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𝑳𝒂 𝑫𝒆𝒄𝒊𝒔𝒊𝒐𝒏𝒆

Shoshanna fissava il soffitto della sua stanza, osservando le crepe che si diramavano come radici sull'intonaco sgretolato. Sembravano rispecchiare il groviglio dei suoi pensieri, caotici e senza via d'uscita. Non riusciva a smettere di ripensare all'incontro con quell'uomo, il Capitano Murdock Danko. Le sue parole continuavano a risuonarle nella testa, mentre il biglietto che le aveva lasciato giaceva sul bordo della scrivania, una presenza silenziosa ma imponente.

Si passò una mano tra i capelli, scostando una ciocca che le ricadeva sugli occhi. Era successo davvero? si domandò, scrutando quelle crepe come se potessero offrirle una risposta. O era stato solo un sogno? Ma lei non sognava mai. Non più. Gli incubi erano tutto ciò che conosceva, almeno quando riusciva a dormire.

Il morbo aveva divorato addirittura i suoi bisogni primari, incluso il sonno. Ricordava ancora quando, da bambina, dormiva fino dieci ore filate, rifugiandosi nei sogni per sfuggire alla realtà. Col tempo, quelle ore si erano ridotte a sette, poi a cinque, fino a rendere il riposo un lusso. I sogni erano scomparsi del tutto, lasciando spazio agli incubi, ma persino quelli stavano diventando sempre più vaghi, privi di significato. Era come se il morbo, lentamente, stesse privando anche la sua mente delle poche tracce di umanità che le erano rimaste. I Violanti non sognavano, si disse Shoshanna con amarezza. Quel pensiero le strappò una smorfia, e si voltò su un fianco, rannicchiandosi sotto la coperta sottile.

Il tessuto del suo pigiama strisciava sulla pelle infetta, ruvida e fredda, un promemoria costante della sua condizione. Era vecchio ma pulito, uno dei pochi indumenti che la facevano sentire vagamente umana in quanto non la ricopriva da testa a piedi. Nella sua stanza, poteva permettersi di non nascondersi, ma si era comunque liberata di ogni specchio. Non sopportava l'idea di guardarsi per sbaglio e dover affrontare ciò che era diventata.

La stanza era poco più di uno sgabuzzino, ma per Shoshanna era sufficiente. C'era un letto dalle lenzuola sbiadite, un armadio che cigolava ogni volta che si apriva, una scrivania con una sedia dall'aspetto instabile. Nell'angolo, una piccola cucina arrangiata con un fornello malandato, e un bagno appena più grande di un armadietto. Dal gancio sul muro pendeva la sua uniforme da lavoro.

Non c'era altro. Sulle pareti non c'erano foto, né disegni, né alcun segno di vita. Nulla che testimoniasse sogni o ricordi felici. Decorarle sarebbe stato inutile: non aveva nulla da appendere, nulla per cui sorridere. Da quando i dottori le avevano spiegato la sua condizione, aveva smesso di cercare la felicità. Perché lottare per qualcosa che non poteva avere?

Era più semplice lasciarla andare, convincersi che non le serviva essere felice. Eppure, nonostante tutto, in quel momento, qualcosa dentro di lei sembrava riaccendersi. Il ricordo della giornata appena trascorsa le faceva vibrare il cuore, risvegliando un desiderio che credeva morto: essere vista come qualcosa di più di un Violante. L'idea di uscire da Hope Town, di essere vista come un'umana, diventare un'eroina, la spaventava e la elettrizzava allo stesso tempo.

Shoshanna, immersa nei suoi pensieri, fu bruscamente riportata alla realtà dallo sguardo casuale rivolto all'orologio. Il sangue le si gelò quando si accorse che erano già quasi le otto di sera. Si alzò di scatto dal letto, inciampando sui propri passi mentre rovistava freneticamente per trovare gli abiti da esterno. Ne aveva pochi, oltre alla sua uniforme da lavoro, ma non era un problema: passava quasi tutto il suo tempo libero nel loculo che chiamava casa, e i vestiti raramente servivano più del necessario.

Li infilò di fretta, maledicendo la sua distrazione. Non poteva credere di aver sprecato così tanto tempo a fissare il soffitto e a rimuginare. Doveva assolutamente procurarsi qualcosa da mangiare. Il suo minuscolo frigorifero conteneva a malapena un cartone di latte, che probabilmente era già prossimo alla scadenza. Di solito, usciva tra le sei e le sette: l'orario perfetto, quando il mercato era tranquillo e le strade semideserte. Era anche l'occasione perfetta per una breve passeggiata, senza troppi sguardi addosso.

Ma ora, alle otto, il mercato sarebbe stato affollato. Gli stand del cibo da strada brulicavano di gente, e il pensiero di attraversare quella folla le fece stringere i pugni per la frustrazione. Si infilò il cappello e la maschera di stoffa, sistemando con cura ogni dettaglio per assicurarsi che nulla fosse visibile. Prese la piccola sacca di denaro, legata con uno spago per sicurezza, e uscì di corsa, senza preoccuparsi di chiudere la porta a chiave.

Non c'era bisogno. Nessuno si sarebbe azzardato a mettere piede nella sua stanza. Nemmeno gli ispettori sanitari si prendevano il rischio: troppa paura di toccare qualcosa di contaminato e finire infettati.

Le strade erano un labirinto di fango e asfalto rovinato, dove il gelo della sera si mescolava con l'umidità stagnante dell'aria. I vicoli, stretti e polverosi, sembravano risucchiare chiunque vi camminasse, intrappolandoli tra le crepe nei marciapiedi e le ombre che si allungavano dagli edifici fatiscenti. Ogni passo di Shoshanna risuonava come un eco sordo, e l'aria era carica di odori contrastanti: la putrefazione dei rifiuti ammassati accanto ai bordi delle strade, l'acre odore di fumo che saliva dalle braci dei venditori di cibo da strada e, a tratti, la dolcezza speziata di piatti esotici che lottavano per farsi notare sopra a tutto il resto.

Intorno a lei, mendicanti stesi sui marciapiedi imploravano per qualche moneta, i loro volti segnati dalla miseria e dalla malattia. Altri, più silenziosi, erano rannicchiati in angoli bui, troppo esausti per supplicare l'elemosina, lasciando che le ombre li inghiottissero. Ogni tanto, qualcuno si alzava, visibilmente scosso da una tosse profonda, solo per crollare di nuovo, senza neppure un grido. Il respiro di Shoshanna si mescolava al brusio incessante della strada, dove le urla dei venditori cercavano di sopraffarsi l'un l'altra. "Fresca carne! Stufato caldo!" "Pasta pronta! Solo per pochi bottoni!"

Shoshanna abbassò il capo, il cappello che le copriva gran parte del viso. Passò accanto a una vecchia che si offriva di leggere la mano. Le dita della donna erano sottili, quasi trasparenti, le unghie nere e sporche. Non la guardò, ma sentì lo sguardo pesante della vecchia seguirla, e, per un istante, l'aria sembrò farsi più densa.

Si fermò un attimo, il cuore che batteva forte nel petto. Poi, con un altro passo, riprese il suo cammino. L'odore delle spezie più forti le salì al naso, facendole ricordare i tempi passati, quando le cose erano più semplici, e anche le strade erano piene di vita. Ma ora c'era solo quel sapore amaro di sopravvivenza.

Shoshanna camminava con passo lento, cercando di non farsi notare, di sparire tra la folla che affollava il mercato. Ogni passo era misurato, come se la sua stessa presenza fosse una violazione. Cercava di evitare di sfiorare le spalle degli altri, di non dare troppo nell'occhio, facendosi piccola in mezzo a quella miseria collettiva. Ma non poteva sfuggire ai sussurri, ai volti che la scrutavano da lontano. Quando i suoi occhi incontrarono quelli di un uomo, lui si fermò, fissandola per un istante, e poi il suo viso si deformò in una smorfia di disgusto. Si girò rapidamente e iniziò a parlare a bassa voce con chi gli stava vicino, lanciandole uno sguardo furtivo e poi ridendo nervosamente. Shoshanna non riuscì a trattenere un nodo alla gola, e sentì a suo malgrado come quella risata le scivolasse sotto la pelle, facendola rabbrividire.

Avanzò, concentrandosi sui suoi passi, sul contatto dei suoi piedi con il suolo irregolare, ma i suoi spiacevoli incontri non erano ancora finiti.

Improvvisamente, una bambina dai capelli spettinati e gli occhi curiosi la fissò. La madre la notò e, con un movimento brusco, la prese per mano, tirandola via. In un attimo cambiò strada, come se Shoshanna fosse una qualche presenza maligna da evitare. La piccola guardò ancora un attimo la figura solitaria della donna, ma la madre le coprì gli occhi, sussurrandole qualcosa di rapido.

Shoshanna sentì un dolore trafiggerle il petto. Si morse il labbro inferiore, e distolse lo sguardo per posarlo di nuovo sui suoi passi. Era normale, era tutto apposto, si ripeté, come un mantra. Lo diceva sempre a sé stessa. Ma quel dolore, quella punta nel cuore, rimaneva. Era lì, sempre, nascosto dietro i pesanti strati di abiti che indossava.

Il mercato si allungava davanti a lei, ma finalmente, con un sospiro di sollievo, intravide il suo punto di riferimento. Lo stand dove si fermava ogni sera per comprare qualcosa. Non c'erano molte persone in fila, solo tre davanti a lei. Era fortunata. Si mise allora in coda, tenendo gli occhi bassi e rifugiandosi nella sicurezza della sua mente. Era quasi un automatismo, come una routine che non richiedeva attenzione. La sua mente vagava mentre il corpo agiva senza necessità di comandi, come se fosse tutto già scritto.

La voce della signora che gestiva lo stand la tirò fuori dai suoi pensieri. "Che prendi stasera?" Shoshanna alzò appena lo sguardo, nascondendo gli occhi sotto la visiera del suo cappello. Indicò velocemente quello che voleva, senza fare domande, senza guardarla. La donna la riconosceva, ma non sembrava fare domande. Sapeva che non bisognava chiedere nulla. L'abitudine aveva ammutolito ogni curiosità, ogni voglia di capire. In quel mercato, tutti sapevano come funzionavano le cose, e il silenzio era la risposta migliore.

Con un rapido scambio di buttoni, Shoshanna prese la sporta con il cibo acquistato e si voltò per andarsene.

Ma all'uscita del mercato, una sorpresa la fermò. Un gruppo di ragazzi occupava la strada che doveva prendere per tornare. Chiacchieravano ad alta voce, ridendo e spingendosi, ubriachi. I loro corpi erano forti e prepotenti, i balaclava tra le mani li rendevano ancora più minacciosi. Non erano da prendere sotto gamba.

Shoshanna li osservò con uno sguardo attento, cercando di non essere vista. Doveva aspettarselo: i furfanti erano sempre in giro nei bassifondi, ma non si aspettava di vederli a quell'ora, e così in vista. Avrebbe potuto ignorarli e proseguire dritta, eppure non poteva. L'ultima volta che aveva provato a passare accanto a uno di loro, le avevano puntato un coltello alla gola. Si era presa un bello spavento, lei, che metteva paura a tutti. Era stata costretta a scoprirsi il volto per farli andare via, ma si era pentita subito di averlo fatto. I loro occhi, pieni di orrore, rimanevano conficcati nella sua mente come lame.

Con un sospiro profondo, Shoshanna decise di cambiare strada. Invece di affrontarli, si diresse verso una via laterale. Era un vicolo stretto e buio, che conosceva bene, dove nessuno avrebbe osato seguirla. Si allontanò dal caos e si rifugiò in un angolo solitario. Si accovacciò contro il muro. Prese una scatoletta di cibo dalla sporta e la aprì. Mangiare lì, al buio, lontana da tutto, da tutti, era un'abitudine. Non era tanto diverso dal mangiare nel suo loculo. La sensazione di solitudine e il silenzio erano sempre gli stessi, erano tutto ciò che conosceva. E forse, tutto ciò che avrebbe mai conosciuto. Con un sospiro, Shoshanna prese il cucchiaio di legno che davano insieme alle sporte, e iniziò a mangiare.

Si portò il cucchiaio di riso e fagioli alla bocca, ma il sapore le fece fare una smorfia. Non riusciva più a mangiare come una volta. Il Viola l'aveva cambiata, la rendeva più debole, e il cibo era una delle battaglie quotidiane che doveva affrontare. Il suo stomaco, come tante altre parti del suo corpo, stava...marcendo, e perciò non funzionava più così bene come un tempo. Gli alimenti che una volta adorava ora le facevano venire il voltastomaco. Il riso e i fagioli erano facili da digerire, economici e pronti in pochi minuti. Non erano buoni, ma facevano il loro dovere. Si sforzò di finirli, mentre un nodo alla gola le serpeggiava. Aveva bisogno di riempire lo stomaco, per andare avanti.

Quando si ritrovò a raschiare il fondo del barattolo, si fermò. Masticando, il suo sguardo vagò verso il vuoto, il cucchiaio sospeso a mezz'aria mentre i pensieri le tornavano, come un'onda che non riusciva a fermarsi. Il bigliettino che il Capitano le aveva dato si ripresentò nella sua mente.

Ore 21.00
Vicolo 3-ovest. Centro di comando.
Chiedi per il Capitano Murdock Danko. Ti faranno entrare.

Le parole scritte erano diventate un mantra, ormai conosciute a memoria. Shoshanna le aveva rilette così tante volte quel giorno che ora erano impresse nella sua mente.

Le parole dell'uomo si mescolavano ai suoi dubbi, alle sue paure. Poteva andare, pensò. Poteva davvero farlo. Eppure qualcosa dentro di lei la frenava, qualcosa che non riusciva a definire. Il pensiero di abbandonare la città, di uscire da quel rifugio che le dava una parvenza di sicurezza, la rendeva indecisa. La mente le diceva che sarebbe stata usata, sfruttata, come tutte le altre volte. L'idea di andare con loro e poi, una volta completato il suo compito, di essere abbandonata, magari lasciata a morire da sola o uccisa prima che il morbo la trasformasse, la terrorizzava, anche se in cuor suo sapeva che sarebbe stato meglio per lei, visto quello che l'aspettava.

La frustrazione montò in lei, come un'esplosione che non poteva contenere. Con un gesto violento, afferrò il barattolo vuoto e lo lanciò contro il muro con tutta la forza che aveva. Il metallo rimbalzò, rullando sul pavimento fino a fermarsi in un angolo, ma non fu abbastanza. Non bastava a placare il fuoco che le bruciava dentro. Si portò le mani alla testa, come per fermare il turbinio di pensieri che le frullavano nella mente. Cosa doveva fare, si mormorò, in un sussurro. Il respiro le si fece affannato. Ogni parte di sé la spingeva in direzioni opposte: la speranza di una vita diversa, di un'opportunità, e la paura di essere ingannata, di essere usata e poi gettata via come se nulla fosse.

Rimase così per un lungo istante, ferma, con gli occhi chiusi e il cuore che batteva più forte. Rimanere lì, pensò, significava marcire. Morire lentamente. Ma l'idea di andare all'incontro, di mettere la sua vita nelle mani di sconosciuti, la faceva sentire più vulnerabile che mai.

Doveva decidersi. Doveva farlo adesso. O sarebbe rimasta lì, intrappolata, a vivere di rimpianti e a diventare sempre più l'ombra di sé stessa.

Si mordeva il labbro, le mani strette a pugno. Ogni fibra del suo essere urlava, eppure sapeva che non c'era altra via. La città la stava consumando. Il mondo fuori, con tutte le sue incognite, era l'unica possibilità di qualcosa di meglio. Ma era pronta a pagare il prezzo?

L'incontro sarebbe stato tra poco, alle nove di sera. Il tempo stava per scadere. Shoshanna restò immobile, i suoi pensieri che giravano vorticosamente nella mente. Ogni possibile scenario sembrava confondersi l'uno con l'altro, ogni opzione le appariva ugualmente difficile da prendere.

Alla fine, dopo quello che le parve un'eternità, la decisione arrivò, come una rivelazione. Non c'era speranza per lei, pensò, ma se c'era una possibilità di essere ricordata come qualcosa di più di una semplice Violante, come un essere umano, allora doveva provarci. La speranza non era qualcosa che riusciva a sentire spesso, ma questa volta, in cuor suo, sperava di aver preso la scelta giusta.

Si alzò lentamente dal pavimento, il corpo che ancora le faceva resistenza, ma la determinazione che l'aveva attraversata la spingeva avanti. La sporta pesava ancora nelle sue mani, ma il suo sguardo era fisso sull'uscita del vicolo. Non avrebbe più perso tempo. Non avrebbe permesso alla paura o ai dubbi di ostacolarla. La spesa? Avrebbe potuto aspettare. Non voleva tornare indietro al suo loculo per metterla apposto. Non c'era più tempo.

Si incamminò velocemente, imboccando la strada che l'avrebbe condotta lontano dal mercato, verso il luogo dell'incontro. Il rumore della città dietro di lei si affievoliva mentre si addentrava in vicoli che si facevano via via più bui e silenziosi. Il quartiere militare, che aveva visto solo raramente, era un posto diverso, un luogo di cemento e filo spinato che sapeva di isolamento e di regole severissime. C'era una solitudine distinta in quell'aria, una sensazione che ti invitava a camminare dritto senza esitazioni.

I cartelli che le ordinarono di stare lontana la fecero esitare per qualche istante, ma si disse che era la strada giusta, e non ci rifletté più di tanto. Troppi pensieri l'avrebbero solo spinta a fermarsi, a dubitare. Non poteva tornare indietro, si disse. Non voleva tornare indietro.

La strada si faceva più stretta, ma lei non si fermava. L'unica cosa che contava ora era arrivare. Arrivare dove le avevano detto di andare, fare quella scelta, e sperare che fosse la più giusta.

Poi, finalmente, davanti a lei si aprì uno spazio. Un piccolo piazzale, scarsamente illuminato, ma pulito e in buone condizioni, decisamente migliore di quanto avrebbe mai sperato di trovare in una zona come quella. Si fermò un momento, guardando il portone metallico che si stagliava davanti a lei. L'edificio era solido, dalle linee dure, era a dir poco minaccioso. In cima alla postazione di controllo, di fianco all'edificio, stava una guardia. La sua figura era rigida, ma il suo sguardo non tradiva alcuna sorpresa. Semplicemente, la guardava, come se avesse previsto la sua venuta.

Shoshanna esitò. Fissò l'uomo per un momento, cercando di controllare le emozioni che si agitavano dentro di lei. Poi, decisa, si avvicinò al portone. Ogni passo le sembrava più pesante, ma anche più determinato. Non appena fu a pochi passi dalla porta, il suono di un meccanismo che si sbloccava la colpì. Il portone si aprì lentamente davanti a lei, come se l'aspettasse, ancora una volta, e una fitta di adrenalina le percorse la schiena. Non c'era più tempo per tornare indietro.

Senza pensare, entrò. Aveva preso la sua decisione, cambiando irrimediabilmente la sua vita.

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