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𝐗𝐈𝐕. 𝐃𝐚𝐦𝐧𝐚𝐭𝐢𝐨 𝐌𝐞𝐦𝐨𝐫𝐢𝐚𝐞

Musica consigliata: "The Best (Extended Mighty Mix)" di Tina Turner.

https://youtu.be/2BMQYhXmf5I

«Torna qui, stronzetto di Atlanta!»

Andrew imboccò il corridoio a sinistra e quasi scivolò nella foga di quella corsa alla quale non avrebbe retto ancora a lungo. Non era di certo un atleta e i suoi problemi di salute non gli permettevano di fare chissà quali prodezze, ma di fermarsi e farsi prendere a pugni e calci non se ne parlava nemmeno. 

I suoi inseguitori erano due dei ragazzi che tre giorni prima aveva visto confabulare durante l'ora di Francese, quelli che più di una volta avevano lanciato sospettose e indignate occhiate a lui e ad Alex. Alex che quel giorno purtroppo non era venuto a scuola perché doveva aiutare il padre e Christian con alcuni preparativi per le nozze. E pensare che giusto il giorno prima Andrew avesse passato una giornata più che tranquilla e piacevole in compagnia di Woomingan che gli aveva chiesto di recarsi assieme a Enswell per dargli una mano a scegliere un completo per il matrimonio del padre. A entrambi era occorsa molta forza d'animo per rimanere seri e concentrati, specialmente se si consideravano tutte le volte in cui Alexander aveva fatto lo scemo o il malizioso a bella posta. Per un attimo Andrew si era sentito a un passo dal voler raggiungerlo, spogliarlo lì, nel bel mezzo del salottino dell'elegante boutique e fargli passare la voglia di stuzzicarlo a quel modo in mille e più maniere. 
Alla fine aveva consigliato ad Alexander di optare per una fresca e giovanile tinta azzurro pastello, a suo modo tenue e delicata, perfetta per l'occasione. Visto che era stato invitato alle nozze e aveva scelto di accettare di accompagnare all'evento Lexie, non aveva potuto far altro che scegliere per sé abiti quasi del tutto simili, anche se personalmente avrebbe preferito indossare come al solito colori assai più cupi e meno appariscenti. 

Da allora era andato tutto liscio, finché quella mattina non era iniziato un autentico incubo perdurato sino a quel preciso istante, ovvero nel bel mezzo dell'intervallo.
Appena l'avevano visto quei lestofanti avevano preso a punzecchiarlo con cattiverie gratuite alle quali Andrew aveva provato in ogni modo a non reagire, ma nell'attimo in cui lo stesso Alex era stato coinvolto e definito un coglione senza spina dorsale che aveva iniziato a farsela con la femminuccia della scuola, ecco che qualcosa era scattato in Collins: era scattato e aveva invitato caldamente quegli idioti a chiudere la fogna, aggiungendo che non avessero alcun diritto di parlar male di Alexander. Dapprima volentieri si sarebbe dato da solo una pacca sulla spalla per aver saputo rimetter una buona volta a posto quei ceffi, ma si era poi reso conto di essersi procurato un biglietto di sola andata per l'infermeria o, peggio ancora, per l'ospedale.

Si era sempre ripetuto che una volta o l'altra la sua irrefrenabile lingua lo avrebbe messo nei pasticci e quella pareva proprio essere la volta buona. Il punto era che nessuno, neppure lui, era dotato di una tale pazienza da passar sopra a lungo su determinate faccende e quei due bastardi se l'erano cercata a più riprese. Era un pacifista, ma ciò non voleva dire che non si dovesse reagire alle vessazioni e ai soprusi né rinunciare a lottare per un po' di giustizia. 

Ignorò la milza che minacciava di esplodergli da un momento all'altro e lanciò una veloce occhiata alle proprie spalle. Dannazione, lo stavano ancora seguendo!
Accelerò, facendosi strada nella fiumana di ragazzi che se ne stavano lì, belli e tranquilli, a chiacchierare e a farsi gli affari propri.
Neppure uno di loro, scorgendo alle sue calcagna ben due bruti con addosso il logo della squadra di football, si offrì di dargli una mano o almeno cercare di far ragionare una coppia di scalmanati dotata più di muscoli che di cervello.
Se ne stavano a guardare oppure, peggio ancora, si facevano da parte, come a non voler avere nulla a che fare con la faccenda.

Non che fossero tutti quanti loro un manipolo di complici collusi o che detestassero Andrew in sé per sé, ma, come ben si sapeva, troppo spesso molti sceglievano di guardar altrove anziché rischiare di attirare anche su di sé le sgradite attenzioni dei bulli. Non era poi così diverso da ciò che accadeva quando i membri di una gang di strada venivano visti dare il peggio di sé. 
Solo in un mondo ideale l'onestà ripagava. In quello reale, purtroppo, vigeva la totale omertà e prova ne fu che alla fine Andrew venne agguantato al volo da uno dei due sportivi.
La sua schiena ebbe una sgradevole e dolorosa collisione con il muro. 

«Ti insegniamo noi a rispettare quelli normali, finocchietto

Collins restrinse lo sguardo. «Ma andatevene a fare in culo!» ringhiò, cercando di spintonare via il tipo. «Non meritate rispetto, per quel che mi riguarda!» Tentò di sgusciare via, ma venne risospinto indietro con prepotenza. «Dove pensi di andare, eh?» gli ringhiò addosso il più alto dei due, sollevando un pugno per colpirlo. 
Andrew serrò gli occhi, pronto a incassare il colpo che avrebbe spianato la strada, forse, a un pestaggio in piena regola, ma riaprì le palpebre non appena capì di esser magari stato per una volta graziato dalla sorte. 
Vide una mano pallida serrata sul polso del bullo e ripercorse dunque con lo sguardo il braccio, la spalla e infine il viso del professor Glamis. Le iridi azzurre dell'uomo parevano accese di severo, sdegnoso rimprovero e fredde, taglienti. «Che sta succedendo qui?» domandò il professore. «Lasciatelo andare immediatamente» ordinò poi ai due lestofanti con gelida compostezza, quella di chi mal tollerava comportamenti del genere fra le mura di una scuola. 

Poco ma sicuro, quel giorno non sarebbe stato Andrew a vedersela brutta. 

Il bullo strinse gli occhi a fessura con aria di sfida, ritrasse il braccio e alla fine le sue dita mollarono la presa su Andrew, il quale tirò un sospiro di sollievo. «Non finisce qui» sibilò Jason Corner, ovvero il migliore attaccante che i Big Lizards avessero mai avuto negli ultimi vent'anni. Non era solo questo, ma era addirittura diventato il nuovo capitano della squadra dopo che Alex aveva scelto di abbandonare il football definitivamente, lasciando sì e no la strada spianata a Corner che spesso lo aveva rivaleggiato e aveva cercato in ogni maniera di buttarlo giù dal cosiddetto trono, pur fallendo ogni volta. La sola cosa che doveva riconoscere a quello sgorbio di Atlanta, si disse Jason, era che senza volerlo gli avesse dato una gran bella mano a liberarsi di quell'irritante primadonna di nome Woomingan che non aveva fatto altro che metterlo in ombra sin da quando era entrato nella squadra. 
Per quel che riguardava il resto, era sì disgustato dall'indiretto coming out di Woomingan, ma non stupito. Quello là non gliel'aveva mai raccontata giusta e non aveva tardato a rivelarsi per quel che era realmente.
«Tu e la Principessina Bionda farete meglio a guardarvi le spalle, d'ora in avanti» aggiunse provocatorio. Guardò un'ultima volta con sdegno Andrew, si risistemò il giubbotto con aria da spaccone, giusto per ricordare al resto dei compagni di scuola chi fosse a comandare e se ne andò, seguito dal suo amico-galoppino che invece rispondeva al nome di Patrick Doyle.

Glamis scosse il capo tra sé con aria critica prima di scoccare un'occhiata fosca agli alunni che si erano radunati attorno a loro. «Mi meraviglio di voi altri» fece severo e nessuno ebbe la faccia di bronzo di giustificarsi. Non c'era niente da dire, dopotutto. «Un vostro compagno si trovava in difficoltà e voi non stavate facendo nulla per aiutarlo. Se non fossi arrivato io, a quest'ora sarebbe finito in infermeria o all'ospedale. Vergognatevi, almeno.» Sospirò. «Il preside verrà a risapere di questa situazione, statene certi. Ora sparpagliatevi, di grazia.»

I liceali non se lo fecero ripetere due volte e si allontanarono. Glamis, dunque, tornò a concentrarsi su Andrew e gli fece segno di seguirlo. Raggiunto un corridoio più tranquillo, poco distante dalle scale che conducevano giù alla palestra, l'uomo scrutò il giovane Collins. «Meno male che sono intervenuto in tempo, appena prima che ti conciassero per le feste» decretò, facendo ritorno a un tono di voce più pacato. 
Solo allora Andrew distinse in lui un accento che non sembrava affatto di quelle parti né di altri posti in America. Non che Glamis incespicasse in determinate parole, anzi parlava fluentemente e in modo impeccabile, ma in determinati momenti ecco che un barlume della sua dura e gutturale lingua madre tendeva a palesarsi e a rivelare le sue provenienze straniere, quasi di sicuro tedesche. In fin dei conti il suo stesso aspetto fisico rimandava a quella di una persona nata e cresciuta in Germania: i tratti del suo viso erano affilati e spigolosi, per quanto gradevoli e nel complesso lo rendessero un uomo oggettivamente bello e i capelli erano di un biondo molto chiaro nel quale era difficile accorgersi dei sottili filamenti d'argento all'altezza delle tempie. 

Il ragazzo si umettò le labbra e fece un breve cenno con la testa. «Grazie, professor Glamis» disse poi, senza menar troppo il can per l'aia. Gli aveva salvato la pelle, perciò, congetture bislacche a parte, era lecito e giusto ringraziarlo. 

Glamis abbozzò un sorriso. «Di nulla, ma ti consiglio di non tentare di nuovo di provocare quelle teste calde. Oggi sei stato fortunato, ma non sempre va così. Spero tu capisca cosa intendo» replicò, scambiandosi con lui uno sguardo di seria intesa. 

Andrew annuì e mantenne il contatto visivo. «Tutto chiaro.» Non serviva che fosse Glamis a dirgli che la prossima volta avrebbe dovuto tenere la bocca sigillata con quei due scimmioni scalmanati. Il suo ultimo desiderio era di ritrovarsi di nuovo fra le loro grinfie e pur sapendosi un minimo difendere, nulla poteva contro un intero gruppo di bulli pronti a suonargliele solo perché respirava o si rifiutava di adeguarsi ai loro standard di provinciale normalità. Al diavolo tutti loro. Lui era fatto com'era fatto e non doveva a nessuno di loro spiegazioni né scuse. 
L'unico dubbio che covava dentro era se riferire o meno ad Alex dell'accaduto. Non per la cosa in sé, ma per il concreto rischio che quella testa calda di fidanzato che aveva decidesse di andare a cacciarsi in un colossale pasticcio. Cosa sarebbe accaduto se Jason avesse deciso di chiamare a raccolta i rinforzi al completo, poi? Per Alex si sarebbero messe molto male le cose, a quel punto.
Ormai Andrew lo conosceva, sapeva com'era fatto e sapeva che non avrebbe chiuso un occhio su una cosa come quella. Una situazione simile andava a nozze con il carattere infiammabile di Woomingan e Jason, forse, non aspettava altro che Alex accendesse la miccia. 

Glamis inclinò di lato il capo e disse qualcosa che riportò alla realtà Collins: «Lo sai che somigli a una persona che ho conosciuto alcuni anni fa?»

Andrew fece del proprio meglio per non sfoggiare un'espressione genuinamente stralunata. Di tutte le cose che aveva sentito nel corso della breve esistenza che aveva alle spalle, quella era senza dubbio la più strana mai udita. «Io... uhm... mi scusi, ma non capisco.»

Glamis si strinse nelle spalle. «Mi ricordi una signora. Si chiamava... Sophie, mi pare. Me la ricordi perché avete lo stesso colore degli occhi e anche la stessa ossatura facciale. Per caso siete parenti? Di cognome faceva addirittura Collins, proprio come te.»

Lo studente batté le palpebre, non sapendo se esser impressionato di fronte allo spirito d'osservazione dell'uomo o provare inquietudine. Quella faccenda iniziava sul serio a risultare bizzarra. «Beh, sì, mia nonna si chiama Sophie Collins, in effetti.» 

Glamis sorrise raggiante, le sue chiare sopracciglia inarcate per la sorpresa. «Questo sì che si chiama il caso! Potresti salutarmela? È da tanto che non la vedo».

Andrew di nuovo avvertì il sospetto serpeggiare dentro di lui, ma non lo diede a vedere. Davvero curioso che quel professore conoscesse sua nonna, così bene da averne individuato l'eredità genetica addirittura in suo nipote. Curioso e da tenere bene a mente. 
Decise di stare al gioco e si finse dispiaciuto. Meglio essere cauti, molto cauti. «Sono molti anni che non ci sentiamo. Non so neppure se sia ancora viva, in tutta franchezza.» Non era uno scemo e non avrebbe iniziato a esserlo proprio nel momento meno opportuno. Ci voleva ben altro per gettargli fumo negli occhi e ora era arcisicuro che quell'uomo non la stesse raccontando giusta. 

Glamis fece un cenno, rattristato. «Oh, capisco.» 

Drew mai fu più sollevato di udire il trillo della campanella segnalare la fine dell'intervallo. «Devo andare, ora. La ringrazio ancora per avermi dato una mano con quei due bulli.» In realtà aveva fretta di andarsene e di allontanarsi da lì. Il suo istinto gli stava urlando un'unica cosa: di stargli lontano, a debita e grande distanza. Riconosceva al volo i tipici segnali: mani formicolanti e sensi all'erta senza una reale e apparente ragione. Quello, si disse, era il suo subconscio impegnato a segnalargli qualcosa che non andava o persino... un pericolo in vista.

«Aspetta!» Glamis lo fermò per un braccio e tale contatto fece rabbrividire non poco il ragazzo che sentì il cuore mancare un battito. Attraverso la stoffa della maglietta che indossava quel giorno poté giurare che la mano del professore fosse gelida. Era molto, molto fredda. Così fredda che neppure gli indumenti riuscivano a mascherarne il gelo. 
V'erano mani che semplicemente soffrivano di problemi di circolazione e tendevano a spandere poco calore e poi... beh, una temperatura corporea che di normale non aveva un bel niente. 
Solo per un secondo, uno soltanto, nella mente del giovane Collins riaffiorò lo spiacevole e doloroso ricordo dell'esanime e immobile mano di suo padre stretta nelle dita. Ricordava ancora di aver salutato a quel modo un'ultima volta Markus prima di andarsene e impedire a se stesso di assistere anche alla tumulazione. 
Era stato il suo primo incontro ravvicinato con la morte e ciò che essa rappresentava, ciò che significava: assenza di vita, di calore e di volontà. 
L'unica differenza con il presente? Nella mano che gli stringeva il braccio di volontà ve n'era eccome.

Era assurdo, ridicolo e contro ogni logica, ma quelle parevano le dita di un morto tornato chissà come in vita!

Torna in te, Andrew, si ammonì. La sua mente razionale e cinicamente aggrappata alla realtà rigettava a priori il semplice indugiare in simili fesserie come i morti viventi e affini. I morti non tornavano dalla tomba e men che meno trovavano lavoro in una scuola!
Perché, dunque, il formicolio non faceva che aumentare, tanto da iniziare a risultare doloroso e fastidioso? Perché si sentiva vulnerabile? Perché il suo cuore batteva freneticamente come quello di un coniglio che, dentro la tana, pregava che la volpe rinunciasse alla propria caccia e si allontanasse in fretta?

Non era affatto una bella sensazione. Era raggelante, terrificante.

Rimase fermo dov'era, ogni singolo muscolo del suo corpo teso e pronto a scattare mentre buonsenso e istinto primordiale, dentro di lui, si prendevano a pugni sul ring. 

«Se mai risentissi tua nonna, potresti dirle che la saluto e magari di chiamarmi? Fa sempre piacere sentire una voce amica» disse Glamis, quasi pregandolo, ma Andrew, in un angolo del cervello, qualificò il suo tono supplichevole come falso o non del tutto sincero. 
Qualcosa decisamente non quadrava, ma non doveva farsi prendere dal panico. 
Si volse e annuì. «D'accordo, glielo riferirò» replicò stringato. «Posso andare, ora?» aggiunse, sempre con voce calma. 

Glamis ritrasse la mano e fece un cenno d'assenso. «Certo che sì. Perdonami.»

Senza riuscire a scrollarsi di dosso la sensazione che forse lui e Alex avessero ragione a credere che Richard Glamis fosse una persona sospetta e un bravo, ottimo bugiardo, Andrew procedette a passo cadenzato fino a quando non ebbe svoltato l'angolo. Solo a quel punto corse perdifiato fino a raggiungere il bagno più vicino nel quale si barricò, assicurandosi di aver poi girato la chiave. 

Col respiro corto, mani e gambe tremanti, scivolò lungo la porta e lì rimase. Dire che fosse scosso sarebbe stato riduttivo. Le parole di Glamis su sua nonna erano suonate fin troppo strane e le coincidenze, a quel mondo, talmente erano rare da sconfinare nella mitologia.
Ragionando lucidamente... quante concrete possibilità v'erano che proprio un conoscente di sua nonna fosse per puro caso approdato proprio a Hanging Creek, fra tutti i posti presenti in America e sull'intero pianeta?

Il mondo non poteva essere così piccolo e Andrew si rifiutava di offendere la propria intelligenza credendo nel contrario.

«Drew?» 

Si riscosse dai pensieri che lo avevano risucchiato come sabbie mobili ancor prima di rimontare in auto dopo la settimanale trasfusione che aveva dovuto fare, come ogni giovedì. 
Fuori dal finestrino il cielo era di nuovo grigio e smorto e iniziava a fare freddo, ma nulla di paragonabile a cos'aveva avvertito Andrew quando Glamis lo aveva toccato.

Collins sospirò e rivolse ad Alexander un'occhiata mortificata. «Io... scusami. So di non esser di compagnia, oggi, ma non lo faccio apposta e credimi... non ce l'ho con te.»

Woomingan, notando in lui un appena percettibile brivido, scelse saggiamente di azionare il riscaldamento all'interno dell'abitacolo. Lo scrutò preoccupato mentre, al tempo stesso, teneva d'occhio la strada che li avrebbe presto condotti a casa dei Collins. Fece un respiro profondo. «Ti va di dirmi che succede?» gli chiese conciliante. Una cosa di cui tanti, lui a parte, si erano accorti era che da quando frequentava Andrew fosse via via diventato sempre più paziente e disposto ad ascoltare. «E non dire che non c'è niente che non vada. Sai che non è così.»

Andrew si mordicchiò il labbro inferiore. In parte era spossato per via di tutte quelle maledette medicine e la trasfusione lo aveva come sempre scombussolato, ma per una volta v'era ben altro al centro dei suoi pensieri. Si sfregò la fronte. «D'accordo, mi hai beccato.»

«Dunque?»

«Non lo so, Lexie. Sto ancora ripensando a ieri mattina e... più ci penso e meno capisco!» sbuffò Collins, esasperato. «E sono a tanto così dal credere di star perdendo la testa e poi... beh, mi torna in mente cos'è successo a te al parco e se solo per un secondo mi azzardo a dare ascolto alle mie assurde teorie, ecco che vado nel panico.»
Se per assurdo Glamis fosse stato il vero responsabile degli omicidi, allora ciò significava che erano in pericolo. Alex lo era! 
Come poteva mantenere il sangue freddo quando il pensiero che potesse succedere qualcosa di male al suo fidanzato lo atterriva?

Alex scelse saggiamente di non sbilanciarsi. Così come non gli andava di saltare a conclusioni affrettate, non voleva neppure che Andrew si convincesse di esser da solo in quel crogiolo di dubbi e di paura. «Mhm... beh... quel Glamis di sicuro è un tipo strano e cos'è successo ieri lo conferma. Capisco la tua ansia, credimi. E poi te l'ho detto: a me, personalmente, dà i brividi ogni volta che lo incrocio in corridoio e per fortuna accade di rado.»

«Non proprio strano» si permise di dissentire Andrew, criptico e sepolcrale. Gli si leggeva in faccia che il suo cervello era impegnato nel macinare elucubrazioni a non finire e benché Alexander sapesse bene di esser inopportuno, da un lato non poteva far a meno di trovare quel ragazzo sexy quand'era corrucciato e perso nei pensieri. 
Si impose di darsi un contegno e di rimanere concentrato su problemi ben più seri e incalzò: «Che vuoi dire?»

Collins contrasse la mascella, scosse il capo e sospirò. Quei pensieri avevano finito col fargli venire un bel mal di testa, e tanti saluti al voler trascorrere un po' di tempo in santa pace con il suo ragazzo. «Non lo so, ma lo trovo inquietante. Pensaci, Lexie: come ha fatto a ricollegare il colore dei miei occhi, la mia stessa ossatura facciale, a mia nonna? Insomma... nessuno guarda chicchessia negli occhi e dopo un secondo fa le domande che ha fatto lui! Che razza di argomento di conversazione è?»

Alex respirò a fondo e arcuò le sopracciglia bionde: «Beh, devi ammettere che una sfumatura come la tua sia piuttosto rara, no?» Il suo obiettivo non era spezzare una lancia a favore di Glamis, ma di provare a guardare l'insieme sotto una luce imparziale.

«E mi sta bene, ma perché uscirsene così? Ti sembra un atteggiamento normale, specie trattandosi di un professore?»

«No, non lo è affatto.» Alexander esitò. «Io... sinceramente ho quasi paura di lui. So di non esser affatto un cuor di leone, in generale, ma...»

«Fidati, so di cosa parli. È successo anche a me, ieri mattina.» Andrew lo guardò. «Sai cosa potrebbe significare se per assurdo...?»

«Lo so, ma se anche si trattasse del nostro amico psicopatico, cosa potrei mai fare? Barricarmi in casa finché non verrà inchiodato grazie a un miracolo?»

«Se c'è una cosa che so, grazie alle ricerche fatte su serial killer e compagnia cantante, Alex, è che un assassino seriale rimasto a bocca asciutta, a volte, potrebbe tornare per reclamare chi non è riuscito a uccidere al primo colpo. E se ti aggredisse?»

«E come?» Woomingan sogghignò. «Rifilandomi un'insufficienza?»

«Lex...»

«Senti, ho paura quanto te, soprattutto per te, ma ho bisogno di credere che almeno dentro le mura di scuola siamo in salvo come lo sarebbero dei fedeli all'interno di una chiesa mentre Satana scorrazza per il mondo. Mi segui? Devo crederci o mi toccherà prendere degli ansiolitici per tirare a campare.» Alex si accorse subito di quanto poco apparisse convinto Andrew. «Ma andiamo! So esser attento, se voglio!»

«Uh-uh, come quella sera al parco, vero? Sei stato talmente attento che a momenti ci rimettevi le penne.»

«Non ero neppure in me!»

«Ora che ci ripenso, devo ancora dirne quattro a Brian per avermi mentito riguardo alla tua presunta capatina a Enswell.»

«Beh, prenditela con me. Lui avrebbe voluto dirti la verità.»

«Eppure non l'ha fatto.»

Alexander gonfiò le guance e sbuffò. «Lo so che hai bisogno di distrarti, ma datti una calmata.»

Andrew si pizzicò il ponte del naso e fece un respiro profondo. «D'accordo, hai ragione.»

L'altro si sporse e gli sfiorò con le nocche il viso. «Ehi, lo capisco che sei stressato e preoccupato, ma vediamo di non perdere la testa, okay?»

Drew agì d'istinto e si portò la sua mano alle labbra, baciandone il dorso e abbandonandovi sopra la fronte. Un altro lungo respiro. «Devo vederci chiaro e a questo punto conosco un solo posto dove mi è al momento possibile indagare come desidero.»

Woomingan sorrise, lieto di vederlo tornare sui binari della logica. «Dunque, Sherlock?» lo punzecchiò.

«Dunque, mio caro Watson, ora entri in casa mia e mi aiuti a frugare nelle cose di mia madre. Ha un'agenda dove tiene i numeri di telefono e magari, fra di essi, troverò quello di mia nonna.»

Alex lo fissò a bocca aperta. «Aspetta un attimo! Cosa? Non ci penso neanche a frugare nella biancheria di tua madre!» esclamò con voce stridula, un po' contrariato e un po' divertito.

Collins lo squadrò malamente. «Ma dai, Lex! Non sto dicendo di dover guardare nella sua biancheria!»

«Va bene, ma se maledettamente torna e ci scopre poi sì che ci sarà da ridere.»

«Menagramo.»

«Gne gne, menagramo, gne gne.»

«Mi stai imitando?»

«No!» Alex spalancò gli occhi con finta enfasi e si trattenne dallo scoppiare a ridere. «Perché lo pensi?»

«Mah! Chissà!»

«Sei davvero un malfidato.»

Si scambiarono un'occhiata e risero entrambi di gusto. Quando si furono un po' calmati, Lex gli chiese, cercando di non suonare apprensivo: «Comunque... come ti senti? Se vuoi, non appena arriviamo a casa tua, ti faccio qualcosa di caldo». Non era molto, ma sempre meglio di niente e odiava sentirsi inutile. «Ho detto una fesseria, giusto?»

Andrew provò a non ridere, ma fallì. «Ora», fece, «sembri sul serio mia madre!»

«Oh!» Alex approfittò del fatto che fossero finalmente giunti a casa Collins per spegnere l'auto, sporgersi e rifilare un ceffone sulla spalla del coetaneo. «Sai cosa? Non ti parlo più!»

«Mhm, certo.» Per farlo stare almeno un secondo zitto, Andrew affondò una mano tra i suoi capelli, lo spinse verso di sé e gli rubò un bacio al volo. «Sto benissimo, rilassati. Mai stato meglio, a dirla tutta.» Gli faceva piacere che il fidanzato si preoccupasse per lui, ma v'erano occasioni in cui Alexander sembrava un puro concentrato d'ansia. «Forse, uno di questi giorni, ti darò una mano a scaricare tutta questa... tensione.» Lo lasciò andare, gli fece l'occhiolino e smontò dall'auto, ben consapevole di averlo mandato in crisi e di star godendone non poco.

Eccolo lì, infatti, mezzo stordito e con le guance di un'accesa tonalità color papavero. Collins si appoggiò con il gomito alla macchina e se la prese comoda, molto comoda, nell'osservarlo mentre chiudeva la portiera e lo raggiungeva. «Woah! Ho trovato il modo per chiuderti la bocca, vedo!»

«Va bene, va bene! Basta allusioni sessuali o finirò per morire! Grazie!» sbottò stridulo Alexander, più rosso che mai. «E già che ci sei levati! Sei d'impiccio!» 

Andrew rise ed estrasse le chiavi dal giubbotto di pelle nera. «Peccato che sia io ad avere le chiavi di casa mia!» lo punzecchiò. Salì i gradini del portico dopo di lui e, giunto al portone, lo aprì mentre Alex non faceva che borbottare tra sé come una pentola oscure predizioni su come quella sorta di missione sarebbe terminata male, anzi malissimo, e altre cose che il suo coetaneo ebbe il buonsenso di non star a sentire. 
Si tolse la giacca e non si sorprese nel trovare vuota la casa, a quell'ora del giorno. «Va bene, va bene, mi hai fatto capire in ogni salsa di trovare la mia idea stupida, ma che ne diresti di darci un taglio?» si lamentò. Quando era troppo era troppo!

«Come ti pare! E meno male che eri tu il bravo ragazzo della porta accanto!» lo rimbeccò scontento Alexander. «Sei sicuro che non ci sia nessuno?»

L'altro annuì. «Mia madre tornerà verso le sette di stasera, ma... in realtà abbiamo tempo fino alle quattro del pomeriggio. Se mia sorella ci becca a frugare in camera della mamma poi sta' pur sicuro che glielo riferirà.» Quel giorno Samantha sarebbe rimasta a scuola per via del rientro pomeridiano e quello non era che l'ennesimo vantaggio che Andrew, sapientemente, era ben deciso a sfruttare. 

Alex, rilassandosi un poco, sbuffò una risata, pur in parte sovrappensiero: «Samantha è un po' ficcanaso o sbaglio?»

«Un tantino, ma del resto tutti i ragazzini lo sono. Io da piccolo non perdevo mai una sola occasione per curiosare qui e là. Come ti ho detto un po' di tempo fa, insieme a Skyler ne combinavo di tutti i colori e a non piacermi era il restarmene tranquillo.»

«A quanto pare, sotto sotto, sei ancora un po' malandrino.»

«E a te, sotto sotto, piace che io lo sia.»

«Non intendo negare né confermare.»

Lex si morse il labbro inferiore mentre salivano le scale dirette al piano di sopra. Fino ad allora non avevano mai avuto un vero e proprio appuntamento, a parte quella volta dell'invito accettato per puro equivoco e gli ultimi tempi in cui si vedevano per studiare insieme o, di nuovo, l'incontro a Enswell per scegliere gli abiti da cerimonia. Mai si erano visti fuori casa per il puro gusto di rimanere assieme per qualche ora. Voleva passare del tempo con Andrew senza che ci fossero incomodi come libri di scuola, completi da scegliere o sorelline dispettose, nulla togliendo alla piccola e adorabile Samantha. 

Si schiarì la voce e decise di farsi coraggio: «Andrew?»

«Mhm?»

«Hai qualche impegno per il trentuno di ottobre?» 

Infatti erano al ventitré e tra pochi giorni sarebbe arrivato Halloween. L'anno precedente Alexander aveva trascorso la serata a casa di Brian per guardare un bel po' di film dell'orrore e poi andare in discoteca in compagnia di Cole, Duncan e Francis, insieme ad Hanna e Natasha. I restanti membri del piccolo gruppo, all'epoca, non si erano ancora messi con una ragazza fissa. Solo lui e Brian ne avevano avuta una, ma le cose erano cambiate, come ormai ben si sapeva.

Brian ed Hanna erano in netta crisi di coppia, tipico dato l'egocentrico narcisismo di quella che era fra le ragazze più ricche e spregiudicate di tutta la scuola; lui, dal canto proprio, aveva mollato la presa su Natasha per trovare un vero diamante, ovvero il ragazzo di fronte al quale stava attualmente pressoché balbettando. Proprio non riusciva a impedire a se stesso di essere una vera e propria mammola con Andrew, anziché essere sicuro e spedito come gli era sempre capitato con le ragazze.

Proprio come poco dopo l'incontro con Glamis era impacciato, si stava mostrando in tutta la sua fragilità, in totale potere di un paio di occhi di giada.

La cosa pazzesca era che gli piaceva tutto questo.

«S-Sai, tra poco sarà Halloween e soprattutto ci sarà il tuo compleanno e... beh, insomma, mi chiedevo se per caso t-tu avessi voglia di passare la serata con me e festeggiare un po', e-ecco...» sputò infine il rospo, dondolandosi appena sul posto mentre Andrew continuava a guardarlo e a sorridergli in silenzio con quella tenerezza nello sguardo che lo faceva sciogliere alla pari di un ghiacciolo.

O stava facendo la figura dello scemo e lui gli stava sorridendo per non demolirlo del tutto, oppure...

«È per caso un appuntamento galante e nel tuo stile inconfondibile quello che mi stai proponendo, Lexie?» chiese a sua volta Drew, continuando imperterrito a sorridere. La luce calda che aveva negli occhi toglieva il fiato e Alex annuì un paio di volte. «Sì... è un appuntamento!»
Aveva già in mente cosa regalargli per il suo diciottesimo compleanno e anche se non avesse accettato, gli avrebbe lo stesso fatto un regalo. Era il minimo che potesse fare, no? E comunque Andrew non faceva che coccolarlo tutto il tempo e quella sera progettava di esser lui a far sentire speciale un ragazzo che era di per sé tale, pur senza rendersene conto.

Collins si strinse nelle spalle. «Mi pare un'idea ottima. Non ho alcun impegno e l'alternativa sarebbe rimanere da solo tutta la sera. Di sicuro Samantha vorrà andare a fare Dolcetto o Scherzetto come al solito e mia madre dovrà accompagnarla, quindi non avrei problemi. A casa mia?» Non riusciva a immaginare un compleanno migliore di quello che già da allora stava provando a figurarsi. 

Alexander sentì il cuore scoppiargli dalla gioia. Un sorriso pieno di entusiasmo e sollevato rischiarò il suo viso. «E casa tua sia.»

«Perfetto, allora» confermò Andrew, posandogli un breve e amorevole bacio sulle labbra prima di proseguire lungo il corridoio fino a raggiungere una porta. La aprì e fu il primo a entrare nella camera da letto di Scarlett. «Ho già una precisa idea di dove potremmo controllare» disse, tornando serio e concentrato. 

«Ovvero?» incalzò il coetaneo.

«Una settimana fa l'ho sorpresa a richiudere in fretta e furia questo cassetto qua.» Drew s'inginocchiò di fronte al cassettone dove la madre teneva le magliette, la biancheria e altro ancora; le mani si diressero immediatamente all'ultimo scompartimento, più sottile e quasi nascosto. Se solo lui non avesse saputo che si trovava lì, neppure lo avrebbe notato. Sollevò gli occhi verdi sul fidanzato. «Non credo che qui tenga i reggiseni, tu che dici?»

«Dico che se maledettamente torna, Drew, ci spenna!»

«Suvvia, più ottimista.»

«Spenna solo te. Dopotutto non sono io suo figlio.»

«Davvero ammirevole, Woomingan! Ti fa onore questo coraggio da leone!» lo stuzzico Andrew con un insopportabile mezzo ghigno stampato sul viso.

Lex lo squadrò con un sopracciglio sollevato. «Falla finita.»

Il moro soffocò una debole risata e decise di dargli un po' di tregua; appena ebbe aperto il cassetto, subito prese a frugarvi, aiutato anche da un reticente Alex. Dopo un po' trovarono qualcosa, proprio in fondo allo scompartimento: una cornice con tanto di fotografia e fu Lex a trovarla, per la precisione. «Drew! Questa non è tua madre?» esclamò, tendendogli la foto.

Andrew la prese e perplesso annuì. «Sì, è lei. Beh, un po' più giovane, ma è di sicuro lei. Non so chi sia il tipo accanto, però». Vicino a una giovane e sorridente Scarlett vi era un altrettanto giovane uomo che ad occhio e croce avrà avuto all'epoca sui venticinque anni. Molto avvenente, dall'aria sicura, un po' somigliava alla signora Collins e un po' a qualcun altro, ma non seppero ricordare chi.

Non fu solo quello a lasciar basito Andy, però. Furono gli occhi di quello sconosciuto a farlo rabbrividire: d'un azzurro brillante e chiarissimo, schegge di puro e freddo ghiaccio. Quasi... violetti, simili a fiordalisi appena sbocciati.

«Chi credi fosse quel tipo?» lo riportò al presente Woomingan.

«Non ne ho idea, ma... non lo so, ha un'aria familiare. Mia madre ha sempre ripetuto di essere figlia unica e nemmeno la nonna ha mai detto di avere un altro figlio, tra l'altro. Non sapevo di avere uno zio, credimi.»

«Forse c'era un motivo valido, se non l'hanno mai neppure nominato» rifletté Alex.

Drew lo guardò. «Chiunque fosse, è ovvio che lui e mia madre fossero fratello e sorella. Si somigliano, seppur leggermente. Dovette farla grossa per meritarsi questa damnatio memoriae.»

Lex storse il naso e inarcò un sopracciglio: «Damnatio che?»

«È latino.»

«E fin lì ci sono, ma che vuol dire?»

«In tempi antichi, alcune figure storiche vi furono condannate per azioni gravi o turpi. Era la massima pena, a parer mio. Non credo ci sia nulla di più terribile che esser dimenticati e vedere il proprio nome sparire da ogni singolo documento, incisione e reperti d'ogni genere. Per questo ho detto che il probabile fratello di mia madre combinò qualcosa di veramente grave. Pensaci, Alex: perché mai, lei, avrebbe voluto dimenticarlo, se non per un grave motivo?» 
Nel frattempo il giovane Collins si gingillò un po' con la cornice e riuscì ad estrarre la fotografia e ad esaminarne il retro. Fu lieto di trovarvi scritto qualcosa. «Qui dice "Scarlett e.... 1992, New Orleans.". Il secondo nome non riesco a leggerlo, è stato cancellato a penna ripetutamente, quasi... con rabbia.»

«Cristo, che roba!» sbuffò tra sé Alexander, inquieto. Ci stava capendo sempre meno e quella storia gli faceva venire i brividi. Fu il primo a tornare a frugare nel cassetto e a individuare qualcosa sporgere dalle pagine chiuse di un autentico album fotografico. Sembrava una fotografia, ma... era come se ne mancasse quasi la metà. «E questa?» La prese esitante e lesse prima le brevi parole incise sul retro. «Credo che si tratti sempre di tuo zio, Drew. Guarda.»

Vi era scritto, infatti: "Andrew e... 1998, New Orleans". Il nome, proprio come nell'altra immagine, era impossibile da leggere, ma data l'apparente brevità di ambo le scritte passate ripetutamente da colpi di penna a biro, era assai probabile che l'uomo che reggeva e stringeva a sé un Andrew neonato e placidamente addormentato fosse quel fantomatico fratello di Scarlett. Perché stabilirlo era impossibile? La fotografia era stata strappata e si interrompeva all'altezza delle clavicole della persona adulta che vi era stata immortalata. 

Andrew la esaminò, dubbioso. «Io... non credo che si tratti sempre di lui. Perché in quella foto è ancora ben visibile e qui, invece, mia madre ha rimosso direttamente un'intera parte, quella che avrebbe reso evidente l'identità dell'uomo che mi tiene in braccio?»

«In effetti non torna neppure a me, ma allora chi è? Un altro tuo parente? Magari uno zio da parte di tuo padre?»

«Non saprei. Per quel che ne so, papà era figlio unico e in quanto ai miei nonni, beh... sua madre morì quand'era lui stesso un bambino e suo padre prima che io nascessi. Non mi risulta che avesse altri parenti, nessuno che io potrei aver incontrato.» Per un attimo gli tornò alla mente un breve e fugace incontro avvenuto con un amico di Markus nell'ospedale dove quest'ultimo era stato ricoverato prima della morte, ma la persona in questione gli era parsa piuttosto giovane, sui venticinque al massimo, e in quella foto lui era nato da poco. Se anche così non fosse stato, il ragazzo che aveva intravisto per pochi secondi lo avrebbe dovuto riconoscere e invece neppure gli aveva rivolto la parola. Scartò dunque tale opzione e si ritrovò così al punto di partenza: chi era il secondo soggetto di quel ricordo immortalato per sempre in un piccolo e sottile riquadro? Perché era stato letteralmente tagliato fuori dalla sua vita, visto e considerato che sembrava tenerlo in braccio con affetto? Dubitava si trattasse di suo padre e non avrebbe avuto senso mutilare la fotografia, visto che aveva conosciuto eccome Markus.

Perché gli era stato impedito di conoscere ben due persone che, in un modo o nell'altro, si ricollegavano a lui? Perché non sapeva nulla di loro? Cosa nascondeva sua madre?

«Chiunque fosse, credo ti volesse bene, Andrew. Non riconosci questo?» 

Andrew osservò con maggiore attenzione e il suo cuore balzò dentro alle costole: attorno al polso dell'uomo v'era un bracciale molto familiare. D'argento e composto da una sottile catenella, appeso ad esso vi era un piccolo e solitario scorpione del medesimo materiale. 
Guardò in basso e lo rivide attorno al proprio, di braccio. Vi era sempre stato molto legato sin dai primi anni di vita e si era convinto che fosse stato un dono da parte dei genitori per il suo primo compleanno, visto e considerato il suo segno zodiacale. Tanto vi era affezionato da aver preteso che sua madre trovasse la maniera di consentirgli di indossarlo anche quando ormai era diventato troppo stretto. Adesso, tuttavia, il suo bracciale era l'esatta copia di quello indossato dal misterioso uomo senza volto. 
Non erano stati i suoi genitori a lasciarglielo in dono, ma lui, chiunque egli fosse o fosse stato. Aveva ragione Alex a dire che gli avesse voluto bene, visto e considerato che dopo il "passaggio di proprietà" era stato ridotto di misura in modo da andare a pennello a un neonato. Gli aveva voluto bene, ma se le cose stavano così... che fine aveva fatto? Perché era sparito nel nulla? 

Fu Alex a dar voce ai suoi più cupi pensieri: «M-Magari, e prendi le mie parole con le pinze, per qualche motivo si è dovuto trasferire lontano o forse... beh... non è semplicemente sparito dalla tua vita, ma... gli è successo qualcosa di brutto, ecco».

Poteva essere, si disse rattristato Collins, ma a che pro eliminarne il viso? 

«Forse è morto, proprio come mio padre, e se è così... ormai non importa un granché» concluse sconfitto. Non ripose la fotografia, ma la mise da parte, ben deciso ad affrontare prima o poi l'argomento con sua madre. Sfiorò il bracciale e una sorda fitta al cuore lo attraversò per una manciata di istanti. Magari era per questo che si era sempre sentito legato al cimelio. Inconsciamente ne aveva percepito il valore anno dopo anno. Importava poco che all'epoca si fosse appena affacciato alla vita. Certe cose le si dimenticavano solo in apparenza, ma rimanevano radicate a fondo nella mente e nell'animo, là dove venivano stipati i ricordi meno recenti e sfocati. 
Sapere che là fuori fosse esistita un'altra delle poche persone ad avergli sempre voluto bene e che forse, ormai, fosse troppo tardi per conoscerla e riavvicinarsi ad essa, lo frustrava e intristiva parecchio. Non era giusto, era crudele, ma così stavano le cose e nulla le avrebbe fatte mutare. 

Proprio come aveva dovuto farsi una ragione della morte di suo padre, così avrebbe dovuto guardare avanti anche in merito a quella determinata questione. Se quell'uomo era morto, lo avrebbe lasciato riposare in pace. Se era vivo, si augurava che stesse bene e che prima o poi le loro strade si sarebbero incrociate ancora. Non c'era altro da dire né da fare. 

Cercando di tirargli su il morale, Alex gli diede una leggera spinta con la spalla: «Comunque eri adorabile da bambino. Insomma, guarda che visino! E le mani! Eri così minuscolo!»

Le guance di Andrew si imporporarono con violenza e Collins roteò gli occhi. «M-Ma che dici!» biascicò. 

«Dico che eri tutto da coccolare e sprimacciare, bambolone!» continuò a punzecchiarlo Alexander, sprimacciandogli una guancia. 

«Bambolone?» ripeté Drew, non sapendo se esser lusingato o meno da quel termine. «Povero me!» Non osò commentare oltre e, insieme al fidanzato, continuò a scavare nei segreti di Scarlett e fu Collins a rinvenire un vecchio libro dalla fodera in rigido e consunto cuoio nero; sul fronte svettava una scritta in caratteri gotici e dorati, benché il colore risultasse invecchiato, rovinato dal tempo.
Più sotto individuò una cavità circolare di almeno tre o quattro centimetri di diametro. Dava l'impressione che vi andasse inserito qualcosa che sicuramente avrebbe aperto la speciale chiusura laterale sempre in oro e priva di fori per eventuali chiavi. Un meccanismo misterioso e alquanto illogico, ma fu tutto ciò che poté dedurre.

«Liber Necromantiae Averni» lesse in un sussurro. «Tenebrarum, Mortuorum atque Immortalitatis Artes.»

Alexander fissò l'oggetto con aria tesa. «Cosa... cosa cavolo significa?» Qualunque fosse il senso di quella frase, non gli piaceva per semplice principio. Niente poteva aver alcunché di positivo quando vi era di mezzo il latino, non in contesti così lontani da argomenti di stampo classico.

Drew scrollò le spalle. «I-Io... non lo so. Sapevo quel termine di poco fa solo perché feci una ricerca sui Romani, ma non ho mai studiato il latino.»

«Potrebbe non essere affatto latino» cercò di convincersi Alex, anche se sapeva di star dicendo una stupidaggine. Non era tra le lingue che si incrociavano tutti i giorni e saltava subito all'occhio, in generale.

«Lo è, fidati» insisté Collins.

Lo sguardo di Woomingan cadde su qualcos'altro, proprio in un angolo del cassetto. Prese quel piccolissimo cofanetto piatto e di legno nero lucido, togliendo l'involucro di velluto che lo conteneva.

Andrew batté le palpebre e abbandonò accanto a sé il libro. «Mia madre non ha mai portato né avuto alcun gioiello» commentò, spaesato come mai era stato. «Aprilo.»

Lex esitò, poi fece come gli era stato detto e sollevò il coperchio. Si ritrovarono di fronte a una collana il cui ciondolo era di un materiale candido e quasi perlaceo, a tratti... poroso o persino organico, se poteva avere un qualche senso. Molto singolare e non sembrava affatto esser stato ricavato dalla madreperla, quindi... che diavolo era quell'affare? Cos'era quel simbolo inciso sulla sua superficie?

«E questo da dove salta fuori?» sussurrò Alexander mentre fissava stralunato ora Drew, ora il contenuto della scatola.

Collins, con la gola secca e troppe domande che gli vorticavano nel cervello, scosse il capo. «N-Non lo so.»

L'altro sospirò e si massaggiò una tempia con la mano libera. «Meglio se rimettiamo a posto tutto. Se tua sorella torna e ci becca qui dentro, poi sì che saremo davvero nei guai» decretò, controllando l'orologio sul display del cellulare. Mancavano una decina di minuti alle quattro.

Andrew annuì e gli diede una mano. Optarono per lasciar fuori quanto trovato nel cassetto e senza una parola si trasferirono in camera sua dove il ragazzo posò sulla scrivania lo strano libro, il cofanetto col ciondolo e la fotografia prima di sedersi accanto ad Alex sul letto dalla trapunta verde scuro.

Si scambiarono un'occhiata che parlava da sé: quella situazione assumeva sempre di più contorni inquietanti e bizzarri. C'era sotto qualcosa. 
Andrew non sapeva spiegarsi perché mai sua madre avesse fino ad allora conservato quella roba in un cassetto e in parte sentiva di non avere il fegato di scoprirlo.

Eppure, allo stesso tempo, voleva vederci chiaro. Ormai erano dentro fino al collo nella faccenda per poter tirarsi indietro e far finta di nulla.

Forse la loro unica colpa comune era di esser due ragazzi troppo, davvero troppo curiosi, come Alice che per via della curiosità alla fine era precipitata nella tana del Bianconiglio e piombata in una realtà onirica, oltre il sogno, lì dove le leggi della fisica e della logica perdevano ogni senso.
Proprio come Alice sentivano di non poter assolutamente tornare indietro, di dover proseguire in quello stretto e profondo anfratto, senza tuttavia avere la minima idea se quel che li stava aspettando fosse il Paese delle Meraviglie o qualcosa di peggio.

La domandava che realmente li tormentava era: dove sarebbero andati a finire?

Quel che era certo, era che dovessero tener per sé tutto quanto, dai sospetti verso Glamis alla faccenda del libro e dello strano ciondolo.

Alex si fece forza, saltò su e si diresse alla scrivania. «Intanto cerchiamo di scoprire cosa significa il titolo di quello strambo libro. Sarà pur sempre un inizio, no?» Prese il portatile di Andrew e tornò a sederglisi vicino. Vi erano migliaia di siti dove poter tradurre tutto, parola per parola o meno.

Andrew lo osservò digitare e smanettare con abilità e si concentrò sullo schermo. Fu grande la loro sorpresa quando, in tutti i siti disposti a tradurre tutto per intero, ricevettero uno strano messaggio d'errore; in altri la pagina si bloccò proprio e li reindirizzò a quella di base del browser. Non importava quanto Alexander tentasse di arginare l'improvviso e bizzarro contrattempo. Quel PC non voleva saperne di rispondere ai comandi. 
Senza preavviso e senza una ragione valida, all'ennesimo tentativo la scheda del motore di ricerca si chiuse da sola, lasciandoli di sasso.

Le mani di Alex tremavano; Andrew fissava esterrefatto il luminoso riquadro davanti a loro, tentando di dare una spiegazione logica e razionale all'accaduto. Magari si era trattato di un attacco hacker oppure di un malfunzionamento o...
No, era inutile girarci attorno. Il problema era di tutt'altra natura, esulava dalla logica umana e forse tecnologica. Qualunque cosa fosse accaduta, non andava per niente bene e aggiungeva altre domande a un crogiolo che già da sé straripava di quesiti insoluti.

Alexander, arresosi, chiuse il laptop e lo rimise a posto. «Beh... porca puttana» mormorò. Una trentina di siti che si rifiutavano di tradurre una semplice frase che aveva infine fatto andare in tilt addirittura il browser. Non era affatto normale, non poteva esserlo. «Ci siamo cacciati in un bel casino, Drew» concluse. 

«Già» convenne tetro Collins.

«E se cercassimo di tradurre da soli il titolo del libro? Insomma, con l'aiuto di un dizionario o roba del genere?»

«Non è così semplice. Per quel che ne so, prima di tradurre dal latino dovremmo almeno conoscerne le basi e non è il nostro caso.»

«Proviamoci, almeno. Insomma... dobbiamo tentare, se non altro. Non possiamo sul serio lasciar perdere e fare come se non avessimo scoperto nulla!»

«E cos'abbiamo scoperto? Che la mia famiglia ha dei segreti forse tremendi e di avere un parente che potrebbe averla fatta sul serio sporca a tutti quanti, tanto da meritare di esser dimenticato?»

«Ti sembra poco?»

«Mi sembra troppo, onestamente.»

Alex esitò, poi gli strinse una mano. «Ehi, ci siamo dentro tutti e due. Quali che siano questi fantomatici scheletri nell'armadio dei Collins, cercheremo di tirarli fuori da lì insieme, okay? Non sei da solo. Non più. Ormai i tuoi segreti sono anche i miei, Drew.»

Andrew osservò le loro mani intrecciate e avvertì un allucinante groppo in gola, quasi un nascente senso di colpa. Era proprio l'aver involontariamente coinvolto Alexander a terrorizzarlo più di tutto il resto. Lui non c'entrava niente e un monito interiore continuava, adesso, a riecheggiargli nella mente. «I segreti possono uccidere, Alex» mormorò rauco. «Sono tutt'altro che innocui.»

«Allora correrò anche questo rischio.»

Collins non poté non chiedersi come potesse il coetaneo mostrare, in quelle circostanze, più coraggio di quanto ci riuscisse lui. «E se la risposta che cerchiamo potesse non piacerci o metterci nei casini?»

«Che vengano pure. Ci rimboccheremo le maniche e ripuliremo tutto.» Alex sorrise e gli posò le mani ai lati del collo. «E comunque, e parlo per me, ormai la mia curiosità ha raggiunto livelli stellari e non credo riuscirei semplicemente a dimenticare ogni cosa e a tornare alle preoccupazioni quotidiane.» I suoi occhi grigi si spostarono verso il libro e il resto dei reperti che, proprio come degli archeologi in erba, avevano riportato in superficie. «Qualcosa mi dice che stiamo parlando di una cosa importante, Drew. È importante e abbiamo il dovere di vederci più chiaro. Non lo nego, un po' di paura ce l'ho, ma... sul serio abbiamo una scelta?»

Andrew sospirò. Odiava quando Alex riusciva a inchiodarlo e a dargli mille ottimi motivi per fare una determinata cosa, anziché non farla. «Possiamo almeno provarci» concesse. «Però, Lex, se andando avanti dovessimo capire che è qualcosa di più grande di noi, faremo un passo indietro e al diavolo le conseguenze.» Su quell'ultimo punto non intendeva negoziare e non era sempre un male darsela a gambe quando il pericolo era evidente e a pochi passi di distanza. La paura salvava la vita, in determinate situazioni. 
Vide il fidanzato mordicchiarsi il labbro inferiore ed esitare, e allora si fece serio in volto. «Lexie, giuramelo: niente colpi di testa né mosse avventate.»

«In sostanza mi stai dicendo di non fare ciò che Alexander Woomingan sa fare al meglio.»

«Non scherzarci sopra e promettilo.»

Lex gonfiò le guance e sbuffò. «Oh, e va bene, va bene!»

Drew inarcò un sopracciglio, ben poco convinto. «Tanto lo so che alla fine fai sempre come ti pare.»

«È anche per questo che ti piaccio, ammettilo.»

«E alimentare il tuo già smisurato ego? Neanche per scherzo.» Volendo concentrarsi su qualcos'altro e dimenticare, anche solo per un istante, i segreti della propria famiglia, Andrew provò a focalizzarsi su Alexander in sé per sé, ma gli fu di ben poco aiuto visto che quel giorno lo trovava più bello che mai. 
La verità era che volentieri avrebbe osato, ma da un lato non voleva affrettare le cose e dall'altro era convinto che dovesse esser Alex a prendere l'iniziativa di sua spontanea volontà, fargli capire di voler sul serio compiere un passo tutt'altro che di poco conto. 
Gli leggeva negli occhi che lo voleva, ma lo voleva abbastanza?
«Senti, uhm... pensavo che...»

«Sì?»

Dal piano inferiore della dimora si udì provenire il chiaro suono della porta principale che si era appena richiusa e Andrew si trattenne dall'imprecare. Proprio quando stava per affrontare quell'argomento! Sua sorella aveva un tempismo a dir poco diabolico, certe volte. «Pensavo che dovremmo andare di sotto prima che Sam si faccia qualche strana idea e decida di venir fin qui a curiosare» recuperò, anche se la toppa era, come al solito, peggio dello strappo. 
Si alzò dal letto e si diresse alla porta, ma Alex lo richiamò. «Uhm... non per niente, ma credo che tua madre farebbe il diavolo a quattro se vedesse in giro questa roba» disse allusivo, indicando il libro e il resto delle cianfrusaglie.

«Giusto.» Collins tornò indietro e nascose tutto quanto nella propria borsa di scuola. Lex gli rifilò un'occhiata critica. «Sul serio, Drew? Già che ci sei, appiccicaci sopra un cartello al neon!»

«Oh, andiamo! Solo per adesso! Ora come ora non mi viene in mente nessun altro posto. Ci penserò meglio quando mia madre e mia sorella saranno andate a dormire. Contento?»

«Dipende da quanto tua madre sia ficcanaso.»

«Nah, non fruga mai nelle mie cose. Credici o meno, ma rispetta la mia privacy.»

Alex sogghignò, gli occhi che scintillavano. «Perché, Collins, hai forse qualcosa da nascondere? Libri inquietanti e medaglioni strambi a parte, si intende.»

Andrew sostenne il suo sguardo, poi finse di rifletterci sopra. «Ora che me lo chiedi, penso di aver dimenticato il costume di Batman in lavanderia, la scorsa mattina!» replicò sarcastico.

«Ah-ah-ah, molto divertente.» Woomingan roteò gli occhi, ma non poté far a meno di sorridere. «Quindi io sarei Robin? Insomma, non mi ci vedo con quei colori addosso!»

«Staresti bene con qualsiasi cosa addosso, credimi.»

«L'adulazione ti porterà ovunque, come si è soliti dire!»

«Non sai accettare i complimenti, vero?»

«Senti chi parla.»

«Io non ne ho bisogno. So da solo di essere il migliore.»

Woomingan scoppiò a ridere. «Cielo! E poi sarei io il pavone!» Scosse la testa e baciò al volo una guancia al fidanzato. «Su, non facciamo attendere oltre la tua sorellina.» Uscirono dalla stanza e scesero al piano inferiore. Samantha, dunque, corse loro incontro e li squadrò sospettosa. «Che ci facevate di sopra?» chiese diretta, gli occhi castani ridotti a vispe e furbesche fessure. Era ovvio che non volesse perdersi una ghiotta occasione per guastare la festa al fratello maggiore.

Andrew sorrise di sbieco, malizioso. «Complottavamo per far sparire tutte le tue bambole e i tuoi peluches» la rimbeccò provocatorio. Lo fece per distrarla, certo, ma anche per farla arrabbiare a bella posta. Erano pur sempre fratello e sorella e punzecchiarsi era per loro una regola quotidiana imprescindibile.

Alex emise un suono nasale, una risata soffocata alla bell'e meglio, e lanciò uno sguardo divertito all'altro ragazzo. Quei due erano adorabili, nonché esilaranti. Andrew, poi, sapeva sul serio esser pestifero se ci si metteva d'impegno.

Samantha fissò il Collins più grande e batté un piede a terra. «No! Lo dirò alla mamma!»

«Oh, fa' pure, se vuoi!» rispose Andrew mentre rideva, deliziato dalla reazione della sorellina. 

Sam guardò allora Alex, il labbro inferiore tremulo e gli occhi spalancati. La tipica espressione dei bambini quando volevano aiuto o cercavano di convincere gli adulti. Woomingan non resisté e raggiunse il fianco della ragazzina, fingendo di guardare con severità il fidanzato, poi disse a Samantha: «Lascialo perdere, è solo un antipatico! In realtà io stavo provando a convincerlo a non prendersela con i tuoi peluches, ma... eh! Tuo fratello è un vero testardo!»
Fece finta di riflettere per qualche secondo, poi schioccò le dita. «Direi che il modo migliore per venire a capo di questa brutta faccenda sia parlarne a quattrocchi, magari... non so, addolcendo l'atmosfera con un gelato. Che ne dici, Sam, potrebbe andare bene?»

Samantha sorrise ampiamente e annuì, soddisfatta. «Sì!»

Alex, dunque, fece un cenno. «Allora corri a metterti una giacca. Noi ti aspettiamo qui. Vai, su!» 

La ragazzina non se lo fece ripetere due volte e, prima di andare, abbracciò al volo il ragazzo che non poté fare a meno di intenerirsi e arrossire. Poco dopo, non appena furono rimasti da soli, Andrew lo squadrò. «Devo ammetterlo, sono impressionato.» Più stava con Alex e maggiori erano le sfumature del suo carattere che andava pian piano scoprendo. «Non dicevi di non saper farci coi bambini?»

«Sai com'è, si impara rubando con gli occhi e con le orecchie.»

«Uh-uh.» Collins sorrise di sbieco. «Beh... ben fatto, Woomingan.»

Lex esitò. «Non posso negare di star affezionandomi alla tua famiglia» ammise. «Insomma... cassetti segreti e libri sospetti a parte, tua madre è una donna fantastica, Drew, e tua sorella è adorabile.» Sospirò. «Come ho già accennato, la mia, di madre, non la vedo di persona da anni e fra noi non c'è chissà quale rapporto, perciò... un po' è come se...», gesticolò, cercando invano di spiegarsi, ma il punto era che qualunque parola gli apparisse indegna di esprimere come si sentiva al momento. Andrew, tuttavia, parve lo stesso capire alla perfezione. «Per me è un po' lo stesso con tuo padre e con Christian» disse, a sua volta sincero. «Siete sulla buona strada per diventare un'ottima famiglia, credimi.»

Alex sollevò un angolo della bocca, ma i suoi occhi luccicavano. «Non farmi commuovere o sai come va a finire» tentò di scherzare. «Dovremmo proprio organizzare qualcosa, una sera. Una cena o roba così per far stare insieme tutti quanti!»

Andrew sbuffò una risata. «Mi va benissimo, ma meglio non far cucinare mia madre» scherzò.

«Chris ci sa fare coi fornelli. Penso potrebbe darle un aiutino. Ultimamente sta provando a insegnare almeno le basi persino a me, e ho detto tutto!»

«Nah, non ci credo. Brian dice che sei una frana.»

Alexander avvampò. «Brian dovrebbe imparare a sigillarsi un po' la bocca!» protestò imbarazzato. Come si era permesso Herden di dire che fosse una schiappa a cucinare? 

Drew rise di gusto. «Su, non farne una questione di stato!»

«Parli facile, tu» borbottò Alex. Vedendo tornare Samantha, aggiunse: «Meglio andare, prima che decida di trascinarci fuori per un orecchio».

Alex udì bussare alla porta della propria camera da letto e rinunciò, dopo quasi due ore ininterrotte di vane ricerche circa possibili eventi avvenuti nella New Orleans del 'Novantotto che avrebbero potuto ricollegarsi in qualche maniera al parente di Andrew scagliato nell'oblio dal resto della famiglia, ma era stato come andare a infilarsi in un ginepraio e in fin dei conti non aveva poi molto su cui basarsi. Diamine, lui e Drew non sapevano neppure come si chiamasse quell'uomo.

Picchiettò su un paio di tasti e ridusse a icona la pagina di internet per celare tutto quanto. «Papà, sei tu?» fece a voce alta, voltandosi in tempo per vedere che, in effetti, si trattava proprio di Daniel. 

Lo ammetteva, non era ancora molto abituato a interagire di più con suo padre e paradossalmente sentiva di aver stretto un legame più solido con Christian, ma in fin dei conti era facile seminare su un campo dove prima non era stato sparso del sale. Lui e Daniel avevano dei trascorsi più turbolenti e dolorosi, tanto da recuperare e aveva deciso di concedere a se stesso e a lui del tempo. Un giorno alla volta. Abbozzò un sorriso. «Tutto bene?» chiese.

Daniel annuì e si ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni scuri. «Uhm, sì. Un po' stanco, come al solito, ma tutto come al solito.» Esitò. «Senti, figliolo... un po' di giorni fa mi ha telefonato il tuo coach e mi ha detto che hai abbandonato la squadra.»

Lex deglutì. «Oh, quello...» Si umettò le labbra. «Senti, pa', la verità è che... non mi è mai piaciuto chissà quanto il football e avevo bisogno di concentrarmi di più sullo studio. Mi sono reso conto che non era ciò che davvero volevo» vuotò infine il sacco. «Mi dispiace. Avrei dovuto dirtelo.» Una parte di lui era già pronta all'ennesima ramanzina e per questo non poté far a meno di rimanere leggermente di sale quando Daniel, invece, annuì semplicemente e replicò: «È tutto a posto, non preoccuparti. Il fatto, Alex, è che avrei solo voluto che tu me ne avessi parlato a cuore aperto».

«Credevo che ti avrei deluso. Eri stato tu a spingermi a unirmi alla squadra e pensavo che...»

«... che non avrei capito?»

«Circa. Sì.» Finalmente Alex riuscì a guardare suo padre in faccia. «Giocavo a football perché volevo che fossi fiero di me. Volevo... i-insomma... che un giorno, prima o poi, anche tu saresti venuto a vedermi durante una partita e a esultare come gli altri genitori perché eri orgoglioso di me, di vedermi vincere, ma... ultimamente sto riflettendo su tante cose e ho capito che non stavo compiacendo neppure me stesso, se può avere un senso. Ero il primo a non esser felice di ciò che facevo.» Tornò quasi subito a fissare un punto imprecisato sul pavimento. «Ho sempre pensato che non fossi abbastanza, che dovessi dimostrarti che ero all'altezza delle tue aspettative.»

Daniel aveva stampata sul viso la tipica espressione di chi era appena caduto dalle nuvole e precipitato sull'asfalto. Era chiaro che non avesse affatto messo in conto quanto affermato dal figlio e quanto in profondità fossero radicate le incomprensioni fra di loro. Si rese davvero conto di non aver fatto un gran bel lavoro in qualità di genitore e di aver per anni offerto una visione errata e distorta di se stesso e del suo ruolo di padre ad Alexander, l'ultimo che avrebbe dovuto avere dei dubbi in tal senso. 
Decisamente un gran bel lavoro, si disse sconfortato.
Capendo di dover chiarire tante cose, si armò di pazienza e andò a sedersi sul letto del figlio. Si prese del tempo per guardarsi attorno mentre realizzava quante cose di Alex non si fosse preso la santa briga di conoscere o approfondire. Non sapeva, ad esempio, che conoscesse e fosse un fan di cantanti relativamente sorpassati come Prince e i Queen, e a dimostrarlo erano i poster appesi alle pareti. Come non sapeva questo, si era anche del tutto dimenticato che suo figlio, a dieci anni, avesse chiesto per il proprio compleanno una chitarra che si trovava ancora là dentro, proprio accanto al letto e a ridosso del muro, decorata da sticker di vario tipo e dall'aria palesemente vissuta. Aveva realizzato che Alexander fosse capace eccome di suonarla quando una sera, per puro caso, era passato di fronte alla sua stanza e aveva udito l'inconfondibile suono delle corde venire sollecitate con garbo e con precisione. Di nascosto aveva socchiuso la porta e lo aveva visto seduto sulle coperte mentre rievocava alla perfezione la melodia inconfondibile di una canzone che un tempo era stata intonata dalla rauca voce di Kurt Cobain.

Il mattino successivo si era fatto coraggio e gli aveva chiesto dove, come e quando avesse imparato a suonare la chitarra così bene, ammettendo di aver origliato. Alex, imbarazzato, aveva spiegato di aver semplicemente fatto da solo, seguendo spesso i consigli di tanti video trovati in rete. A furia di fare pratica era riuscito a fare quel che si era prefissato di fare. Dopo aver detto questo, Alexander lo aveva guardato con aria tesa e buttato lì che se era un problema o lo infastidiva, avrebbe potuto evitare di disturbare e di suonare. Quelle parole avevano fatto stringere il cuore a Daniel e lo avevano spinto a farsi un bell'esame di coscienza. L'aver infine scoperto dell'abbandono del football era stato il colpo di grazia.

Continuò a osservare con attenzione la camera da letto: su uno scaffale vi era l'intera serie di Harry Potter insieme a un paio di altri libri scritti da due diversi autori; in giro vi era il solito caos che era frequente nella tana di un ragazzo dell'età di Alex e tutto, ogni cosa, parlava un po' di suo figlio.

«Sai... ieri mi ha telefonato Wanda, uhm... tua madre e... abbiamo chiacchierato e tra una cosa e l'altra... beh, sei saltato fuori tu e a un certo punto ci siamo ritrovati a concordare su qualcosa» disse poi il dottor Woomingan, abbandonando gli avambracci sulle ginocchia e giungendo le mani. «Non siamo stati il massimo, come genitori. Ti abbiamo offerto una visione terribile del matrimonio, dell'amore in generale e di cosa sia o meno il concetto della famiglia. Ne avevi bisogno, come tutti quanti, ma non siamo stati capaci di dartene una. Non quella di cui avresti necessitato, almeno.»

«Papà», lo interruppe Alex, non volendo proprio sfociare in quell'argomento, «sul serio, non devi...»

«Invece sì» lo contraddisse Daniel, amareggiato. «E ti devo soprattutto le mie scuse, Alex. Non starò qui a raccontarti di cosa sia o non sia andato fra me e tua madre, non avrebbe senso e non fu di certo colpa tua. Eri solamente un bambino, dopotutto. Quello che invece voglio dirti, è che... per quanto fossi stato felice della tua nascita, in fondo al cuore sapevo di non essere pronto a essere padre e non è che con Wanda stessi andando chissà quanto d'accordo, all'epoca. Il tuo arrivo fu casuale e imprevisto. Scegliemmo di provarci, di dare una possibilità a noi stessi, non solo a te, ma... lo sai... non andò bene e a quel punto mi resi conto di esser rimasto da solo con un bambino molto piccolo e del quale mi sentivo incapace di prendermi cura.»
Deglutì a fatica e cercò di impedire a se stesso di torturarsi le mani. Non era semplice parlare di quel periodo con Alex. 
«Non penso tu lo ricordi, ma dopo che tua madre se n'era andata, tu... insomma... sprofondasti nel totale mutismo e in più ti rifiutavi di uscire a giocare o di fare quel che sempre facevi. Eri sempre stato spensierato e la sfida era farti stare fermo, ma dopo quella sera, ogni volta che tornavo dal lavoro, ti vedevo sul davanzale del bovindo, nella nostra vecchia casa, a guardare fuori come se... come se da un momento all'altro sperassi di veder tornare la tua mamma. La tua baby-sitter, Rhoda, era costernata e anche se non facevi i capricci per andare a letto, ti rifiutavi di fare ciò che chiunque, a quell'età, avrebbe fatto.»

Trovò il coraggio di incrociare gli occhi del ragazzo che erano esattamente uguali ai suoi, anche se nella forma ricordavano invece quelli della sua ex-moglie. Era difficile sostenerne lo sguardo. «E io, in tutto ciò, non sapevo cosa fare e non feci niente. Mi convinsi che prima o poi ti sarebbe passata, che le tue fossero... perdonami il termine... delle tipiche bizze da bambino. A quel tempo pensai di aver ragione quando alla fine tu ti arrendesti all'evidenza e gettasti la spugna, ma ora so che se c'era qualcuno che stava soffrendo terribilmente, senza capire cosa fosse successo o perché, quello eri tu. Soffrivi e io non feci niente, non dissi niente, perché mi vergognavo di me stesso e anche se avevo cercato di far ragionare Wanda, lei non aveva voluto saperne di tornare indietro.» Gli tremavano le mani. «Ora so che avrei dovuto stringerti forte e dirti che sarebbe andato tutto bene e che il tuo papà fosse lì per te, sempre ci sarebbe stato. Avrei dovuto darti meno per scontato e ringraziare il cielo per avermi donato un figlio che ho visto crescere e diventare un ragazzo splendido che sottovaluta troppo se stesso e non si prende i meriti che dovrebbe invece afferrare ed esibire con orgoglio. Non devi dimostrarmi niente, Alex. Mai hai dovuto farlo. Vorrei solo avertelo fatto capire molto prima.»

Alex non ce la fece più e senza riuscire a frenarsi si fece sfuggire dei singhiozzi mentre invano scacciava le copiose lacrime che continuavano ad affiorare, incessanti e roventi sulla pelle. Dentro era ancora peggio e sentiva tante, troppe cose: un pizzico di rabbia, ma anche dolore, dispiacere e sollievo. Si alzò dalla seggiola e scelse di spegnere i pensieri, ogni cosa, per dar ascolto all'istinto che gli urlava di correre ad abbracciare suo padre e dirgli che lo perdonava, che in realtà gli aveva voluto bene persino quando si era convinto di avercela con lui e in realtà di odiarlo. Erano tante le parole che premevano contro le sue labbra per uscire, ma tutto ciò che disse, non appena si fu rifugiato fra le sue braccia, fu: «Ti voglio bene, papà». 

Dopotutto l'unica cosa a contare veramente, in una famiglia, era questa: volersi bene. Il resto non contava, era effimero e passeggero. Per lui, almeno, così stavano le cose. 

Con gentilezza gli passò una mano sulle spalle. «Ti voglio bene e so che per te è lo stesso. Non mi serve sapere altro.»

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