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Prologo

"Non è morto ciò che in eterno può attendere, e col volgere di strani eoni, anche la morte può morire."

In quel dolente limbo, laddove il tempo pareva fermarsi e deformarsi lentamente tra le sbarre di un cielo color pastello, vi aveva sempre vissuto, come spettatrice di un'attrazione scordata da tutti, un'eterna orchidea perita lì da tempo.

Di colpe non ne aveva per essere lì, se non di appartenere, come un ricordo lontano, al creatore del suo errore; un ragazzo come lei che, per timore di non trovare pace, l'aveva rinchiusa al suo interno pur di potere proseguire con la sua beata monotonía.

Non sapeva però che lei lo stesse ancora aspettando, attendendolo in quella sua triste, fiabesca prigionia per quello che si era rivelato essere un intero decennio, nel mentre che il mondo cominciava, seppur sotto il suo malinconico sguardo, ad abbandonarla lentamente a sé, evolvendosi e staccandosi lentamente in due realtà equilibrate.

Il suo corpo, ormai parte di una brezza istantanea, aveva trovato pace nel freddo abbraccio del terreno, ma il suo spirito, pur essendo perenne, non sarebbe mai vissuto lì a lungo: nel momento in cui il varco sarebbe stato superato, ricongiungendosi così con la persona che l'avrebbe liberata, si sarebbe redetta distruggendo così quel folle regno, e come in una favola, ricevere così il suo tanto voluto lieto fine.

Qualcosa sembrò rinascere in lei quando conobbe, in quell'estate di un secolo ormai giunto al termine, un assai bizzarro gruppo di persone.

Quasi come dei supereroi, possedevano delle abilità tali da poterla vedere e sentire, ognuna originale e forte a modo suo, e al tempo stesso, i pregi e difetti di coloro che essi erano, quasi come una sola entità, un cuore dorato che pulsava di orgoglio, compassione, tenacia e amore.

Fu così che Reimi entró a far parte di quella strana famiglia, aiutandosi a vicenda per scovare colui che avrebbe permesso la sua liberazione.

Non passò molto tempo che, quasi come per miracolo, egli venne finalmente trovato e, dopo quelli che si sarebbero tenuti essere gli eventi di una saga di combattimento, giungere finalmente nel suo mondo.

Fu proprio in quel dolente limbo che i loro sguardi si ricongiungensero nuovamente fra loro; l'uno dinanzi all'altra, finalmente abbracciati, per ironia della sorte, dallo stesso destino che li avrebbe presto condotti nell'Ade perenne.

Lui, nella sua pienezza di uomo, sapendo seppur dov'era, capiva a stento la sua presenza in quel regno distopico, così come, con un lieve, punzecchiante, senso di angoscia, la percezione di irrealtà che avvertiva all'interno del suo corpo, il quale, anche se lentamente, sembrava alleggerirsi diventando piano piano un'entità assente come il vento.

Ancor più a stento fu, però, tentare di riconoscere la familiare figura dinanzi a lui, una presenza che stava rientrando, con assillante esitazione, sempre più dentro nei meandri oscuri della sua memoria.

Un nome, un'immagine, e fu tutto più chiaro: Reimi Sugimoto, la sua prima vittima.

Per lui era stata come l'ascesa di una lenta passione giovanile, che aveva amato-eccome se aveva-in ogni lieto e gioioso istante della sua triste adolescenza: quando la incontrava davanti ai cancelli di scuola, quando la vedeva parlare con le sue amiche, quando sorrideva a delle sciocche battute, quando giocava con il figlio dei vicini, quando rincuorava chi, come lei, temeva o aveva un cuore affranto e spezzato.

Amava il suo portamento, femminile ed innocente com'era, la sua passione per i dolci, il corpo snello e dal volto rotondo e soffice come una pesca.

Amava poco le sue mani, pallide, sempre sporche e rigate di qualcosa, imperfette, che di certo, se fossero state più belle, gli sarebbero appartenute per sempre.

L'amava così tanto da averla accettata così com'era, nella sua solidale spontaneità, esattamemte come aveva fatto lei, nel suo rifiuto di giudicarlo com'era come il solo ragazzo perfetto nella sua banale normalità.

L'amava da lontano, quando era nel banco opposto al suo, e da vicino, quando lo salutava la mattina e il pomeriggio prima di andare via.

L'aveva amata così tanto che, alla fine, aveva iniziato a seguirla nel suo solito vicolo per tornare a casa, restando ore e ore ad ammirarla, come la bella orchidea che era, tra le vetrate delle finestre della sua abitazione, la stessa in cui, una notte, vi entró per potersela prendere e portare via con sé.

Sapeva che non si sarebbe opposta, ma che al suo posto qualcuno lo avrebbe fatto per lei; per questo aveva soffocato nel sonno con ferocia i suoi genitori; per questo aveva sgozzato, ed appreso sul portabiti il suo amato cane; per questo aveva lasciato scappare quel mocciosetto di quattro anni, lo stesso che lei, al posto della sua stessa vita, aveva scelto di salvare più di ogni altra cosa.

Ma perché, nonostante tutto, lei sembrava avere paura di lui?

Perché percepiva in lei un tale senso di odio e ribrezzo?

Non lo poteva accettare, lui la amava.

E l'ha amata ancora che, con lo stesso coltello macchiato di un visivo sangue, tingeva sulla sua pelle un taglio netto che le trinciava la schiena, tagliandole di netto il cuore e i polmoni, per poi prenderla fra le sue braccia e lasciarla, con un bacio casto e rude, nella sua nuova casa, il dolente limbo.

Fu allora che, nell'istante in cui le mani del giudizio lo raggiunsero per portarlo giù nell'eterno oblio, che si ricordò di lei, del suo sguardo luminoso, e della sua dolce ed ineludibile allegria.

Non poteva lasciarla sola laggiù, non voleva perderla un'altra volta: prendendola con forza, ella si fece trascinare così con lui, tramutando i loro corpi, e le loro essenze, in una sola cosa nell'eterna città della sofferenza, laddove tutto era per sempre, e niente era lieto.

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