Chào các bạn! Vì nhiều lý do từ nay Truyen2U chính thức đổi tên là Truyen247.Pro. Mong các bạn tiếp tục ủng hộ truy cập tên miền mới này nhé! Mãi yêu... ♥

𝑳𝒐 𝑺𝒑𝒂𝒛𝒛𝒊𝒏𝒐

La notte era calata su Hope Town, avvolgendo con le sue braccia le mura imponenti e le recinzioni di filo spinato. Le torrette delle mura, le quali circondavano l'intera città, illuminavano il perimetro con fasci di luce fredda, occhi metallici che setacciavano il nulla in cerca di movimento. Il vento, gelido e tagliente, portava con sé l'odore aspro del sangue rappreso e della carne marcescente, continuando a fungere da monito del mondo oltre le mura.

Shoshanna si muoveva tra i resti accatastati contro le barriere, il passo lento ma costante. I suoi occhi erano focalizzati sulla pistola che giaceva a pochi passi da lei, con il metallo opaco macchiato da schizzi secchi di sangue violaceo.

Shoshanna si chinò per raccoglierla con le mani guantate. Avvicinò l'arma al volto, coperto quasi interamente da strati di stoffa e un cappello con la visiera. Solo gli occhi erano visibili, e uno di questi aveva la sclera arrossata, l'iride violetta e opaca, priva di vita eppure piena di un'intensità che incuteva disagio. I capelli, raccolti in una treccia stretta, sparivano sotto il cappello, nascondendo i ciuffi malati come un segreto troppo pericoloso da mostrare. Il suo abbigliamento era pesante, ma non per proteggersi dal freddo. Ogni strato era un confine tra lei e gli altri, una barriera che mascherava ciò che il mondo preferiva non vedere.

Shoshanna si rialzò lentamente, tenendo la pistola ancora tra le mani. Con uno sguardo esperto, valutò se fosse utilizzabile o destinata a essere smontata per parti. Era abituata a quel lavoro solitario, alla compagnia muta degli oggetti e dei morti. Gli unici suoni erano il calpestio delle sue scarpe sulla terra dura e il ronzio delle luci delle torrette sopra di lei.

Un suono improvviso spezzò il silenzio. Un lamento basso e rauco, accompagnato da un rumore strisciante. Shoshanna si voltò lentamente e i suoi occhi si posarono su un Violante privo delle gambe, probabilmente amputate da un'esplosione, che avanzava nella sua direzione. Il suo corpo si trascinava sul terreno, lasciando una scia di terra e sangue rappreso dietro di sé.

L'essere sembrava aver percepito il suono dei passi di Shoshanna, ma non mostrava alcuna intenzione di attaccarla. Le passò accanto, senza nemmeno degnarla di uno sguardo. Shoshanna rimase immobile, osservando il corpo strisciare verso le recinzioni di filo spinato. Un sospiro le sfuggì dalle labbra, soffocato sotto gli strati che coprivano il suo volto.

Abbassò lo sguardo sulla pistola che stringeva tra le mani guantate. Con gesti misurati, sfilò il caricatore. Due proiettili. Non molti, ma sufficienti per il necessario. Rimise il caricatore al suo posto con un clic secco, e poi sollevò l'arma. La puntò verso il Violante, mirandone la nuca.

Non ci fu esitazione. Shoshanna premette il grilletto.

Il colpo riecheggiò nell'aria, un rombo che sembrò scuotere le mura silenziose davanti a lei. Il proiettile colpì il bersaglio con precisione, perforando il cranio della creatura e interrompendo ogni suo movimento. Il Violante si accasciò sul terreno con un tonfo sordo, immobile e improvvisamente silenzioso.

Shoshanna abbassò lentamente l'arma, gli occhi fissi sul cadavere. Il silenzio tornò ad avvolgerla, ma dentro di lei i pensieri iniziarono a diventare fastidiosi e assordanti come le mosche che ronzavano sui cadaveri. Erano gli stessi pensieri che cercava di seppellire ogni giorno, ma che tornavano sempre, più forti di prima.

La linea che separava lei e il Violante ai suoi piedi sembrava così sottile. Quanto tempo le restava prima che la sua stessa condizione si evolvesse, prima che il virus silenzioso che portava dentro di sé reclamasse tutto ciò che era? Un giorno avrebbe perso il controllo, come tutti gli altri, e sarebbe stata ridotta a un corpo senza volontà e senza coscienza. Un giorno qualcuno avrebbe dovuto fare ciò che lei aveva appena fatto.

Un brivido le percorse la schiena. La pistola era ancora nella sua mano, pesante come un macigno. Senza pensarci, la sollevò lentamente, portandola sempre più vicino al volto. Aveva ancora un colpo. Uno solo.

Poteva farla finita. Poteva risparmiarsi la lenta discesa nell'oblio, la certezza che un giorno avrebbe perso se stessa. Doveva solo premere il grilletto.

Shoshanna rimase lì, immobile, con la canna della pistola che sfiorava il bordo del cappello. Il dito tremava leggermente sul grilletto.

"Ehi, zombie!"

La voce squarciò l'aria come una frustata, rimbalzando tra i muri e le recinzioni. Shoshanna sussultò, quasi lasciando cadere la pistola. Con un movimento brusco, nascose l'arma dietro di sé, il cuore che le batteva furiosamente nel petto. Avevano visto? Qualcuno l'aveva vista? Si voltò di scatto e i suoi occhi incrociarono la figura esile di Pierce, il suo datore di lavoro.

L'uomo era in piedi oltre la recinzione, il suo volto magro e spigoloso contorto in un'espressione che sembrava odiare tutto e tutti. Portava un cappotto troppo largo per il suo corpo scheletrico e un berretto malconcio calato sulla fronte.

"Ehi, zombie!" ripeté, la voce intrisa di sarcasmo e rabbia.

Pierce non aveva mai nascosto il disgusto che provava per Shoshanna. Per lui non era altro che una Violante, o, con più disprezzo, zombie. Mezzo viva o no, era un abominio, qualcosa che tollerava solo per il proprio tornaconto. Finché lei lavorava al posto suo, lui poteva restare al sicuro, lontano dalla possibilità di un morso.

"Spero che tu non stia giocando con quella," continuò, facendo un cenno verso la pistola che aveva intravisto un attimo prima. "Non ti pago per stare lì imbambolata. Hai ancora abbastanza sale in zucca per lavorare, no?"

Shoshanna non rispose. Le parole rimasero sepolte in gola, troppo pesanti per uscire. Non poteva permettersi di ribattere. Quel lavoro era tutto ciò che aveva, l'unico modo per sopravvivere in quella città che non la voleva.

Pierce sbuffò, scuotendo la testa come se fosse una tragedia personale doverla sopportare. Borbottò qualcosa tra sé, una serie di insulti o lamentele che si persero nel vento. Poi fece un cenno con la mano, ordinandole di avvicinarsi.

"Beh, continuerai dopo," disse, con un tono che non ammetteva repliche.

Shoshanna spalancò gli occhi, sorpresa, e per un istante i suoi muscoli si irrigidirono. Fu tentata di sollevare lo sguardo per fissarlo, ma si fermò subito. Nessuno voleva incrociare il suo sguardo. Era troppo spaventoso.

"Posso tornare subito al lavoro, signore," mormorò infine, abbassando la testa.

"Dopo," ribatté Pierce, il tono ancora acido. "Prima devi venire dentro. Hai visite."

Visite.

La parola le scivolò addosso come un colpo improvviso. Shoshanna rimase immobile, il cervello che cercava di processare il significato di quelle parole. Visite? Nessuno veniva mai a trovarla. Nessuno sapeva della sua esistenza, tranne quelli che erano costretti a incrociarla nei bassifondi, quando tornava a casa o si dirigeva al lavoro.

Chi poteva cercarla? E perché?

"E muoviti!" la voce di Pierce graffiò l'aria, accompagnata da un colpo contro la recinzione. Il metallo vibrò con un suono acuto e inquietante, insinuandosi nella pelle di Shoshanna. "Non ho tutto il giorno! Ogni minuto che perdi a gingillarti ti costa un bel pezzo della paga."

Shoshanna spalancò gli occhi e si mosse in fretta, i pensieri agitati quanto i suoi passi. L'idea di vedere la sua già misera paga ridursi ulteriormente era insostenibile. Stringendo il sacco degli oggetti riutilizzabili, si avvicinò alla recinzione e, con movimenti bruschi ma veloci, infilò la pistola all'interno, aggiungendola ai rottami metallici e agli altri oggetti raccolti.

Con il respiro appena udibile sotto lo strato di stoffa che le copriva il viso, Shoshanna attese mentre uno degli addetti apriva il pesante cancello. Le serrature cigolarono. Era un suono familiare eppure sempre carico di tensione. Una volta dentro, Shoshanna posò il sacco appena oltre la soglia, il cuore che batteva più forte di quanto avrebbe voluto.

Pierce la squadrò con un'occhiata di puro fastidio, poi sbuffò rumorosamente. "Seguimi."

L'uomo si mosse, e Shoshanna lo seguì in silenzio, mantenendo la giusta distanza. Le mura interne erano claustrofobiche, una sequenza interminabile di corridoi stretti e umidi. Lei li conosceva bene, ogni angolo, ogni curva, ma questa volta Pierce imboccò una direzione diversa, svoltando in una sezione a cui Shoshanna non aveva mai avuto accesso.

Alla fine si fermò davanti a una porta nera. Alta, massiccia, sembrava più un muro che un ingresso. Il metallo lucido rifletteva appena la luce pallida delle lampade al soffitto. Pierce infilò una chiave nella serratura, provocando un rumore metallico a ogni movimento.

Dopo qualche giro, la porta si aprì con uno scricchiolio pesante, rivelando un altro corridoio. Era più largo, illuminato meglio, con una fila di porte che si alternavano su entrambi i lati. Shoshanna sbirciò oltre, la curiosità trattenuta solo dalla paura. Non aveva mai messo piede lì.

Pierce si voltò verso di lei, il disprezzo che gli increspava la bocca. "Terza porta a destra. Dieci minuti, non uno di più," sbottò, agitando una mano come per scacciarla. "Li conterò, perciò ti conviene finire in tempo."

Detto questo, si girò e si allontanò, lasciandola sola davanti al corridoio sconosciuto.

Shoshanna rimase immobile per alcuni istanti, il corpo rigido come se la soglia davanti a lei fosse un ostacolo insormontabile. Le parole di Pierce, però, le rimbombarono nella mente, una minaccia che non poteva ignorare. Allora con un sospiro tremante, fece un passo avanti e iniziò a contare le porte con il cuore che batteva più forte a ogni passo. Quando arrivò alla terza, si fermò.

Non c'era alcuna maniglia.

La osservò per qualche istante. Il metallo della porta sembrava più freddo e imponente da vicino, una barriera impenetrabile. Incerta, sollevò una mano e bussò. Il suono fu appena percettibile, come se temesse di disturbare qualcosa.

Non ebbe il tempo di pentirsi del gesto.

La porta si aprì all'istante, un movimento lento e pesante, simile a quello di un meccanismo antico che si metteva in moto dopo un lungo riposo. Shoshanna trattenne il fiato. Per un momento ebbe la sensazione che fosse stata la porta stessa ad aspettare il suo arrivo.

Un uomo apparve sul ciglio, coperto dalla testa ai piedi da una divisa scura, il volto nascosto dietro una maschera e occhiali neri che riflettevano la luce. I suoi occhi, invisibili, sembravano comunque puntati su di lei. Fece un passo di lato, un gesto silenzioso ma eloquente, invitandola a entrare.

Shoshanna chinò il capo per nascondere il viso, un riflesso che non riusciva a reprimere, e avanzò. L'interno della stanza era freddo e spoglio, il suono dei suoi passi riecheggiava contro le pareti vuote. Appena superata la soglia, la porta si chiuse dietro di lei con un tonfo sordo.

Shoshanna si voltò di scatto, il cuore che accelerava. L'uomo della porta era sparito. Rimase per qualche istante a fissare il metallo immobile, come se sperasse di trovarlo ancora lì, ma non c'era più nessuno.

Quando si girò di nuovo, vide seduto, proprio di fronte a lei, un uomo robusto con folti baffi e occhi che sembravano scrutare fino al midollo. Era il primo a fissarla senza paura, senza disgusto, e senza alcuna intenzione di distogliere lo sguardo. Shoshanna sentì il respiro spezzarsi; il contatto visivo era troppo intenso. Abbassò subito la testa, lasciando che i suoi occhi scivolassero via, incapaci di sostenere quella presenza dominante.

Fu allora che notò l'altra figura, un'ombra imponente nell'angolo della stanza. Un uomo gigantesco, inquietante, che non faceva alcuno sforzo per mascherare il suo ruolo intimidatorio. La sua semplice presenza riempiva lo spazio con una tensione palpabile.

Shoshanna inghiottì a vuoto, sentendo il peso dei loro sguardi su di sé. La stanza, per quanto spoglia, sembrava diventare sempre più stretta.

Shoshanna sentiva il cuore martellare nel petto, una miscela di paura e curiosità che la costringeva a restare immobile, come se un movimento improvviso potesse scatenare qualcosa. Non sapeva cosa aspettarsi.

Poi, la voce dell'uomo, seduto, ruppe il silenzio.

"Per favore, siediti," disse con una calma che sembrava quasi impossibile in quel contesto.

Non c'era traccia di disprezzo o di paura nelle sue parole, e questo le fece tremare il cuore più di qualsiasi altra cosa. Non era abituata a sentirsi trattata con cortesia, meno che mai da qualcuno che sembrava avere un tale controllo sulla situazione.

Shoshanna esitò, il suo sguardo guizzò per un momento verso l'altro uomo, in piedi, che continuava a scrutarla con occhi duri e sospettosi. La mano dell'uomo era posata sulla fondina della pistola, pronta a estrarre l'arma al primo segnale di pericolo. Per lui, lei non era altro che una bomba a orologeria.

Alla fine, si mosse con cautela, trascinando una delle sedie verso di sé. Il rumore delle gambe contro il pavimento fu l'unico suono nella stanza. Si sedette, le mani che stringevano i bordi del sedile come se volessero aggrapparsi a qualcosa di solido.

Lo sconosciuto davanti a lei la osservò per un istante, inclinando leggermente la testa come se la stesse studiando. Poi sorrise.

"Mi presento," disse. "Sono il Capitano Murdock Danko. E quello," aggiunse, indicando con un leggero cenno del capo l'uomo nell'angolo, "è il Tenente Jack Krasser."

Shoshanna non rispose. Non osò alzare lo sguardo per incontrare quegli occhi che la fissavano così apertamente. Preferì concentrarsi sulle mani di Krasser, che non si staccavano mai dall'arma.

Danko, però, non sembrava infastidito dal suo silenzio. Si accomodò meglio sulla sedia, con l'aria di chi aveva tutto il tempo del mondo.

"Deve essere un lavoro duro quello che fai," continuò con tono socievole. "Là fuori, tra le recinzioni, il freddo, e... tutto il resto."

Shoshanna annuì appena, stringendo i denti. Il suo respiro si fece più corto.

"Quante ore passi lì fuori ogni giorno?" chiese il Capitano, come se stesse cercando di avviare una normale conversazione.

"Otto... a volte dieci," rispose lei a bassa voce, senza guardarlo.

"Dieci ore. Un lavoro molto impegnativo, direi."

Shoshanna rimase immobile, cercando di decifrare il senso di quelle parole. Le sembravano troppo gentili per essere sincere, eppure non c'era traccia di sarcasmo nella sua voce.

"Dimmi, come ti trovi con Pierce?" aggiunse Danko, piegandosi leggermente in avanti.

Il nome del suo supervisore la colpì come una frustata. "Il Signor Pierce?" ripeté lei, guardandolo per un istante, ma abbassando subito gli occhi. "Fa il suo lavoro."

Danko rise appena, un suono basso e controllato. "Pierce non fa nulla, e tu lo sai bene. Sei tu che fai il lavoro per lui. È per questo che sei qui, no? Perché non sei come gli altri."

Si sporse leggermente in avanti, lo sguardo che si accendeva di un interesse palpabile. "Devo ammettere," iniziò con voce bassa ma intensa, "che sono rimasto molto impressionato quando ho letto il fascicolo che i miei informatori hanno messo insieme su di te. Non è stato semplice ottenere il rapporto medico di tua madre."

Shoshanna sentì un brivido lungo la schiena. La sua mascella si serrò, mentre il peso crescente dell'inquietudine le opprimeva il petto. Cominciava a pentirsi amaramente di essere venuta.

Danko, ignaro o forse incurante del suo disagio, continuò. "Non dev'essere stato facile per una donna infetta portare avanti una gravidanza. Troppe cose che potevano andare storte... Eppure," fece una pausa, i suoi occhi che cercavano una reazione nel volto di lei, "tua madre ci è riuscita. Anche se alla fine il Viola l'ha consumata, è riuscita a dare alla luce la bambina che portava in grembo. Una bambina apparentemente sana."

Shoshanna si irrigidì. La tensione era diventata una morsa, la sua mente un turbinio di emozioni contrastanti.

Danko la fissava con quell'aria quasi affascinata. "I dottori non ci potevano credere," riprese con una nota di reverenza. "Un'infezione trasmessa al feto durante la gravidanza avrebbe dovuto significare la fine, ma non per te. Invece, il morbo è entrato in simbiosi con il tuo corpo. Si è adattato. Forse perché è entrato in circolo proprio quando il feto ha iniziato a svilupparsi. Questo ha permesso anche un rallentamento del morbo che affliggeva tua madre, permettendole di portare la gravidanza fino al termine."

Shoshanna scosse impercettibilmente la testa, come a negare qualcosa che invece conosceva fin troppo bene.

"Un corpo umano," continuò Danko, "che ha conosciuto il Viola sin dalla sua primissima esistenza, crescendo insieme a esso. Questo ha rallentato la sua progressione a un ritmo così lento da essere quasi impercettibile... almeno nei primi anni."

Si sporse un poco di più verso di lei. La sua voce divenne ancora più morbida. "In qualsiasi altro umano il morbo avrebbe consumato l'ospite in pochi minuti. Ma tu..." si fermò, lasciando che il peso di quelle parole cadesse nel silenzio della stanza.

Shoshanna lo fissava, incredula. Le sue mani tremavano debolmente, nascosti sotto il tavolo. Non riusciva a comprendere come potesse avere ottenuto così tante informazioni su di lei, ma lui sapeva. Sapeva ogni cosa.

Quella rivelazione fece scattare qualcosa in lei. Non era sicura di cosa significasse, ma sentì il bisogno di capire. Si sporse leggermente in avanti, con una nuova fiamma di curiosità negli occhi.

"Cosa volete da me? Perché siete qui?" chiese, la voce tremante ma decisa.

Krasser si irrigidì immediatamente. La sua mano stringeva la fondina come se fosse pronto a sparare. Shoshanna lo notò, e il nodo che già le serrava la gola si strinse ancora di più.

Danko sollevò una mano, un gesto calmo per riportare la situazione sotto controllo. "Calma, Jack," disse con la stessa voce rassicurante. Poi tornò a guardare Shoshanna, un sorriso appena accennato sulle labbra. I suoi occhi intensi sembravano voler penetrare le barriere che lei aveva costruito attorno a sé. Poi, con un respiro profondo, ricominciò a parlare.

"Shoshanna," disse, pronunciando il suo nome con una lentezza che fece rabbrividire la ragazza, "quello che sto per dirti potrebbe sembrare... incredibile. Ma ti assicuro che ogni parola è vera."

Lei non rispose, ma sollevò di poco lo sguardo. La curiosità cominciava a superare la paura, anche se il peso dello sguardo di Krasser sull'altro lato della stanza era una costante minaccia.

"Poco tempo fa," iniziò Danko, "un gruppo di scienziati qui a Hope Town ha ottenuto quello che molti di noi credevano impossibile. Dopo vent'anni di esperimenti, sacrifici, e un lavoro che definire arduo sarebbe un eufemismo... hanno sviluppato una vaccino."

Shoshanna sgranò gli occhi, e un lampo di incredulità le attraversò il volto. La sua voce le sfuggì prima che potesse fermarsi. "Un... vaccino?"

Danko annuì lentamente. "Sì. Un siero in grado di fermare il morbo. Non solo prevenirlo, ma anche invertire la trasformazione, se somministrato in tempo. È un passo avanti che potrebbe cambiare tutto, Shoshanna. Potremmo riprenderci ciò che abbiamo perso."

Lei restò in silenzio, cercando di processare quelle parole. Sembrava troppo bello per essere vero.

Il Capitano si appoggiò allo schienale, intrecciando le dita davanti a sé. "C'è un problema però," continuò. "Abbiamo solo un campione. Uno. E la città non dispone delle attrezzature necessarie per produrne di più. Gli scienziati hanno fatto miracoli per arrivare a questo punto, ma non possono andare oltre. Per produrre il siero in quantità sufficienti, dobbiamo portarlo al Centro di Ricerca Nazionale, a centinaia di chilometri da qui. È l'unico luogo rimasto in cui esistano ancora le tecnologie e i laboratori necessari per questa operazione. Là dentro ci sono ancora dei sopravvissuti, scienziati e medici. Siamo in contatto con loro."

Shoshanna abbassò lo sguardo. Una missione del genere era rischiosa, poteva capirlo anche senza ulteriori dettagli. "E cosa c'entro io?"

Danko si piegò leggermente in avanti, con lo stesso tono calmo che aveva mantenuto fino a quel momento. "Abbiamo bisogno di formare una squadra. I migliori soldati che abbiamo saranno scelti per proteggere il campione e portarlo al Centro di Ricerca. Ma non è sufficiente. Per questo ho bisogno di te."

Shoshanna lo guardò, incredula. "Di me?" chiese, con un tono quasi derisorio. "Io non sono un soldato. Non so combattere. Non so..."

"Non mi serve un soldato," la interruppe Danko, con un leggero sorriso. "Mi serve qualcuno che sia unico. Qualcuno come te."

Lei rimase in silenzio, il cuore che le batteva forte nel petto. "Perché?"

"Perché la tua condizione," spiegò Danko con pazienza, "ti rende diversa da chiunque altro. Sei infetta, sì, ma non sei ancora uno di loro. Sei a metà strada. Per quanto ne sappiamo, non attacchi gli umani, e i Violanti non sembrano vedere in te una minaccia immediata. Questa particolarità potrebbe essere la nostra unica speranza, se tutto dovesse andare storto."

Shoshanna deglutì a fatica. Le sue mani, posate sulle ginocchia, tremavano leggermente. "Non capisco. Cosa volete che faccia?"

"Voglio che tu faccia parte della squadra," rispose Danko, ignorando il suo tono crescente. "Se il peggio dovesse accadere, se fossimo sopraffatti... potresti essere l'unica persona in grado di farcela."

Shoshanna rimase muta, incapace di rispondere. L'idea di essere vista come qualcosa di più di un rifiuto, di un'anomalia, era troppo nuova per poterla accettare facilmente. Le parole di Danko risuonavano nella sua mente come una possibilità che non aveva mai osato considerare, ma le sembravano troppo irreali.

Shoshanna rimase in silenzio per un lungo momento, il volto ombreggiato da emozioni contrastanti. Ma poi si alzò in piedi, incapace di contenere ciò che sentiva.

"Quindi, volete usarmi..." disse con voce tremante, il dolore e la rabbia intrecciati. "Pensate davvero che rischierò la mia vita per qualcuno a cui non importerà mai? Devo forse ricordarvi chi sono? Sono solo un mostro, giusto? Tutti mi odiano qui. Mi tollerano solo perché sono utile."

Le sue parole caddero pesanti nella stanza, come pietre che rompono il silenzio di uno stagno. Krasser la fissò, sempre con la mano sulla fondina, pronto a intervenire al minimo segnale. Ma Danko non distolse lo sguardo da lei.

Shoshanna serrò i pugni, il respiro affannoso. Poi, come se qualcosa dentro di lei si spezzasse, portò le mani alla stoffa che le avvolgeva il volto. In un gesto lento, quasi solenne, lo sfilò, rivelando il suo segreto al resto della stanza.

Metà del suo volto era stato consumato dal morbo. La pelle era pallida e violetta, le vene scure, purpuree, come radici morte. L'occhio di quell'emisfero era opaco, senza pupilla, un'iride spenta che sembrava fissare il vuoto. L'altra metà del suo viso, tuttavia, era ancora umana, viva, con uno sguardo che brillava di dolore e rabbia repressa.

"Guardatemi," mormorò, scuotendo la testa. "Non sono così diversa da loro." Un sorriso amaro le curvò le labbra per un istante. "Non mi resta più molto tempo."

Danko si alzò dalla sedia con lentezza, i movimenti misurati, il suo sguardo mai vacillante. Fece un passo verso di lei, senza traccia di esitazione o disgusto.

"Molti si sono fermati a vedere solo una metà di te," disse con una calma che contrastava con la tempesta dentro di lei. "La metà Violante, quella che li spaventa. Ma io vedo anche l'altra metà. La tua metà umana. Ed è a quella che mi appello."

Le parole del capitano si posarono su di lei con un peso che non riusciva a ignorare. Krasser, intanto, spostò lo sguardo altrove, l'ombra di un'inquietudine gli attraversò per un attimo il volto.

Shoshanna, con la maschera ancora in mano, abbassò lo sguardo verso il pavimento. Sentiva la rabbia lottare con qualcosa di più grande, un'ombra di speranza che non riusciva a soffocare.

"L'intera umanità è in gioco," proseguì Danko. "Ogni uomo, ogni donna, ogni bambino là fuori sta vivendo una condanna a tempo. E tu sei l'unica che può salvarli, se tutto andasse male."

Lei fece un passo indietro, la testa che si scuoteva in un rifiuto automatico. "Non posso farlo. Non sono abbastanza forte. Non sono un'eroina."

"Non ancora," rispose Danko, avvicinandosi di un passo. "Ma lo puoi diventare. Questa è la tua occasione. Non solo per loro, ma per te stessa."

Il peso delle sue parole la colpì come un pugno allo stomaco. Shoshanna distolse lo sguardo, serrando le mani per la tensione. Nessuno aveva mai parlato a quella parte di lei, la metà che cercava disperatamente di aggrapparsi all'umanità che le restava.

"Pensaci," disse Danko con un tono più morbido. "Nessuno può obbligarti. Ma se deciderai di accettare, lo farai non come Violante, ma come una umana."

Shoshanna non rispose. Si limitò a restare immobile, i pensieri che si accavallavano nella sua mente, le emozioni che le stringevano il petto. Abbassò lo sguardo, poi si rimise lentamente la maschera. Il tessuto le coprì di nuovo il volto segnato, come un muro innalzato tra lei e il resto del mondo. Si voltò verso Danko, sembrava indecisa. "Io..." iniziò a dire, ma prima che potesse finire, la porta della stanza si spalancò con un clangore improvviso.

L'uomo che stava di guardia cercava disperatamente di trattenere una figura furiosa.

"Le ho detto di aspettare! Lei non ha il permesso di entrare qui!" protestò il guardiano, il tono colmo di frustrazione.

"Non ho bisogno di permessi!" ribatté Pierce con voce tagliente, dimenandosi finché non riuscì a liberarsi. Una volta dentro, i suoi occhi carichi di disprezzo si posarono subito su Shoshanna.

"Tu!" ringhiò, puntandole un dito contro con veemenza. "Ti avevo detto che avevi solo dieci minuti prima di tornare al lavoro. Cosa fai ancora qui, eh?"

Shoshanna sgranò gli occhi, sorpresa e improvvisamente spaventata. Non aveva realizzato quanto tempo fosse passato. Cercò di parlare, ma le parole le morirono in gola.

Krasser e Danko rimasero in silenzio. Krasser incrociò le braccia, assumendo una postura minacciosa, il petto in fuori e le spalle larghe. Danko, invece, si mosse con calma, posizionandosi al fianco di Shoshanna mentre assestava la situazione.

"Io...Io non avevo alcuna intenzione..." balbettò Shoshanna, cercando disperatamente una spiegazione. "Mi dispiace, non avevo modo di controllare il tempo—"

"Tutte scuse!" la interruppe Pierce, avanzando di un passo verso di lei, la voce che si alzava di tono. "Tu vuoi solo stare qui a poltrire invece di andare a lavorare!"

Le sue parole tagliarono come lame, e Shoshanna si sentì il petto stringersi. Si irrigidì, le mani che tremavano leggermente. Ma qualcosa dentro di lei scattò, una scintilla che le ardeva nel profondo.

"Non è vero!" replicò con voce ferma, serrando i pugni così forte da sentire le unghie contro i palmi. Il tono della sua voce, per quanto tremante, conteneva una determinazione che non si aspettava. "Non ho mai fatto tardi, mai! Ho sempre fatto straordinari senza chiedere nulla in cambio! Lavoro più di chiunque altro qui!"

Pierce scosse la testa, irritato, e fece un passo avanti, allungando una mano verso di lei. "Basta con queste sciocchezze. Torna al lavoro subito!" grugnì, afferrandola per un braccio e strattonandola.

Shoshanna sussultò, cercando di divincolarsi, ma prima che potesse farlo, Danko intervenne con la rapidità di un falco. Afferrò il polso di Pierce con una presa, costringendolo a lasciarla andare.

"Non è questo il modo di comportarsi con i propri dipendenti," disse Danko, la sua voce bassa e autoritaria.

Pierce si girò verso di lui, il volto colmo di rabbia e disprezzo. "Faccio quello che voglio con i miei dipendenti, Capitano. Si faccia i fatti suoi."

Krasser si avvicinò lentamente, una presenza imponente dietro Danko. La sua mano era stretta sulla fondina della pistola, il suo sguardo freddo come il ghiaccio puntato su Pierce. La tensione nella stanza aumentò, e Piere arretrò istintivamente di un passo, improvvisamente consapevole della gravità della situazione.

"E lei si occupi del suo lavoro, Pierce, perché mi sto chiedendo se lo svolge davvero," continuò Danko, lasciando il polso dell'uomo e raddrizzandosi con calma. "Le sue condizioni sono inaccettabili. Da questo momento aumenterà la paga di Shoshanna e ridurrà i suoi turni."

Pierce lo fissò, confuso e arrabbiato. "Non può dirmi come gestire il mio personale!"

"Oh, posso," rispose Danko, il tono ora più severo. "E lo farò. Inoltre, invierò una squadra per verificare se lei lavora davvero tanto quanto pretende dagli altri."

Pierce arrossì violentemente, la bocca aperta come se cercasse una risposta che non arrivava. Il terrore nei suoi occhi lo tradì per un istante, ma si riprese con un ultimo tentativo di sfogare la sua rabbia. "Questo è un abuso di potere!" sbraitò, girandosi verso la porta.

"Lo chiami come vuole," disse Danko con un leggero sorriso. "Ma la giustizia, a volte, è anche questo."

Pierce sbuffò, lanciando un'ultima occhiataccia a Shoshanna prima di uscire dalla stanza, borbottando insulti sottovoce. Mentre se ne andava, Danko si voltò verso Shoshanna, che lo guardava con gli occhi spalancati, ancora incredula. Lui indicò con un movimento del capo la porta appena chiusa. "Tu sei destinata a cose più grandi, Shoshanna. Non a vivere tra i rifiuti della società," disse, osservando per un attimo con disprezzo il vuoto lasciato da Pierce, e poi la sorprese ancora una volta, tendendole la mano.
Il gesto la lasciò senza parole. Nessuno si era mai avvicinato a lei con tanta naturalezza, tanto meno con la volontà di toccarla. La sua mano guantata esitò a mezz'aria, poi, con un tremore appena percettibile, strinse la sua.

"Grazie," mormorò timidamente.

Danko sorrise con calore. "Pensaci. Questa è pur sempre una tua scelta. Ma noi speriamo di vederti domani."

Prese un biglietto dalla tasca e glielo porse. Shoshanna lo accettò con cautela, osservando il pezzo di carta come se fosse un oggetto sacro. Le indicazioni scritte con precisione segnavano il luogo dove avrebbe dovuto recarsi il giorno successivo, se avesse deciso di unirsi alla squadra.

Danko fece un cenno a Krasser, che annuì, e insieme si diressero verso la porta. Mentre uscivano, Shoshanna rimase lì, stringendo il biglietto tra le dita, i pensieri che vorticosamente le riempivano la mente.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro