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𝑳𝒂 𝑺𝒖𝒑𝒆𝒓𝒇𝒊𝒄𝒊𝒆

Shoshanna non sentiva più le gambe. Non per il dolore, ma per la fatica silenziosa che la stava consumando durante l'interminabile cammino nella galleria. Il buio, denso e opprimente, le era penetrato nella pelle, facendola sentire come se l'oscurità fosse ormai parte di lei.

Sentiva la tensione crescere in ogni fibra del suo corpo. Avanzava con passo attento, ogni movimento calcolato per evitare di inciampare sui detriti sparsi nel buio. La torcia fissata alla sua uniforme illuminava il terreno irregolare, rivelando dei corpi. Contorti e abbandonati, troppo deformi e disumani per identificarli come umani... o come Violanti. Rinsecchiti come fiori abbandonati al gelo, erano diventati parte del terreno stesso, testimoni silenziosi di una battaglia che non avrebbero mai vinto.

Shoshanna puntò la luce su un volto rinsecchito, una maschera spaventosa di pelle tesa sulle ossa. Gli occhi, ridotti a cavità pallide simili a olive ammuffite, la fissavano come a giudicarla, vuoti e immoti.

Distolse lo sguardo, ma solo per un istante. Quella visione le si era impressa nella mente, come sempre. Aveva visto molti corpi così fuori dalle mura, eppure non si era mai abituata davvero. Una parte di lei si rifiutava di accettare quella desolazione come normalità. Il cuore le si strinse, e quel pensiero che cercava sempre di soffocare tornò a tormentarla. Sarebbe finita anche lei così? Abbandonata al suolo, il corpo ridotto a una caricatura macabra della vita, con la bocca spalancata in un urlo muto e inutile?

Una voce interruppe il turbinio dei suoi pensieri.

"Siamo vicini alla superficie," annunciò il Capitano Danko. La sua voce risuonò ferma nel tunnel, spezzando l'opprimente silenzio. Shoshanna alzò lo sguardo verso di lui e notò il radar al suo polso, un piccolo dispositivo simile a un orologio che emetteva un lieve bagliore azzurro.

"Ricordate la formazione," aggiunse Danko, senza rallentare il passo, sempre in testa al gruppo.

"Ricevuto," risposero tutti quasi all'unisono. Shoshanna si unì al coro, stringendo saldamente il fucile.

Rustin Kurt ruppe il silenzio che seguì con una delle sue osservazioni: "Si può già sentire il gelo della superficie," mormorò con un tono che pareva mescolare malinconia e tristezza. Poi fece una pausa, lasciando che le sue parole calassero come una lama sulle menti dei presenti. "E l'odore della morte."

Shoshanna deglutì, mentre il freddo aumentava a ogni passo. Le parole di Rustin sembravano amplificare il peso della paura. Non era solo il gelo che li aspettava, ma un mondo morto, un luogo che non aveva pietà per nessuno.

Un brivido la attraversò, e avvertì il tanfo insinuarsi lentamente nelle narici. Passo dopo passo, quell'odore nauseante diventava sempre più intenso, più opprimente. Non era il solito miasma che si percepiva fuori dalle mura: questo era più denso, quasi palpabile, e portava con sé una promessa di orrore. La giovane immaginava cosa potesse aspettarli alla fine della galleria: una distesa di corpi, umani e infetti, avvolti da una natura appassita e morente, ridotta a un'eco di ciò che era stata.

Era iniziato tutto con una guerra batteriologica. Il morbo erano stato rilasciato per decimare il nemico, ma la pandemia era presto sfuggita di mano, contaminando anche gli eserciti e le popolazioni di chi aveva scatenato quell'inferno.

In pochi anni, il morbo si era evoluto, trasformandosi nel "Viola". Gli era stato dato quel nome a causa della pelle violacea e delle venature purpuree, oltre al sangue dello stesso colore, degli zombie, i quali furono, invece, chiamati "Violanti". Gli infetti erano ufficialmente considerati morti dal punto di vista medico, eppure camminavano ancora, spinti da un raptus che sembrava avere un'unica missione: diffondere l'infezione. Il morbo si propagava usando i corpi come macchine, manipolandoli in modo subdolo.

"Avanti, in marcia!" li interruppe Danko, il suo comando tagliente come una lama. Senza perdere un colpo, l'uomo si voltò e riprese a camminare lungo il tunnel, la sua figura imponente che si muoveva con sicurezza verso la luce pallida che si intravedeva in lontananza.

Gli altri lo seguirono, i loro passi rimbombanti nel silenzio della galleria.

Shoshanna sospirò e si mise in marcia anche lei, tenendo il passo senza difficoltà. Per un po' si perse nei suoi pensieri, concentrandosi sul ritmo dei suoi passi e sul suono monotono del gruppo in movimento. Poi, però, si accorse di non essere in fondo alla fila.

Sorpresa, si voltò leggermente, giusto per dare un'occhiata dietro di sé. Il Sergente Zeke Becker era lì. Camminava con un'andatura tranquilla, il casco con il visore rivolto dritto davanti.

I suoi occhi scattarono verso la sua direzione, incontrando i suoi.

Shoshanna si volse subitamente, ma sentì comunque il peso del suo sguardo, un'attenzione silenziosa che le fece venire un leggero brivido lungo la schiena. Non disse nulla. Tornò a guardare avanti, focalizzandosi sul terreno sconnesso. Ma quella presenza dietro di lei era difficile da ignorare.

La sensazione di essere osservata si intensificava a ogni passo, mescolandosi al tanfo della morte e al freddo pungente che sembrava insinuarsi nelle ossa. Si sforzò di fissare la luce fioca in fondo alla galleria, ignorando l'uomo che ora le stava accanto.

Ma non durò a lungo.

"Vorrei chiederti delle informazioni," disse Zeke, la sua voce profonda che risuonava nella galleria come un tuono trattenuto. Era abbastanza alta da farsi sentire chiaramente dal resto del gruppo, nonostante il rumore dei passi. "Riguarda la tua... condizione."

Shoshanna gli lanciò un'occhiata laterale, cercando di cogliere il sottotesto delle sue parole. La domanda non era innocente, e il tono lasciava intendere che non fosse solo curiosità. Tuttavia, decise di mantenere il controllo.

"Non hai letto il fascicolo su di me?" chiese, leggermente indispettita. Parlare della sua condizione non le piaceva affatto.

Zeke rispose con un tono vagamente ironico: "Era troppo conciso."

Shoshanna sospirò, consapevole che, se il Sergente voleva davvero conoscere i dettagli, non avrebbe lasciato perdere la questione. Allora, si ritrovò a cedere: "Dipende da cosa vuoi sapere," disse, celando a malapena l'irritazione.

Zeke sembrò riflettere per un momento, poi riprese. "I tuoi sensi," disse, con un'inflessione che sembrava a metà tra il sospetto e l'interesse scientifico. "Quanto sono... sviluppati? Oppure, al contrario, compromessi?"

Era una domanda legittima, pensò Shoshanna, sebbene non le piacesse il modo in cui era stata posta. Si prese un momento per raccogliere le idee prima di rispondere, scegliendo con cura le parole.

"Il mio senso dell'udito e dell'olfatto si sono sviluppati nel tempo, più di quanto mi aspettassi," iniziò, mantenendo il tono neutro. "Un po' come quelli dei Violanti. Posso percepire suoni e odori che gli altri non notano subito." Fece una pausa, poi aggiunse: "La parte infetta del mio corpo non sente nulla. Né freddo, né calore, né dolore. Sento qualcosa solo nelle parti che sono ancora... sane."

Zeke annuì leggermente, ma non interruppe.

"La vista, però," continuò Shoshanna, "è peggiorata. Specialmente nell'occhio della parte infetta. Se chiudo quello sano, tutto è sfocato, come guardare attraverso una lastra di vetro sporca. Compenso con l'occhio sano, ma la mia visione a distanza non è delle migliori."

Zeke parve assimilare le informazioni in silenzio, mentre il resto del gruppo, rallentando lievemente il passo, sembrava ascoltare con attenzione. Era evidente che quelle rivelazioni stavano lasciando il segno.

"Altro?" chiese lui, la sua voce priva di emozioni, quasi professionale.

Shoshanna annuì, consapevole che trattenere altri dettagli sarebbe stato controproducente. "Sì," disse. "Non ho bisogno di mangiare molto. Gran parte del mio apparato digerente si sta deteriorando, e con esso anche il senso della fame. Dormo poco, quasi niente, perché il mio corpo non ha bisogno di riposo come il vostro." Fece una pausa, cercando le parole giuste per spiegare il resto.

"I muscoli della mia parte infetta si stanno atrofizzando," continuò, "e quelli della parte sana... si stanno indebolendo lentamente. Non riesco a correre a lungo. Il mio corpo semplicemente non ha la forza per sostenere velocità o distanze elevate."

Zeke rimase impassibile, continuando a guardare avanti. "Ricevuto. Ora la situazione è più chiara," disse infine, con tono breve ma chiaro, come se avesse archiviato ogni informazione.

Quella semplice parola segnò la fine della conversazione. Shoshanna sentì un'ondata di sollievo attraversarla. Nessun commento, nessun giudizio da parte sua. Diede un'ultima occhiata a Zeke, assicurandosi che non avesse altro da chiederle, a rilassò la sua andatura.

Continuarono a camminare, il silenzio interrotto solo dal rimbombo dei loro passi metallici lungo la galleria. Il bagliore in fondo al tunnel divenne sempre più intenso, passando da un flebile chiarore a una luce che si fece quasi accecante. Quando finalmente il gruppo raggiunse l'uscita, Danko si fermò per un istante, le spalle rigide, prima di pronunciare due sole parole:

"Ci siamo."

La sua voce era carica di tensione, come una corda sul punto di spezzarsi. Nessuno osò dire nulla, ma tutti si prepararono istintivamente. Le armi furono sollevate in un movimento fluido, puntate in avanti, pronte a sparare al minimo segnale di pericolo.

Un passo fuori dalla galleria, e la devastazione li colpì come un pugno nello stomaco.

La città davanti a loro era un panorama desolato di morte e rovina. I palazzi che una volta si ergevano orgogliosi erano ridotti a scheletri di cemento e acciaio, torri monche che si stagliavano contro il cielo grigio e opprimente. Molte delle strutture erano crollate su sé stesse, trasformate in montagne di macerie, invase da una vegetazione malata, dai toni innaturali, che sembrava aver colonizzato ogni superficie disponibile.

Ovunque si posassero i loro occhi, c'erano corpi marcescenti, ammassi di carne violacea decomposta che un tempo erano esseri umani. Alcuni giacevano sparsi a terra, con gli arti contorti in posizioni innaturali, altri schiacciati sotto il peso delle macerie. In mezzo a quel cimitero a cielo aperto, si potevano distinguere anche resti di veicoli abbandonati: automobili arrugginite, carri armati distrutti, autobus sventrati, tutto ridotto a monumenti alla follia di una civiltà ormai estinta.

Shoshanna si trovò a fissare tutto con un misto di orrore e rassegnazione. Quel luogo, un tempo vivo e pulsante, era ora solo un ricordo deformato, un mondo divorato dal tempo e dalla malattia.

"Dio..." mormorò Louis alle sue spalle, la sua voce spezzata.

"Avanti," ordinò Danko, la mascella serrata. Nonostante l'apparente calma, il suo tono tradiva l'ansia che aleggiava su tutti loro. Con cautela, cominciarono ad avanzare, muovendosi tra i resti della civiltà perduta, le armi sempre pronte, i nervi tesi come corde di violino. Ogni ombra, ogni sussurro del vento poteva essere una minaccia nascosta, pronta a balzare fuori.

Il gruppo si muoveva con cautela, i loro passi affondavano leggermente nel manto di polvere accumulata sull'asfalto. Danko apriva la strada con movimenti misurati, il fucile saldo tra le mani, pronto a reagire a ogni minimo segnale di pericolo. Le sue spalle erano tese, ogni passo un richiamo alla disciplina e alla sopravvivenza. Dietro di lui, Rustin Kurt camminava con un'aria apparentemente rilassata. Le pistole nelle sue mani si muovevano leggere, i movimenti così fluidi da sembrare parte del suo corpo.

Alle spalle di Danko, che apriva la strada con Rustin al suo fianco, avanzavano Louis e Anton. Quest'ultimo, visibilmente compiaciuto, stringeva tra le mani la mitragliatrice leggera che l'esercito gli aveva affidato per la missione. L'arma catturava tutta la sua attenzione.

"Questa bambolina è assolutamente bellissima," commentò Anton, un ghigno soddisfatto che si allargava sul suo volto. Il metallo della mitragliatrice brillava debolmente sotto la luce opaca del cielo, e le sue dita scorrevano con cura sul grilletto e lungo il corpo dell'arma, come se stesse accarezzando un oggetto prezioso. "Solida. Potente. Perfetta."

Louis, che camminava poco distante, lo guardò di sfuggita con un'espressione visibilmente infastidita. Il suo volto era rigido, segnato dal disagio. "Piantala," borbottò, evitando di incrociare il suo sguardo. "È inquietante."

Anton si fermò un istante, alzando un sopracciglio. La sua bocca si incurvò in un sorriso beffardo, pronto a rispondergli con una delle sue solite battute mordaci, ma Rustin intervenne prontamente, alzando una mano e facendo loro segno di stare in silenzio.

Anton sbuffò, stringendo più forte l'arma, ma si trattenne dal dire altro. "Guastafeste come sempre," mormorò appena, abbastanza forte da farsi sentire solo da Louis, che gli lanciò un'occhiata di avvertimento.

Al centro del gruppo avanzava Shoshanna. Ogni tanto, i suoi occhi si spostavano sul paesaggio circostante, come se cercassero di cogliere anche il più piccolo segno di movimento. Era consapevole che, in un posto come quello, il pericolo poteva nascondersi ovunque.

Più indietro, Zeke e Krasser chiudevano la formazione. Zeke avanzava a piccoli passi misurati, con il suo fucile di precisione saldo tra le mani. Di tanto in tanto si fermava, inginocchiandosi con un movimento fluido e silenzioso. Posizionava il gomito sul ginocchio alzato, portando il mirino all'occhio per scrutare attentamente l'orizzonte. Ogni volta che si fermava, Krasser si voltava con un movimento meccanico, controllando le spalle del compagno, pronto a intervenire nel caso qualcosa li avesse attaccati da dietro.

Zeke non parlava mai durante queste pause. Il suo respiro era lento e misurato, come se stesse trattenendo l'intero mondo fuori dai suoi polmoni per concentrarsi esclusivamente sul mirino. Il suo occhio, nascosto dalla maschera, analizzava ogni dettaglio del paesaggio: le ombre che sembravano muoversi tra le macerie, le sagome spezzate degli edifici, ogni potenziale segnale di vita... o di morte.

A un certo punto, Rustin Kurt indicò con la canna di una pistola verso l'orizzonte. "Là," disse a bassa voce, quasi come se temesse che il suono potesse risvegliare qualcosa. "Quell'edificio laggiù. L'ospedale."

Danko strinse gli occhi per osservare meglio. L'edificio, un tempo probabilmente imponente, si ergeva lontano, annerito dal tempo. Le finestre erano vuoti occhi neri che fissavano il nulla, e l'intera struttura sembrava sul punto di cedere, trattenuta in piedi solo dalla forza della disperazione.

"Sembra vicino," continuò Rustin, "ma in realtà ci vorranno circa due ore per raggiungerlo. Di solito io e mio fratello non ci fermiamo quando attraversiamo questa zona, ma suggerisco di fermarci alle porte per controllare che la via oltre sia libera. Quegli edifici..." fece un gesto vago verso i ruderi lontani, "nascondono insidie."

Danko non rispose subito. I suoi occhi scuri osservavano l'ospedale e gli edifici accanto, notando l'assenza di Violanti. Così si chiese, "Perché non sono fuori? Il sole è alto, e non fa abbastanza freddo da costringerli a nascondersi."

Shoshanna alzò lo sguardo verso Danko. Anche lei si era posta la stessa domanda. I Violanti non erano certo creature che si nascondevano, erano sempre visibili, vaganti in cerca di prede.

Rustin si fermò per un istante, girandosi per controllare il campo visivo alle loro spalle. La sua espressione, già seria, si fece ancora più scura. "Ultimamente," disse con un tono basso, quasi un sussurro, "la Zona Violacea si sta rivelando piena di sorprese."

Danko si voltò appena, fissandolo con uno sguardo tagliente. "Spiegati meglio," ordinò, il tono un misto di curiosità e irritazione. Shoshanna rallentò per ascoltare.

Rustin non rispose subito. Guardava avanti, come se stesse cercando le parole giuste. Infine, con un respiro profondo, parlò. "Così come l'uomo si evolve, anche loro lo fanno."

La sua voce sembrava spezzare il silenzio, come un tuono in lontananza. Gli altri si girarono verso di lui all'unisono, tranne Anton, che continuò a camminare come se quelle parole non fossero nuove per lui.

"Girano voci tra i mercenari," continuò Rustin, "di Violanti dalla pelle più scura. Li chiamano Purpurei. Sono più grandi, più feroci. E non solo. C'è chi dice... che cacciano altri Violanti." Fece una pausa, lasciando che le sue parole si insinuassero nei pensieri del gruppo.

Danko si fermò di colpo. Si voltò verso di lui, la tensione visibile anche sotto il pesante equipaggiamento.

"Che cosa stai dicendo?" chiese, con voce bassa e minacciosa.

Rustin sostenne lo sguardo del Capitano, senza mostrare segni di cedimento. "Pare che il morbo stia mutando. Se non può infettare nuovi ospiti, si adatta. Attacca quelli che già possiede."

Quella frase colpì il gruppo come una frustata. Shoshanna si fece avanti, il suo volto segnato dall'inquietudine. "E cosa ottiene in cambio?" chiese, la voce tesa.

Al suono della sua domanda, Rustin si girò verso di lei. "Ospiti più forti," rispose semplicemente.

Danko aveva il volto serio, ma il suo corpo tradiva un'improvvisa tensione. "Stai dicendo che c'è una variante del Viola in circolazione?" Gli si avvicinò. "Questa informazione doveva essere discussa al concilio. Abbiamo stabilito che non ci sarebbero stati segreti."

Rustin rimase immobile, le mani salde sulle sue pistole. "Non ho mai visto questa nuova mutazione del morbo," disse, con voce calma. "Sono solo voci."

Fece una pausa, sfiorando il crocifisso appeso al collo con la canna di una delle pistole. "La mia fede mi ha sempre protetto da queste creature. Non temete. Non la incontreremo."

Il gruppo reagì con scetticismo, alcuni scuotendo la testa, altri con silenziosi sguardi d'incredulità.

Danko scosse la testa, la tensione nel gruppo palpabile. "Spero per te che non siano altro che storie."

"Non costa nulla avere fede," replicò Rustin con un sorriso enigmatico, tornando a camminare.

Il gruppo riprese a camminare, avanzando con cautela sulla distesa di macerie e asfalto screpolato. L'inquietudine cresceva dentro ciascuno di loro, come una presenza invisibile che si insinuava nei pensieri, rendendo ogni passo più pesante. L'aria sembrava farsi più fredda, nonostante il sole pallido alto nel cielo. Era un freddo che non veniva dalla temperatura, ma dall'atmosfera di quel luogo morto, dove tutto sembrava sul punto di cedere al silenzio eterno.

La tensione era palpabile. Nessuno parlava più, e la marcia sembrò prolungarsi all'infinito. I loro passi risuonavano sul terreno polveroso, accompagnati soltanto dal sibilo del vento. Continuavano a osservare il paesaggio circostante, ogni occhio allenato a cercare movimenti o ombre che rompessero la monotonia, ma nulla si mostrava. Non c'era il minimo segno di vita, né di morte in movimento.

Doveva rimanere concentrata, si disse Shoshanna, stringendo la presa sulla sua pistola. Ma osservare costantemente lo stesso orizzonte vuoto, lo stesso paesaggio desolato, era un esercizio snervante. La monotonia aveva un effetto corrosivo, come un veleno lento che intorpidiva i sensi.

Dopo quella che parve un'eternità, il panorama cominciò a cambiare. Raggiunsero finalmente gli edifici, o meglio ciò che ne restava. Si ergevano davanti a loro come scheletri giganti, sagome di cemento e mattoni ormai privi di vita. Vederli da vicino, era ancora più raccapricciante: Le strutture erano rovinate, con travi di metallo che pendevano dalle pareti come nervi scoperti. Le finestre erano vuote, occhi cavi che guardavano nel nulla. Le mura, un tempo probabilmente vivaci, erano sbiadite e coperte di macchie di fuliggine e ruggine.

Il gruppo continuò a muoversi tra gli edifici fatiscenti, i loro passi rallentati dalla crescente inquietudine che sembrava avvolgerli come una coltre di nebbia. Ogni angolo veniva osservato con attenzione maniacale, ogni ombra scrutata con sospetto. Il tempo scorreva, ma la tensione cresceva a ogni minuto trascorso.

Zeke si inginocchiò nuovamente, sollevando il fucile da precisione per osservare meglio attraverso il mirino. Il movimento era ormai un'abitudine, ma questa volta la sua voce tradì un filo di nervosismo.

"Questa situazione non mi piace," mormorò, il tono basso, come se temesse che persino le sue parole potessero attirare qualcosa di indesiderato.

Krasser, che gli stava accanto, gli copriva le spalle con l'arma pronta. I suoi occhi si muovevano rapidi, scandagliando la strada e le finestre vuote. "A chi lo dici," rispose, annuendo lentamente.

Danko, poco più avanti, li sentì parlare e si voltò leggermente. "Mantenete la calma," disse con voce ferma. "Forse possiamo usare questa situazione a nostro vantaggio."

Le sue parole, anche se non completamente rassicuranti, furono sufficienti per rimettere il gruppo in marcia. E finalmente, dopo solo un'ora e mezza di avanzata tesa e silenziosa, grazie all'apparente assenza di pericoli, arrivarono davanti all'ospedale. Era un edificio imponente, o almeno lo era stato un tempo. Le sue pareti esterne erano consumate, macchiate dal tempo e dalle intemperie, e le grandi vetrate all'ingresso erano ridotte a schegge sparse sul terreno.

L'ampia apertura che ne derivava, tuttavia, offriva una visione del piano terra. La luce del giorno filtrava attraverso le finestre spezzate, illuminando un'area spoglia e desolata.

Zeke sollevò il fucile da precisione e diede un'occhiata attenta, il respiro leggermente trattenuto mentre scrutava attraverso il mirino. Dopo alcuni secondi, si rilassò un po'.

"Il piano terra sembra libero," disse.

Krasser fece un altro giro con lo sguardo, il fucile saldo tra le mani. "Confermo," mormorò.

Danko annuì, abbassando l'arma che teneva in pugno. "Bene," disse, facendo un cenno al gruppo. Con gesti rapidi, indicò una vecchia muretta ancora in piedi, che un tempo probabilmente delimitava l'ingresso principale dell'ospedale. "Dietro quella muretta. Restiamo in formazione."

Si mossero con prudenza, mantenendo la formazione serrata. La muretta era screpolata, con parti di cemento cadute sul terreno circostante, ma offriva una copertura sufficiente. Una volta posizionati, Danko si accovacciò e tirò fuori il binocolo, scrutando con attenzione la via davanti a loro.

La strada era un corridoio d'ombra tra gli alti edifici in rovina. Ogni angolo, ogni porta, sembrava celare un pericolo in agguato. Le finestre rotte che apparivano come occhi creavano una sensazione di vulnerabilità, come se l'intera via li osservasse silenziosamente.

"La via sembra libera," mormorò Danko, abbassando leggermente il binocolo. Poi lo portò sugli edifici vicini, esplorando ogni dettaglio. "Nulla in vista," aggiunse, ma il suo tono non era del tutto rassicurante.

Zeke, intanto, si posizionò con il suo fucile da precisione, usando la muretta come appoggio. Si concentrò sui punti più lontani della strada, spostandosi lentamente da un edificio all'altro.

"Il secondo edificio sulla destra," disse, la voce piatta ma con una nota di tensione. "Le finestre del secondo e del terzo piano sono rotte. Vedo qualcosa."

Il gruppo rimase in silenzio, mentre Zeke stringeva la presa sull'arma, i suoi occhi fissi sul mirino. "Un Violante," continuò. "È rivolto verso il muro... Ne vedo altri due. Probabilmente dormienti."

Danko non rispose subito, ma continuò a scrutare con il binocolo. Zeke spostò l'attenzione sugli edifici successivi.

"La porta del quarto edificio sulla sinistra è spalancata," aggiunse, il tono sempre più grave.

Danko abbassò il binocolo e annuì. Il suo sguardo tornò sul gruppo. "Ci sposteremo sulla destra," disse con decisione.

Il piano era chiaro, ma il pericolo sembrava imminente, celato da quel silenzio irreale che li circondava.

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