𝑳𝒂 𝑪𝒍𝒊𝒏𝒊𝒄𝒂
Baby si strinse nella felpa, tirando il cappuccio fin sopra gli occhi. La sacca d'allenamento le pesava sulla spalla più di quanto volesse ammettere, ma non poteva permettersi di fermarsi. La pioggia, che sembrava averle dato una tregua solo poco prima, aveva infatti ricominciato a cadere con un sottile mormorio.
Camminava senza meta, i passi lenti che la conducevano chissà dove. Ogni tanto sollevava lo sguardo, ma le luci al neon dei locali e delle insegne, fredde e distanti, non le offrivano alcun conforto.
Baby si fermò sotto la pensilina di una vecchia fermata dell'autobus. Si portò le mani alla testa, stringendo le tempie con forza, come se volesse schiacciare via i pensieri. Sentiva un groppo allo stomaco, una morsa di ansia che non la lasciava respirare.
L'idea si era insinuata nella sua mente lentamente, come un serpente che striscia tra l'erba alta. Rubare. La parola le faceva salire un'ondata di nausea, eppure si trovava lì, ferma, a contemplarla come l'unica opzione rimasta.
Non c'erano alternative, e lo sapeva. Chi avrebbe mai assunto una come lei? Una pugile fallita, con un braccio cibernetico che sembrava pronto a cadere a pezzi. Anche i lavori più semplici, come servire ai tavoli o fare la commessa, erano fuori portata. I negozianti non si fidavano di chi portava un impianto visibilmente difettoso: "E se va in cortocircuito mentre serve un cliente? E se ruba dalla cassa?" Le scuse erano sempre le stesse.
Prostituirsi? Baby scacciò quel pensiero con un brivido di disgusto. Non era solo una questione di dignità — anche se quella le restava a malapena — ma di sopravvivenza. Aveva visto cosa accadeva a chi finiva in quei giri: ragazze costrette a farsi installare impianti economici e difettosi, i loro corpi che venivano sfruttati fino all'esaurimento. Morivano giovani, abbandonate nelle fogne come bambole usate, consumate.
"No," mormorò tra sé e sé, stringendo i pugni. "Non sono ancora così disperata."
Eppure, guardandosi intorno, Baby non poteva ignorare la realtà. Non aveva più un tetto sopra la testa, né soldi per mangiare.
Improvvisamente, Il suo sguardo cadde su una vecchia insegna malconcia: Clinica Varrick. Sembrava chiusa da anni, con la vernice che si scrostava e le finestre opache di sporcizia.
La mente di Baby cominciò a correre. Una clinica abbandonata significava attrezzature inutilizzate. Strumenti, pezzi di ricambio per impianti, magari qualche scorta di medicinali o tecnologia rivendibile. Non sarebbe stata una grande rapina, ma forse le avrebbe permesso di sopravvivere un altro giorno.
"Non ho scelta," sussurrò, più a se stessa che al mondo. Strinse la cinghia della sacca sulla spalla, come per farsi forza. Poi si mosse verso la clinica, lasciandosi alle spalle l'ultimo barlume di esitazione.
Baby attraversò la strada, i passi rapidi e nervosi, poi scese i gradini consumati che portavano alla porta della clinica. La vetrata era opaca, polverosa, quasi invisibile. Non c'era un'insegna luminosa, nessun segno che richiamasse l'attenzione. La Clinica Varrick sembrava più un'ombra insinuatasi nel muro, nascosta e dimenticata, come se qualcuno l'avesse lasciata lì senza mai volerla davvero.
Baby si fermò un momento, guardandosi intorno. La via era deserta, nessuna anima in vista. Il silenzio della strada vuota la fece sentire più al sicuro, ma anche più sola. Osservò a lungo l'incrocio, dove la luce pallida dei lampioni al neon illuminava solo i detriti sparsi sull'asfalto. Le auto non passavano. Le persone nemmeno.
Baby si avvicinò allora alla porta della clinica, e scrutò l'ingresso. La maniglia era arrugginita, ma la porta sembrava ben salda. Con un respiro profondo, fece scorrere le dita lungo il metallo freddo, cercando di capire se ci fosse una serratura o una protezione nascosta. Non aveva tempo per pensarci troppo. Prese la piccola chiave inglese dal suo borsone —l'aveva usata più volte per rimettersi apposto il braccio— e iniziò a forzare la porta, il metallo che scricchiolava sotto la pressione. Il suo cuore batteva forte nel petto. Ogni rumore sembrava risuonare come un allarme in quella strada deserta.
Finalmente, l'aprì.
Baby si accovacciò vicino alla porta. L'ingresso della clinica era silenzioso, troppo silenzioso. Guardandosi attorno con occhi rapidi, Baby avanzò nell'oscurità, facendo attenzione a non toccare nulla che potesse fare rumore. La luce fioca dei neon all'esterno filtrava appena, proiettando ombre lunghe e distorte sui pavimenti scuri e lucidi. Tra gli scaffali, c'era un silenzio opprimente, quasi soffocante. A spezzarlo c'era solo il suono dei suoi passi, cauti e rapidi.
Ogni angolo sembrava nascondere qualcosa, ma non c'era traccia di vita. Nessun medico, nessun infermiere. Solo un vuoto che lei stava per riempire. Baby iniziò a rovistare tra i cassetti, aprendo quelli più piccoli. Alcuni contenevano fascicoli polverosi, accumuli di carta senza alcun valore. Baby sbuffò, sentendo la frustrazione che cominciava a montare dentro di lei. Il tempo stava passando, e lei non aveva trovato nulla di utile.
Ogni tanto, un rumore sembrava venire dall'esterno, ma Baby non si fermò. Se qualcuno l'avesse vista... beh, non voleva nemmeno pensarci. Non poteva permettersi di essere scoperta. Si spostò furtiva tra le scrivanie e i tavoli, il respiro sempre più affannoso.
Poi, in un cassetto più profondo, trovò qualcosa di interessante. Man mano che estraeva pezzi metallici, il suo sguardo si fece più vivo. Attrezzi, ingranaggi, impianti di ricambio – erano piccoli, ma utili. Con un sorriso che non riuscì a trattenere, cominciò a infilarli rapidamente nella sua sacca. Il cuore le batteva più forte, questa volta per la speranza che forse il colpo potesse riuscire.
Guardò ancora una volta attorno, il suo respiro che si faceva più pesante. Il lettino della clinica era vuoto, abbandonato. Baby si guardò intorno, scrutando ogni angolo, fino a che non notò una console in un angolo lontano, circondata da fili e luci spente. La cassa. Non riuscendo a trattenersi, forse presa dalla momentanea euforia, Baby si avvicinò al terminale e cominciò a scrutare lo schermo.
Un'icona lampeggiava in rosso. Le sue dita si posizionarono rapidamente sulla tastiera, ma il sistema richiedeva una password. Baby sbuffò. Le sue mani tremavano appena, ma sapeva cosa fare.
Dalla tasca prese un piccolo cavo sottile, quasi invisibile. Il Brain Link. Lo collegò dietro l'orecchio, sentendo il piccolo impianto adattarsi al suo cervello. Poi strinse i denti, cercando di concentrarsi. Il Brain Link formulava dati, cercando di decriptare la password, ma il terminale non si sbloccava. I dati non fluivano come dovevano, e ogni tentativo sembrava una trappola in più. La password rimaneva irrimediabilmente bloccata. Un dolore alla testa cominciò a farsi strada, mentre il silenzio della clinica cominciava a diventare insopportabile.
Il rumore del cavo che strusciava sulla superficie del terminale era l'unico suono che riusciva a sentire, a parte il suo respiro affannoso. Eppure, c'era qualcosa di strano nell'aria, come se una presenza si stesse facendo strada nell'oscurità. Un passo. Poi un altro.
Qualcuno stava entrando.
Il cuore di Baby balzò in gola. Non poteva succedere ora. Non poteva essere scoperta.
"Fanculo!" Inveì, spingendo con forza il cavo nel terminale, come se potesse obbligarlo a sbloccarsi per disperazione. Un'altra sequenza di dati incomprensibili fluttuò davanti ai suoi occhi. Nulla.
Poi, un altro colpo. Questo più forte. Proveniva da dietro. Baby si voltò all'istante, lanciando uno sguardo a ogni angolo della stanza, ma non c'era nessuno in vista. La sua mente stava ormai andando in pezzi. Lo stress, la paura, la frustrazione la stavano soffocando. Riportò la sua attenzione sul terminale ma questi sembrava una parete di fronte a lei, invisibile e invalicabile.
Fu allora che la voce arrivò.
"Ti conviene accettare la realtà. Hai perso."
Le parole risuonarono nell'aria, dure come un colpo allo stomaco. Baby, senza riuscire a fermarsi, si voltò di scatto, il cuore che le martellava nel petto. Il suo respiro trasalì, e un brivido gelido le percorse la schiena. Come diavolo faceva a sapere? pensò, ma si rimproverò subito per la stupidità del pensiero. Non era possibile, no. Non c'era modo che questa persona sapesse.
Con un movimento meccanico, Baby staccò il cavo dal computer e lo riavvolse, infilando la parte finale nel taschino della sua felpa, senza mai staccare gli occhi dall'ombra davanti a lei. La sua mano tremava impercettibilmente, ma cercò di non farlo notare. Ogni fibra del suo corpo urlava per scappare, ma qualcosa nell'aria le diceva che non sarebbe stato così semplice.
Baby osservava davanti a sé, tentando di scorgere qualcosa oltre la penombra. Poi lo vide. Era una figura immensa, appoggiata con nonchalance al muro, emanava un'aura di sicurezza che la fece sentire minuscola, come un topo intrappolato in un angolo. La sua silhouette rivelava un fisico massiccio e potente, che non sembrava appartenere a un uomo comune. Le braccia, erano incredibilmente grandi, muscolose, ma non solo grazie alla cibernetica. Era raro, ormai, vedere qualcuno che avesse scelto di faticare per costruire il proprio corpo invece di ricorrere direttamente agli impianti. Quella scelta, quella dedizione, era quasi un atto di sfida contro il mondo che si era piegato alla via più facile: impianti che sostituivano la carne, muscoli sintetici che non avevano bisogno di fatica.
Baby cercò di scrutare più a fondo, ma il viso dell'uomo era completamente nascosto nell'oscurità. La sua gola si seccò, e per un momento non riuscì a proferire parola. Poi, quasi per riflesso, la domanda le uscì di bocca, ma fu tanto debole che a malapena la sentì. "Tu... Tu sei Varrick?"
La risposta fu secca, tagliente come un coltello. "In persona." Poi, senza cambiare posizione, l'uomo continuò, e le sue parole caddero pesanti nell'aria: "E tu sei solo uno dei tanti rifiuti di queste strade. Piccola. Insignificante."
Si sporse appena in avanti, come se volesse fare leva sul suo vantaggio. "E una ladra." Baby poté vedere solo una parte del suo viso. Degli occhiali cibernetici scuri coprivano i suoi occhi, sembravano un tutt'uno con la pelle e il metallo del suo volto.
L'uomo, Varrick, fece un passo avanti, lento ma pesante, il suono dei suoi stivali che rompeva il teso silenzio della clinica. Uscendo dall'ombra, il suo fisico imponente si rivelò del tutto: la canotta rossa aderiva al suo petto e alle spalle muscolose, mentre i pantaloni neri mettevano in risalto le gambe allenate. La stoffa era segnata da fasciature, macchie d'olio e segni di usura, come se quei vestiti avessero visto troppe battaglie. Al collo portava uno stetoscopio - sì, uno stetoscopio, come a voler ricordare il suo ruolo di cyrurgo - ma quell'oggetto non lo rendeva meno minaccioso. I capelli neri, corti, quasi rasati, facevano risaltare i lineamenti duri del suo viso. Il naso leggermente storto e una piccola cicatrice sul labbro davano l'impressione di un uomo che aveva vissuto più scontri di quanti ne volesse ricordare.
"Dimmi," disse con una voce roca, lasciando la parola sospesa nell'aria. "Hai trovato quello che cercavi?"
Baby deglutì, il cuore che batteva all'impazzata. "Io..." cercò di rispondere, ma la gola si strinse. "Non stavo facendo niente di male." La sua voce uscì incerta, tremante.
Un sorriso appena accennato si formò sul volto di Varrick, ma non era un sorriso gentile. Era freddo, quasi divertito dalla sua patetica scusa. "Niente di male?" ripeté, inclinando appena la testa. "Allora forse dovresti spiegarmi perché stavi rovistando nei miei cassetti."
Baby fece un passo indietro, ma lui ne fece uno in avanti, il suo movimento calmo e deliberato. Ogni passo sembrava un peso che schiacciava l'aria intorno a lei.
"So come funziona là fuori," continuò Varrick, la sua voce bassa ma tagliente. "Sei come tutti gli altri. Pensavi di fare un colpo facile, vero? Ma ti è andata male, ragazzina. E adesso ti resta solo una scelta: affrontarmi... o scappare."
Il suo sguardo era fisso su di lei, quegli occhiali cibernetici riflettevano la luce fioca della stanza ma anche la sua piccola figura, tremante e impaurita.
Baby sentì il respiro accelerare. "Non... non voglio problemi."
"Oh, questo lo so," rispose lui, il tono quasi divertito, ma con un'ombra di minaccia. Fece un altro passo avanti, fino a che Baby poté vedere la cicatrice sul labbro e i muscoli tesi delle sue braccia da più da vicino. "Ma i problemi ti hanno trovata comunque."
Lei rimase in silenzio, ma si voltò leggermente, lo sguardo che correva verso la porta. Lui lo notò, ovviamente. "Se hai intenzione di correre, fallo," disse, inclinando la testa con un cenno verso l'uscita. "Ma ti avverto: se ci provi, potrei cambiare idea e renderti le cose molto, molto peggiori."
Baby fece un passo indietro, il cuore che batteva furiosamente contro le costole. Gli occhi correvano nervosi verso la porta, cercando una via d'uscita. Varrick, come se avesse letto i suoi pensieri, inclinò appena la testa, un sorriso freddo sfiorò le sue labbra.
"Vai," disse con voce calma, quasi incurante. "Fai il tuo tentativo."
Quella sfida, così placida e spietata, le fece salire il sangue alla testa. Baby serrò la mascella, il respiro rapido. Sapeva che stava correndo un rischio enorme, ma sapeva anche che non poteva restare lì. Con un scatto improvviso, si voltò e corse verso la porta, la sacca che rimbalzava pesantemente sulla sua schiena.
Non fece nemmeno tre passi.
Un forte strattone la tirò all'indietro per il cappuccio della felpa, facendole perdere l'equilibrio. Baby emise un grido strozzato mentre veniva trascinata indietro con una forza brutale. Il mondo sembrò girare quando Varrick la spinse con un movimento deciso contro una scrivania, il suo fianco urtò il bordo con un colpo sordo. Un forte trambusto riecheggiò nella clinica vuota, facendo tremare gli scaffali tutt'intorno.
Baby annaspò, il fiato che le mancava per l'impatto. Un dolore lancinante la attraversò, e dovette chiudere gli occhi per alcuni istanti per riprendersi. Mai aveva sentito qualcosa di simile. Era come se tutte le ossa del suo corpo si fossero incrinate. Quel colpo non era casuale: era preciso, misurato. Troppo potente per un semplice cyrurgo.
"Pensavi davvero di potermi seminare?" Sentì la voce di Varrick contro il suo orecchio, bassa e gelida, con una punta di sarcasmo che la ferì più del colpo. "Ti conviene ripensarci, ragazzina. Qui decido io come va a finire."
Non appena lo sentì afferrarle il colletto della felpa, Baby si contorse, cercando di liberarsi, ma la stretta era ferrea. Con un forte strattone, l'uomo la costrinse a girarsi, guardandolo dal pavimento. Baby sollevò lo sguardo, trovandosi ai suoi piedi. Si sentì così piccola e inferiore, debole. Lui era una montagna di muscoli e metallo, e lei non aveva nessuna speranza di vincere in uno scontro diretto.
"Ti prego..." ansimò, cercando di riprendere fiato. "Non volevo—"
"Non volevi?" la interruppe lui, chinandosi su di lei, il tono di voce che si abbassava pericolosamente. "Hai messo piede nel posto sbagliato. Ora hai due opzioni: ti siedi e ti fai consegnare alla polizia, o faccio in modo che tu non metta piede da nessuna parte per un bel pezzo."
La minaccia la trafisse come un coltello. Baby deglutì, il panico che le stringeva la gola, ma nel profondo sentiva una scintilla di ribellione che non voleva spegnersi.
Baby si dimenò con tutte le sue forze, tirando, strattonando, provando a liberarsi dalla stretta implacabile di Varrick. Un ringhio le uscì dalla gola quando tentò di torcersi via, ma l'uomo era una montagna immobile. Nel suo movimento disperato, sentì uno strappo e poi un sibilo di aria fredda sulla pelle: la manica della sua felpa si era strappata, lasciando scoperto il braccio.
Varrick, ancora con la presa ferma, sbarrò gli occhi nel vedere il metallo logoro che componeva parte dell'arto. I fili erano scoperti, un giunto sembrava sul punto di cedere, e piccole scintille lampeggiavano qua e là, segni evidenti di impianti vecchi e malfunzionanti. Non disse nulla per un momento, ma la sua espressione si fece più cupa.
Baby sentì la gola chiudersi. Non si era nemmeno accorta di aver cominciato a piangere, le lacrime che le scivolavano lungo le guance. "Mi dispiace... Io avevo bisogno di soldi," balbettò, la voce rotta. Si morse il labbro, cercando di trattenersi, ma più parlava, più le sue parole uscivano spezzate e disperate. "Non ho niente... Non ho nessuno... Io..."
Varrick la fissò, la mascella che si tendeva, lo sguardo duro. Sembrava sul punto di fare qualcosa di estremo, il pugno destro che si alzava appena. Baby trattenne il respiro e chiuse gli occhi, preparandosi all'impatto.
Ma il colpo non arrivò.
Con uno sbuffo esasperato, Varrick lasciò andare la felpa strappata, e Baby quasi crollò a terra. Prima che potesse riprendersi, però, lui la afferrò di nuovo, questa volta per le braccia, sollevandola come se non pesasse nulla. Baby sgranò gli occhi, il cuore che martellava nel petto.
Poi, con un gesto deciso, l'uomo prese il suo braccio tra le mani. Baby si dimenò, cercando di allontanarsi. "Ehi! Lasciami!" protestò, ma la sua voce tremava più di quanto volesse.
Varrick non si lasciò impressionare, girandole il braccio prima a destra, poi a sinistra, osservando l'impianto che lo ricopriva. I suoi occhi erano come raggi X, analizzando ogni imperfezione, ogni segno di usura.
"A quanto risalgono questi impianti?" chiese infine, con un tono che era un misto di curiosità e disprezzo. Scosse la testa prima che Baby potesse rispondere. "Sono così vecchi che non credo nemmeno di avere i pezzi di ricambio."
Baby rimase in silenzio, i suoi occhi umidi che fissavano il pavimento. Sentì le mani di Varrick allentare la presa, per poi lasciarla andare, ma il suo cuore non smetteva di battere furiosamente.
Fece un passo indietro, le parole che le uscivano a fatica, quasi balbettando: "Mi dispiace, ora me ne vado—"
Un'occhiata fulminea di Varrick, fredda come acciaio, la zittì sul posto. Poi, senza aggiungere nulla, si voltò, camminando con una calma che sembrava assurda per la tensione del momento. Si diresse verso il lettino metallico, posizionato accanto a un banco di attrezzi. Baby rimase immobile, osservandolo mentre si muoveva. La luce fioca illuminava la sua figura possente, e per un istante si ritrovò a fissare come i muscoli delle sue spalle e della schiena lavorassero sotto il tessuto aderente della maglietta.
Un tintinnio la fece trasalire: Varrick stava maneggiando qualcosa. Forse un bisturi, o chissà quale strumento. Baby sentì un brivido lungo la schiena. Rimase indecisa, la mente le urlava di scappare, ma le gambe non si muovevano. I suoi occhi vagarono di nuovo verso la porta, valutando una fuga, quando la voce di Varrick ruppe il silenzio.
"Intendi venire qui, o devo trascinarti io?"
Baby spalancò gli occhi, incredula. "C-come, scusa?"
Varrick sbuffò, il suo tono carico di irritazione. "Anche sorda, oltre che piagnucolona. Ottimo."
Baby si sentì colpita nel vivo. Serrò i pugni, cercando di ritrovare un briciolo di dignità. "Ho sentito!" protestò. "E comunque non ho nessuna intenzione di farmi tagliare a pezzi. Grazie lo stesso."
Varrick scosse la testa, come se fosse stanco di spiegare l'ovvio. "La mia intenzione," disse con una calma glaciale, "è di sistemare il rottame che hai in corpo prima che ti uccida lui."
Baby si bloccò, sbigottita. "Vuoi... ripararmi?"
Varrick si voltò verso il banco, ricominciando a trafficare con gli strumenti. Il suo tono di voce sembrava essersi leggermente ammorbidito, anche se restava privo di qualsiasi traccia di calore. "Ho fatto un giuramento. Non posso lasciare andare un paziente proprio nel momento in cui ha più bisogno del mio aiuto, sarebbe come ucciderlo. E io non uccido le persone. Le riparo, le aiuto," disse, prima di lanciarle uno sguardo tagliente. "Anche se sono incoscienti senza un soldo in tasca."
Baby lo fissò, sempre più incredula. La sua mente vacillava, incapace di processare ciò che aveva appena sentito. Poi, con passi lenti e incerti, si avvicinò di qualche passo. "Vuoi ripararmi... gratis?"
Varrick sbuffò di nuovo, quasi infastidito dalla domanda. "Non ho mai detto gratis." Si voltò per un istante, incrociando il suo sguardo con il solito cipiglio severo. "Mi ripagherai."
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