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5) Il criminale firmato

L'unico martedì libero della settimana per spedire le poste, la zia Lucrezia era andata a consegnare la sua e all'ufficio spedizioni non si parlava d'altro che dell'omicidio firmato. Chi è stato, com'è successo, il perché la gente se lo chiedeva. La polizia scrupolosamente pattugliava la città, giorno e notte , nell'aspettativa di trovare qualcuno di sospetto o solo anche un brandello di indizio. Il macellaio Ruggiero, un uomo gozzuto e grosso che affettava carne dalla mattina alla sera diceva con quella sua aria sinistra che troppe cose strane succedevano in quella città piccola di Bibury, Rizzo l'imbianchino accusava la sua ex moglie piena si squilibri mentali di essere evasa dal manicomio e aver commesso il misfatto, la vedova Righieri pensava fosse stato il suo defunto marito dall'altro mondo a vendicarsi di tutti i debiti che il notaio gli aveva addebitato e accumulato. Ognuno a Bibury si era fatto il suo personale colpevole in assenza di uno universale ma nessuno secondo me sembrava essere quello giusto. Senza prove né fatti ci si puntava il dito contro e in città, lungo i vecchi marciapiedi grigi che affiancavano i contradditori prati smeraldo, le persone si guardavano dalla testa ai piedi in prospettiva di acciuffare chissà quale notizia. Me ne infischiavo decisamente che a Bibury nessuno si era fatto avanti per l'omicidio del notaio, così visto che le mani mi prudevano a star lì ferme senza muovere un dito avevo deciso azzardatamente e sfacciatamente contro ogni possibile buon senso che mi fossi messa anche da sola sulla scia del criminale firmato. Bibury era bella, da fuori una piccola collina con gli abitanti che si potevano contare su due mani però di voci, su come ognuno si ritirava misteriosamente quando succedevano questi "incidenti" , ne giravano parecchio. Avevo sentito dalla nonna che una donna aveva abbandonato la casa in cui viveva, marito compreso, perché era depressa e ogni tanto prendeva il treno e se ne andava ma indovinate un po'. Quando è tornata a casa si è trovato una pistola puntata alla testa che la aspettava e così si era ritrovata un buco grande quanto una pallottola da 45 calibri conficcata nel cervello. La cosa più brutta e preoccupante di tutte è che non solo il giudice non aveva smosso mezza parola per la vittima, infangando il caso come adulterio, ma che i vicini l'hanno sentita urlare ore prima e nessuno si era degnato di vedere cosa stesse succedendo. Perciò non mi venivano a dire che così andava la vita, che ci sono anche cose brutte oltre quelle belle, perché tante volte il destino è una delle tanti scuse dell'uomo per nascondersi dietro alle sue azioni peggiori.

Tra una scatola e l'altra s'era fatto mezzogiorno ma nella biblioteca non vi era troppo affollamento, se non qualche anziano che si sedeva a leggere. Sfiancata dalla fatica che avevo fatto a sistemare tutti i libri, poggiai la testa sul polso destro e mi accovacciai con la schiena contro il bancone della cassa, osservando quanto fosse bello fuori il tempo che si era schiarito e i raggi penetravano sull'asfalto, asciugando la pioggia rimasta a riempire buche di cemento cedevole. L'occhio mi cadde sulla mostra di un mercante in fiera. Notai precipitosamente questo quadro significativo, struggente, da farmi venire la pelle d'oca. Da lontano si vedeva ben disegnato sulla tela un uomo appeso ad uno steccato con la corda girata al collo, il volto sfocato e gli occhi di fuoco. Decisi di andare fuori e guardare meglio, perché quella scena mi ricordava troppo l'omicidio del notaio, dopo essermi detta che probabilmente ero stata troppo scossa da quel traumatico caso e che tutto ciò che osservavo sembrava deformarsi in esso, mi convinsi che era solo il mio inconscio a trasfigurare il teatro macabro, visto quell'assolato pomeriggio nella piazza. Eppure mi parve così reale e talmente vivido che quasi lo taccavo quel quadro, quasi ci finivo dentro ma a volte le illusioni erano peggio di tante realtà che avremmo potuto immaginare. Il mercante che mi aveva vista inchiodata là e scorrere con le dita i personaggi, mi chiese qualcosa che per quanto fossi concentrata non mi sforzai di capire.

"Vuole il quadro? Glielo posso fare la metà del prezzo"- disse il mercante, già pronto a mostrarmi la sua abilità di contrattare pur di venderlo, quel quadro.

" No grazie, stavo solo vedendo una cosa"- risposi. Si, una cosa la stavo vedendo e la stavo anche pensando ma quello che frullava vertiginosamente nella mia contorta testa era troppo impossibile per essere vera.

Alzai la suola dei mocassini neri che indossavo e feci per andarmene, con l'idea che nessuno avrebbe potuto essere così perverso da incorniciare la scena di un omicidio e darla ad un mercante per poi venderla. Una voce signorile e composta pronunciò il mio nome in modo elegantemente raffinato, sentì dei tacchi picchiettare sul suolo decadente della strada e il ciondolo di una borsa suonare armonicamente insieme ad essi. Guardai avanti e una figura femminile ben vestita mi raggiunse da lontano, i capelli biondi raccolti in una coda le disegnavano bene il viso, sotto un cappello di raso porpora. Non riuscii inizialmente a vederla bene da lontano che mi apparse sinceramente poco nitida . Si avvicinava sempre di più attenta a non perdere nulla di tutto ciò che si portava dietro e soprattutto a cercare di non infilare il tacco a spillo in una delle pozzanghere traboccanti di fango melmoso.

" Jessica sei proprio tu?"- la guardai ma mi sembrò ad un primo impatto diversa dall'ultima volta, proprio cambiata da quella bambina che giocava con me a collane di fiori, mostrando ora con il vestito incredibilmente stretto la donna adulta che era diventata.

" Si non mi dire che non mi riconosci più" - disse e facendomi una risata nervosamente fastidiosa. Era sempre stata piena di umorismo con il suo fare esuberante e a volte terribilmente intromettente. Da piccola parlava a sproposito ripetendo innocentemente e insistentemente tutto quello che ascoltava, rammentavo di quando era andata a dire al povero nonno Ben , il marito della zia Lucrezia, che le donne rimanevano incinte perché erano prostitute, non sapendo neanche il significato di quello che diceva, che era incredibilmente ridicolo, così scoppiammo tutti a dover esibire una risata di circostanza smorzando l'inadeguatezza della frase.

" Ma certo, si mi ricordo, Jessica come potrei dimenticarti"- risposi, inghiottendo la verità che mi ero fatta scivolare fin giù per terra, fino a calpestarla, mostrandole la strada per entrare in biblioteca.

" Ma guarda hai preso la famigerata biblioteca di tua zia"- felice si girava intorno, con gli occhi commossi guardava gli scaffali e in uno di questi c'era Dylan che sistemava dei vecchi scatoloni in cima al ripostiglio e non si era proprio accorto della donna poggiata sensualmente al bancone della cassa.

" E lui chi è?- mi chiese Jessica che senza perdere tempo aveva notato Dylan a diversi metri da noi. Piuttosto curiosa mi rivolse lo sguardo, sedendosi sulla sedia pieghevole, girando le gambe verso di me e aspettando impertinentemente una risposta.

" È il nipote di mia zia Lucrezia e guarda caso la biblioteca l'ha affidata ad entrambi"- risposi ,con la faccia contrariata, esprimendo il mio dissenso per quella scelta così fuori luogo che anche sforzandomi, non avrei potuto capire. Le parole mi uscirono a fiume dalla bocca, trapelando il mio giusto sentimento di rancore per il semplice fatto che la biblioteca avrebbe dovuto essermi pienamente affidata.

" Ah ma è il famoso Conte di Cardiff venuto dalla California ..." disse con occhi da cerbiatta, Jessica squadrò Dylan e mi guardava piuttosto estasiata. "Però devi ammettere che è affascinante"- continuò, ammiccandomi in quel suo strano e buffo modo, puntando il dito verso di lui e invitandomi a guardare.

" Sei proprio sulla strada sbagliata, io e Dylan non riusciamo a mettere quattro parole continue insieme da non cadere nella tentazione di iniziare una grossa litigata. E poi mi fa proprio impazzire quel suo modo saccente e arrogante che usa per contraddirmi ogni volta che apro bocca..." -risposi diretta e coincisa.

" Si...anche a me fa proprio impazzire, se dessi solo un po' più ascolto a me stessa"- mi rispose divertita, riprendendo alcune delle mie parole per esprimere chissà quale sua malsana idea recondita. Con questa sua invadente uscita mi fece supporre che Dylan le piaceva ed ero quasi infastidita dal suo atteggiamento insistentemente eccentrico ma d'altronde era sempre stata così magneticamente esuberante.

" Non esiste.Cosa dici...abbassa la voce, qui si sente l'eco dappertutto" - la zittii prima che avesse potuto dire altre cose e nella speranza che Dylan non avesse ascoltato nulla.

" Va bene...va bene la smetto.."- esclamò facendo un sospiro pensieroso ma eccola che subito ricominciò dopo un solo minuto di quiete.. "sai Page voglio dirti una cosa e te la dico seriamente, non sempre siamo pronti alle cose che ci capitano proprio perché queste ci capitano all'improvviso...ma se aspettiamo il tempo giusto forse non arriverà mai...a volte bisogna solo cogliere le opportunità e stare a vedere comunque ora è tardi ed io devo andare, ci vediamo presto" - disse, mi salutò con due baci stampati sulle guance, prese la borsa sul bancone ed uscii dalla porta principale. Per la prima volta avevo visto una Jessica che parlava di altro che non erano borse e vestiti, questo suo lato quasi di rammarico o provvidentemente maturo non l'aveva mai avuto fino ad oggi e ora era lì a darmi consigli come una di quelle donne vissute almeno cent'anni. Mi aveva fatto piacere rivederla ma le sue parole si rivelavano un po' la spina del fianco che volutamente mi conficcò per farmici pensare su. In linea generale mi stava avvertendo, mi stava dicendo di non essere sempre così trattenuta, prudente e soprattutto previdente. Vivevo in vista del domani e non dell'oggi, era questo il mio grande sbaglio, preoccuparmi troppo di ciò che sarebbe potuto essere e non di ciò che era ma con Dylan c'era solo da restargli alla larga.

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