettila. Non ho bisogno di controlli. So cavarmela benissimo da sola.» Tiene a puntualizzare.

Ma a me non sta bene. Elias è l'ultima persona che può avvicinarsi a lei.

«Mi spiace, Dafne, non puoi chiedermelo.» Continuo a ribadire. «Dopo la sera in cui sei stata aggredita da Matt, devo mettere dei paletti» Spiego. «Non posso permettere che ti accada qualcosa di male, capisci?»

Sbuffa, incrocia le braccia al petto, sembra una ragazzina alla quale viene negata l'uscita del sabato notte.

«Steve, comprendo la tua preoccupazione, ma sono in grado di badare a me stessa, più o meno.»

«Poteva farti del male, ti rendi conto?»

Mi chiedo quali siano le motivazioni che la spingono a non accettare il mio aiuto, a non accettarmi.

«Sì, ma non sono una bambina. Non puoi allarmarti così, devi stare tranquillo.» No, non riesco a stare tranquillo.

Matt non mi preoccupa più di tanto, posso tenerlo a bada, ma pensare a Elias che le respira vicino mi mette i brividi.

Continuo a guidare verso il suo appartamento, i fari di una macchina che si riflettono sullo specchietto retrovisore, mi distraggono. L'oscurità della sera, non mi permette di inquadrarla per bene. È da un po' di tempo che segue il nostro stesso percorso, però. Sposto lo specchietto in direzione della targa, ma svolta poco prima che riesca a vederla.

Probabilmente, stavamo solo facendo la stessa strada.

Dopo qualche metro, arriviamo  sotto casa di Dafne. Inspiro in modo sonoro, cerco di togliere via la tensione accumulata durante tutto il tempo passato insieme.

Ho bisogno di stare ancora un po' con lei, di sentire il suo profumo, di averla, di farle capire che è con me che deve stare.

Sono l'unico che può offrirle la serenità che tanto desidera.

«Strano, il mio mal di testa è scomparso.» dico, fingendo di esserne sorpreso. «Possiamo anche rimanere un po' in macchina, se ti va. O...» sussurro, mentre cerco la sua mano per portarla in mezzo alle mie gambe «... potremmo salire da te.»

«Perdonami, Steve, ma sono veramente stanca.» ritrae la mano per portarla alla maniglia della portiera. «Non dormo da una settimana e approfitterei dell'orario per riposare.»

«Lavori anche domani?»

«Certo, è Venerdì.»

«Stai piazzando una scusa per liberarti di me?» La prendo in giro, per smorzare il fatto che ci sia rimasto male nell'essere stato liquidato. «Mi spiace, piccola, io non ho intenzione di andare da nessuna parte, ora.»

Sposto i sedili all'indietro, le afferro il braccio per bloccarla. Sussulta, mentre con una mano le accarezzo un seno e con l'altra scendo a sfiorarle la passera da sotto la gonna. Emette un gemito, si contorce, piagnucolando.

«Steve, ti prego, fermati.» dice.

Ma la sua non è una supplica reale, finge, tenta di fare la santarellina.

Quella che prenderei dai capelli per portarla in preghiera sul mio cazzo.

Lei mi desidera.

Non l'ascolto. Le infilo le dita nelle mutandine, l'accarezzo e tiro aria dai denti.

«Apri le cosce, Dafne.» Le tiene serrate e devo forzare per allargarle, ma esegue il mio ordine.

Affonda le unghie nel sedile, mentre le sfilo l'intimo, facendolo scivolare lungo le gambe. Mi sporgo, verso di lei, per abbassarle le bretelle sottili e risucchiare un capezzolo tra le labbra, con la mano continuo a salire fino alla fessura umida. Mi afferra il polso, infilato sotto la gonna, per cercare di spostarlo dalla pelle, ma i miei muscoli si contraggono sotto le sue dita. Mi sposto sull'altro capezzolo e, con la lingua, lo stuzzico, provoco in lei un mugolio di piacere che mi fa impazzire, mentre mi afferra dalla nuca per assicurarsi che non mi fermi. Vorrei strapparle il vestito di dosso, togliere tutti questi freni che sto tenendo, premere sull'accelleratore dell'uccello che pulsa, ancora, dentro i pantaloni.

Strappo via la cintura, abbasso la lampo e lo tiro fuori. La Stringo dai capelli e strattono in modo tale da portarla a scoparmelo con la bocca.

Deve colare a picco tra i miei umori.

Tira indietro la testa, cambia espressione. Non vedo più nessuna eccitazione nei suoi occhi smeraldo.

«Dio, Dafne, io ti voglio.» La mia voce risuona come una preghiera. Non ho mai dovuto supplicare, ho sempre preso ciò che volevo. «Ho bisogno di sentirti godere.» Le dico, mentre stringo in un pugno l'uccello. «Voglio farti desiderare di averne ancora. Di credere di non averne avuto abbastanza di me. Di essere nei tuoi pensieri questa notte, prima di rimboccarti nelle coperte.» Cerco di fare il romantico, di farle capire che è me che vuole.

Nessun altro.

Continua a guardarmi, non emette fiato. Prendo il suo silenzio come fosse un consenso.

Stringo, di nuovo, la mano sulla nuca per trascinarla sull'erezione, ma si tira indietro.

«No, Steve. Basta così. Davvero.» dice perentoria.

Basta così un cazzo!

«Prendilo in bocca e fai meno la puritana.» rispondo.

Non mi sono regolato. Sento la frustrazione impadronirsi del mio corpo in un onda di piacere che mi spinge a prendermi tutto, con la forza.

Ma non posso...

«Steve, ma che ti prende?» domanda, stranita dalle mie parole.

Non è abituata a sentirmi così sporco. Io lo sono, lo sono sempre stato, ma non con lei.

Con Dafne devo fingere e non ci sto riuscendo molto bene, in questo momento.

«È solo sesso, cazzo!» sbotto ormai fuori di me. «Succhiamelo e falla finita!» Mi ha fatto eccitare e ora non ho più il controllo delle azioni, deve prendere provvedimenti, prima che mi scoppino le palle.

Il desiderio di sentirla soffocare sul mio uccello e la sua mancanza di rispetto, mi portano  a non essere il solito Steve.

«Sei una bestia!» afferma, scuotendo la testa, schifata dal mio comportamento irruento.

Sistema il vestito, prima di scendere dall'auto e sbattere lo sportello.

È una macchina da cento mila dollari, troia.

«Perdonami, piccola.» Mi scuso, anche se, in realtà, vorrei solo scendere, rincorrerla e fare in modo che sia mia.

Mia per tutta la notte.
Mia per ogni secondo.
Mia...

Solo mia.

«Non chiamarmi piccola.» dice, voltandosi per un solo secondo, verso il finestrino abbassato.

«Vaffanculo, Dafne!» urlo, prima di mettere in moto e sgommare, per trovare in fretta il modo di avere sollievo.

So dove andare.

Domani le chiederò scusa, forse.

Al diavolo, stronza!

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