Chào các bạn! Vì nhiều lý do từ nay Truyen2U chính thức đổi tên là Truyen247.Pro. Mong các bạn tiếp tục ủng hộ truy cập tên miền mới này nhé! Mãi yêu... ♥

Capitolo XXXVI. Niente da dire


Musica consigliata: "Andante cantabile dalla Sinfonia n.5" di Pëtr Il'ič Čajkovskij.

https://youtu.be/Y2AM7GrJxfM

Erik si chiuse le porte alle spalle e per un attimo rimase in silenzio, immobile, a fissare sua madre che se ne stava appoggiata con un fianco al davanzale della finestra a ogiva. Zelda sembrava totalmente immersa in tanti, troppi pensieri.

Per lui era stato un po' uno shock scoprire che sua madre era in dolce attesa e fino ad allora non se l'era sentita di affrontare con lei l'argomento, dato che pareva sempre rattristarsi non appena si accennava al bambino o al padre di quest'ultimo, l'Efialte Iago.

Erik sapeva solo che era stato lui a guarirlo e che con sua madre aveva avuto una tresca non molto duratura e un bel po' controversa. Non lo aveva mai conosciuto di persona e non faceva che ripensare, suo malgrado, alle parole decisamente poco carine di suo nonno, anzi di Grober, sul conto di quell'Efialte.

Oltre la finestra risplendeva fioco uno spento e sbiadito tramonto.

Il ragazzo si avvicinò. «Mamma?»

Zelda si riscosse dallo stato meditabondo e cercò di non farsi notare troppo mentre si passava una mano sulle guance. Le sue labbra piene e ben disegnate si piegarono in un sorriso solo in apparenza tranquillo. I suoi occhi violetti, invece, erano spenti. «Ehi! Eccoti qui!»

Erik cercò di ricambiare il sorriso. «Volevi parlarmi?» Era stata Adeena ad andare da lui per dirgli che sua madre lo aveva mandato a cercare.

Zelda annuì. «Sì. Vedi, Erik, a quanto pare la situazione di stallo finalmente si è risolta. Domani tu e gli altri andrete a Obyria. Sarà Cynder a scortarvi.»

Il quindicenne sbatté le palpebre, gli occhi lillà, tali e quali a quelli della madre, scrutavano la donna in cerca di molte risposte a lungo rimandate. «Tu non verrai con noi?»

«Uhm, sì, ma non verrò a palazzo con voi. Rimarrò nei paraggi, in città.»

«Ma... mamma, non pensi che...»

«Va bene così, non preoccuparti. L'importante è che tu rimanga al sicuro, e non c'è luogo più sicuro del Palazzo Imperiale, almeno per il momento.»

Erik aveva la sensazione che sua madre non fosse del tutto sincera. «Perché non vogliono che venga anche tu?»

«Non sono una presenza gradita, e non hanno tutti i torti. In ogni caso, mi dispiace solo dover restare lontana da te, altrimenti poco mi interessa di vivere nello sfarzo. Sai che odio i fronzoli!»

«Sicura non ci sia dell'altro?»

Zelda lo raggiunse, gli prese il viso fra le mani e gli posò un amorevole bacio sulla fronte. «Sta' tranquillo. Non sono nei guai, e comunque è già troppo quello che Cynder e Nephele hanno fatto per me. Non posso restare qui, sapendo di metterli in pericolo.»

«Però cosa farai? Non ci credo che rimarrai buona buona a casa a fare l'uncinetto!»

Zelda non poté far a meno di ridere. «Quando mai mi hai vista fare l'uncinetto?»

«Ma', dico davvero!» protestò imbronciato il ragazzo. «Non voglio restare fra quelle quattro mura mentre tu, magari, sei chissà dove in cerca di guai!» Era stanco di vivere separato da lei, l'unico genitore che avesse mai avuto. Era già stato abbastanza traumatico dire addio ad Alice e Lorenzo, soprattutto a quest'ultimo, non avrebbe permesso a nessuno di portargli via anche sua madre.

Per non parlare, poi, della faccenda secondo la quale era il frutto di un autentico incesto, nonché il primo vero figlio dell'attuale Imperatore di Obyria.

Non faceva che pensare a quella storia, a volte provava disgusto per se stesso, per chi era realmente, ciò che rappresentava e significava la sua esistenza. Il fatto che tra i reali, specialmente di Obyria, fosse da sempre in voga lo sposarsi fra consanguinei non lo faceva sentire meglio.

Per lui era comunque scioccante e inconcepibile. Insomma, se avesse avuto una sorella di certo non si sarebbe messo con lei! Era disgustoso! L'unica scusante che lo faceva sentire un po' meno un fenomeno da baraccone era che all'epoca dei fatti i suoi genitori non sapevano di essere fratellastri.

Meglio di niente!

Sbuffò sonoramente e andò a sedersi sulla seggiola di fronte allo scrittoio, dall'altro capo della stanza. Prese in mano la colorata e quasi iridescente piuma adagiata nel calamaio e ci giocherellò. Si fece coraggio, poi: «Lorenzo morirà, vero? Ha tradito Grober, la sua fiducia, ha fatto in modo che io, Anthony e gli altri scappassimo dall'Oltrespecchio. Come minimo ora lui vorrà la sua testa».

Zelda scosse il capo. «No, Erik. Non morirà. Non lo permetteremo.»

«E come?»

«Non temere. Stiamo ragionando tutti quanti sul da farsi.»

Erik abbassò lo sguardo sul legno chiaro dello scrittoio. Si sentiva terribilmente in colpa. Avrebbe potuto salvarlo lui, prima di fuggire dalle segrete. Avrebbe potuto tornare indietro e convincerlo a fuggire. Era colpa sua se Lorenzo si trovava in catene, in attesa di essere probabilmente giustiziato, e forse in quel preciso momento lo stavano torturando.

C'erano momenti nei quali non riusciva a chiuder occhio di fronte a quegli orribili scenari.

Vorrei tanto che tutto tornasse come prima, come quando eravamo ancora una famiglia come tutte le altre. Come prima di scoprire che mio nonno è posseduto e ha fatto, e continua a fare, del male a tante persone.

Zelda, quasi leggendogli nella mente, si fermò accanto alla seggiola e gli circondò le spalle con un braccio. «Non è stata colpa tua e in una situazione come quella non avresti potuto far niente. Sapeva quali rischi stava correndo e li ha corsi perché ti vuole bene e voleva fare la cosa giusta. Se lo conosco come lo conosco, non se n'è pentito e mai lo farà.»

Erik si morse il labbro inferiore e ricacciò indietro un singhiozzo. Si vergognava a piangere davanti a sua madre. «N-Non potrei venire a vivere con te? Insomma, rimarrei comunque a Obyria, che problema c'è se non abiterò in quel castello? Già qui mi sento un pesce fuor d'acqua, figurarsi laggiù!»

Lo ammetteva: da quando aveva finalmente scoperto le proprie origini, avrebbe dato qualsiasi cosa pur di poter dimenticare. Non provava più così tanta smania di conoscere suo padre, anche perché d'altronde lui un padre lo aveva avuto ed era lo stesso uomo che al momento si trovava nelle segrete del castello di Specula. Non gliene serviva un altro, specialmente uno che aveva accettato solo dopo un bel po' di manfrine di dare una mano a lui e gli altri e, tuttavia, si rifiutava di ospitare sua madre.

Che razza di uomo poteva essere se imponeva simili paletti? Iniziava a pensare che Cynder fosse fin troppo morbido col fratello, troppo buono nel giudicare le sue azioni.

Dopo un finale come quello, Erik non riusciva a figurarsi altro che un uomo altezzoso e incapace di assumersi le proprie responsabilità, forse persino crudele. Gli imponeva di abitare in quel palazzo splendente e di farlo lontano da sua madre. Quale persona degna di esser definita così aveva il coraggio di separare una famiglia?

Se era quello il suo famoso padre biologico, allora preferiva non conoscerlo di persona e lasciarselo alle spalle completamente.

E poi... poi c'è Adeena. Se andrò a Obyria, chissà quando potrò rivederla.

Malgrado l'espressione cupa a scurirgli il viso, le guance di Erik di colpo divennero molto, molto calde. Doveva ammettere con se stesso che Adeena un po' gli piaceva, gradiva la sua compagnia e non aveva mai conosciuto una ragazza come lei. Era diversa, semplicemente diversa.

Erik aveva una marea di ragioni per non voler metter piede nel Palazzo Imperiale.

Zelda, però, sembrava di parere ben diverso. Si inginocchiò di fronte a lui e gli strinse con delicatezza entrambe le braccia. «Lì dentro sarai al sicuro, Erik. Te l'ho detto.»

«Ospite di un uomo che non ti vuole a corte! Bella roba!» protestò il ragazzo, infiammandosi. «Per quel che mi riguarda, la sua protezione può anche tenersela per sé! Fino ad ora io e te ce la siamo sempre cavata da soli!»

Sua madre si rimise in piedi, sospirò e guardò altrove, sfiorandosi la pancia che iniziava a ingrossarsi, seppur non fosse ancora esagerata. Tornò a guardare il figlio più grande. «So che è difficile per te, lo è per un bel po' di motivi, ma dovrai stringere i denti. E poi credimi quando ti dico che tuo padre non è come te lo immagini.»

«Ah, no?» Erik sorrise con aria sarcastica. «Infatti si rivelerà ancora peggio, poco ma sicuro.»

Per quanto a Zelda Samantha non andasse a genio, sarebbe stato poco saggio dire al ragazzo che in realtà era l'Imperatrice a non voler nessuno dei due sotto il suo stesso tetto.

Zelda pettinò indietro i capelli ribelli di Erik. «Non essere pessimista. Ti ambienterai in fretta e il diavolo non è mai brutto come lo si dipinge.»

Erik roteò gli occhi. «Almeno potrò venire a farti visita, ogni tanto? O sarò una specie di prigioniero?»

«Certo che potrai, ma... be', penso che dovrai avere con te una scorta, o almeno un accompagnatore.»

«Che barba» brontolò il ragazzo. Era sempre stato uno di quelli abbastanza indipendenti e che tenevano particolarmente alla propria emancipazione. Si strofinò il naso, poi: «Allora... uhm... sorellina o fratellino?»

Non gli andava di parlare oltre del suo vero padre, di Obyria o del resto di quel guazzabuglio senza capo né coda che tutti osavano definire ‟guerra".

Zelda abbozzò un lieve sorriso e si strinse nelle spalle. «Non lo so. Ho preferito non saperlo. Lo scopriremo quando nascerà.»

«Dicono che quell'uomo, Iago, sia tornato dalla sua missione» buttò lì Erik, guardando di sottecchi la madre quasi a voler esaminarne la reazione.

Lei inspirò e annuì. «Sì, me lo ha detto Cynder» confermò. «Mi sorprende che sia tornato prima del previsto, considerando il motivo per cui era partito. Avrà avuto le sue ragioni, suppongo.»

«Potresti approfittare della scampagnata per andare a parlargli.»

«Non credo sia una buona idea» tagliò corto Zelda, la quale preferiva non parlare di Iago in quel senso. Aveva capito fin troppo bene la sua posizione in merito alla gravidanza e non solo, e di certo lei non era tipo da forzare un uomo a starle vicino solo per via di un incidente di percorso. C'era stato quel che c'era stato, ma non era una ragazzina e mai aveva creduto alle favolette. «Non gli importa niente di me, Erik. È stata una scappatella, nient'altro. Ho cresciuto te da sola e questo bambino, o bambina, non sarà un problema insormontabile.»

Erik deglutì e fece un cenno con la testa, poi si alzò e la abbracciò. Sapeva che dietro quella facciata sua madre stava più male di quanto lasciasse intravedere. La conosceva e gli dispiaceva vederla così sola, senza mai nessuno al quale appoggiarsi. «Ci sarò anche io a darti una mano, mamma» disse a bassa voce. «Non sei sola. Ci perde lui e nessun altro.»

Zelda sorrise e ricacciò indietro per un soffio le lacrime. Baciò il capo al suo ometto coraggioso, poi si scostò. «Lo sai? Un giorno sarai un grand'uomo.»

Erik arrossì a quelle parole. «Piantala, ma'» biascicò. Un attimo dopo bussarono alle porte e un altro secondo più tardi a entrare fu la regina Nephele, la quale sorrise con aria di scuse ai due. «Perdonate l'intrusione, ma... Zelda, potrei parlare da sola con te?»

Zelda ed Erik si scambiarono un'occhiata, poi il ragazzo controvoglia abbandonò la stanza e decise di andare a cercare Anthony. Non gli andava che restasse da solo, e in quei giorni spesso gli era capitato di vederlo stare per conto proprio e in disparte con aria meditabonda e un po' abbattuta.

Riusciva a comprendere il suo stato d'animo, almeno in parte. A quel ragazzino era andata molto peggio se si considerava che aveva visto la madre e il patrigno venir assassinati.

È stato Grober a ordinare a Lorenzo di farlo. La colpa è solo sua.

Nel frattempo, mentre Erik era impegnato nel cercarlo, il piccolo Woomingan si trovava nei giardini immersi nel tramonto che precedeva il vero e proprio crepuscolo, e non era da solo: accanto a lui, entrambi fermi sull'ingresso esterno di quell'area del palazzo, delineato da alte colonne di marmo, c'era Cynder. Tutti e due osservavano in silenzio la singolare e silenziosa Fedra seduta sull'erba, immersa in maestosi fiori di tutti i colori. Poco lontano c'erano Stefano e Dorian che avevano iniziato a intendersela fra di loro e ora, però, parevano aver tutta l'intenzione di voler in qualche maniera approcciare la principessina. Sembravano due micetti che con cautela, poco a poco, tentavano di fare la conoscenza del nuovo arrivato. Stefano, benché fosse figlio di Alice e Lorenzo, lui stesso non aveva mai conosciuto la piccola Fedra, la quale era cresciuta sì e no sotto una campana di vetro da ogni punto di vista, trattata alla stregua di una reliquia talmente preziosa da dover restare chiusa in una teca per evitare di rovinarsi a contatto con l'aria.

Benché all'inizio a Anthony fosse parsa una bimba piuttosto chiusa e riservata, ben presto si era reso conto che invece, per esser vissuta fino ad allora in compagnia sì e no di pochissime persone, era alquanto civettuola e spigliata, una volta che iniziava a fidarsi di chi aveva di fronte. In quel momento, ad esempio, era impegnata a lanciare un'occhiata di sbieco ai due ragazzini a poca distanza da lei. Anthony la vide abbozzare un lieve sorriso, poi tornare a guardare un punto imprecisato in quella magnifica distesa di fiori profumati che gareggiavano sì e non con la sua bellezza. Per avere due anni era già molto graziosa.

Anthony sbuffò tra sé e alzò gli occhi al cielo. Ci scommetteva la testa che da grande, quella là, sarebbe diventata una di quelle ragazzine smorfiose e viziate, non molto diverse da quelle che aveva conosciuto a scuola. Il giovane Woomingan aguzzò lo sguardo e inarcò un sopracciglio vedendo Dorian avere uno slancio improvviso di coraggio, avvicinarsi, chinarsi, raccogliere quella che sembrava una violetta immacolata e infine porgerla a Fedra. «Guarda che roba» borbottò tra sé Anthony. «Con me non spiccicava mai parola e ora...!»

Cynder lo guardò e soffocò una risata. «Credo che Fedra abbia fatto colpo.»

Il ragazzino alzò gli occhi e lo fissò quasi inorridito, per poi decidere di astenersi dal commentare. Sulle femmine la pensava allo stesso modo di quasi un anno prima: non gli piacevano a pelle, niente da fare. In realtà non gradiva la compagnia neppure dei maschi, se ci rifletteva bene. Preferiva starsene per i fatti suoi, senza nessuno che gli rompesse le scatole.

«Ma guarda lì» bofonchiò ancora, squadrando da lontano la principessina che aveva sorriso a Dorian e ora reggeva in mano la violetta.

Fedra poi si alzò e giunse a pochi centimetri dal piccolo Efialte. «Ciao» gli disse. Aveva una voce cristallina, simile a quella di un piccolo usignolo, e persino nel modo di parlare era graziosa.

Dorian la fissò quasi impaurito e lei, allora, gli restituì un'occhiata perplessa. «Ti ho detto ‟ciao"» ripeté. L'Efialte in miniatura arretrò, poi se la diede letteralmente a gambe in direzione di Cynder, seguito a ruota da Stefano. Superarono il re come schegge e Anthony non ce la fece oltre e scoppiò a ridere di gusto. Ci mancò poco che finisse a terra, a furia di sganasciarsi. Cynder si voltò e fece in tempo a vedere Stefano e Dorian sparire oltre la soglia dell'ingresso lì vicino. Scosse il capo e dunque rifilò al giovane Woomingan un cipiglio che voleva essere severo, ma con scarsi risultati, perché gli faceva piacere vedere quel ragazzino finalmente ridere un po'. Schioccò la lingua con disapprovazione. «Su, su, Anthony! Non sta bene ridere così!» cercò di riprenderlo. Vide che Fedra si era alzata e stava guardando il ragazzino più grande con un cipiglio indispettito che ricordava spaventosamente una delle espressioni più iconiche del padre. «Uhm, fossi in te la smetterei» suggerì il re a Anthony.

Fedra intanto si era avvicinata e ora era a poca distanza da Woomingan, a braccia conserte, l'aria inviperita. L'undicenne smise di ridere e fece un passo indietro. Quella lì era una tigre in miniatura e sotto mentite spoglie!

«Non voleva offendere Dorian, Fedra» cercò di metter pace Cynder. «Su, abbi pazienza.»
Lei tuttavia non disse una parola e superò Anthony con fare altezzoso, il naso per aria come se fosse una gran dama gravemente indispettita.

«Ma che ho fatto?» borbottò tra sé Anthony, ficcandosi le mani in tasca. «Le ragazze!» aggiunse, dandosi chissà quali arie da uomo di mondo, cosa che strappò un sorriso divertito al re. «Dove andremo domani c'è qualcuno della mia età?»

Cynder annuì. «Sì, più o meno. Si chiamano Nicholas e Viktor, hanno dieci anni e sono... be', se vogliono sanno essere delle pesti.»

Anthony sorrise di sbieco. «Grande!»

«Ciò non significa che dovrete mettere a soqquadro l'intero palazzo» lo apostrofò il sovrano con un'occhiata che parlava da sé. A metterlo in all'erta era stato lo sguardo di colpo scintillante e da autentico furbetto del figlioletto di Alex.

Il ragazzino mise su un'espressione innocente che poco si addiceva al suo viso sbarazzino e da diavoletto. «Ma sì, sì! Mi comporterò bene!» replicò, agitando una mano.

Cynder non era granché convinto.

 Godric non ebbe difficoltà a restare immobile mentre gli veniva auscultato il cuore. Si sentiva debole e purtroppo anche indifeso, alla pari di un gatto appena nato.

Le allucinazioni di cui aveva iniziato a soffrire erano finalmente svanite dopo i tre giorni nei quali Petya gli aveva somministrato a suon d'orologio, con una diligenza da far invidia al più incallito degli infermieri, la pozione che presto avrebbe sciolto anche la maledizione che pendeva sul suo capo come una spada di Damocle.

Mentre respirava profondamente, come gli era stato appena intimato di fare, osservava con attenzione Jake Andersen. Sembrava diverso dal solito, più serio e pensieroso, non quello di sempre. Qualcosa in lui non andava. Quando l'ex-medico ritrasse lo stetoscopio, Godric si decise a parlare, la voce flebile e arrochita: «Temo di non essere in ottima forma». Persino in quello stato non mancava di prendere tutto in chiave sarcastica e auto-ironica.

Jake si riscosse dallo stato meditabondo in cui era sprofondato e lo squadrò. «Sciocchezze. Certo, il battito non è regolare quanto vorrei e... be', hai bisogno ancora di riposo e di calma, ma stai facendo ottimi progressi. Tornerai a stare bene molto presto, vecchio demonio.»

«Nel corpo, se non altro.» Anche se non avrebbe mai perdonato Jake per quel che era successo con Iago, Godric era così stanco, mentalmente e fisicamente, da non avere la forza di tenere il broncio al prossimo, o di arrabbiarsi più di tanto. «Qualcosa ti angoscia. Che ti è successo, Frankenstein

Andersen sogghignò a quel soprannome. Si strinse nelle spalle. «Quello che succede a milioni di persone al mondo quotidianamente. I soliti crucci della vita.»

«Un tantino più vago e potrei scambiarti per Metatron» lo apostrofò l'Efialte.

Jake contrasse appena la mascella, giocherellando con lo stetoscopio che reggeva fra le mani. «Io e Max non stiamo più insieme, ecco tutto. Come ho detto: non sono il primo né l'ultimo a soffrire per una storia arrivata al capolinea. Me lo aspettavo, in realtà. Da quando lui e Dario si sono riavvicinati, Max è cambiato molto. Ultimamente era spesso assente, con la mente altrove. Petya, però, mi ha detto che Dario non ne sapeva niente e che fra lui e Max, purtroppo, pare esser finita. Temo che Maximilian abbia fatto il passo più lungo della gamba e dunque, ora, si ritrova con tutte e quattro le gomme a terra.»
Con tutto l'amaro che aveva ancora in bocca dopo aver rotto con quel vampiro, Jake non era fino in fondo dispiaciuto per quel finale. Se la memoria lo assisteva, era stato Max a farsi avanti con lui; Max gli aveva detto di amare lui e nessun altro, solo per poi cambiare idea non appena il suo ex-amante era tornato nella sua vita.

Godric sciabolò le sopracciglia e poi roteò gli occhi. Era tra le persone meno adatte con le quali parlare di problemi di cuore. Non c'era nulla che potesse dire per confortare Jake, non quando era lui il primo a penare per colpa di uno stronzo che invece di lui se ne fregava. «Non te la prendere a male, ma in fin dei conti te la sei cercata. Come potevi pretendere che andasse avanti per sempre? Chiunque si stuferebbe di fare la ruota di scorta, prima o poi, persino uno zerbino vivente come Max.»

«Non chiamarlo in quel modo.»

«Si comporta come tale e perciò merita questa definizione» insisté Godric, il tono di voce severo, malgrado la debolezza. Era uno di quelli che persino sul letto di morte sarebbero comunque rimasti autoritari. «E comunque, spesso è un dilemma quando uno apertamente omosessuale si mette insieme con un uomo bisessuale. Non dimentichiamo che hai anche una figlia, e questo ha decisamente influito sulla decisione di Max di farsi da parte. Non voleva distruggere la piccola famiglia che ti sei costruito, perciò ha scelto di mollare la presa. Semplice. Penso che in parte la questione di Dario fosse solo una scusa.»

«Non era una scusa. Petya mi ha detto, dopo che ho un bel po' insistito, che Max ha proposto a Dario di sposarlo e lui, però, ha rifiutato.» Jake gli rifilò un'occhiata un po' risentita. «Comunque, Godric, invidio il tuo aplomb.»

L'Efialte di nuovo non mostrò sorpresa alcuna. «Che si aspettava, dopo avergli messo le corna per ben due volte? È ovvio che Dario abbia rifiutato! Significa che è ancora più sveglio di quanto pensassi!»

Andersen di nuovo lo squadrò con aria contrariata. «Max è capace di amare come pochi altri lo sono, al mondo. Non lo conosci come lo conosco io.»

«Lui e Dario sono stati insieme per undici anni. Credo che fra noi tre sia lui a conoscere di più Maximilian. Sono cambiati entrambi fino al punto da non essere più compatibili come prima, ecco il perché del rifiuto.» Godric trattenne un sospiro. «Vorrei davvero essere dispiaciuto per te, Andersen, ma non ci riesco e non mi è mai piaciuto fingere. La finzione è la peggiore forma d'insulto e anche se mi stai sulle palle, riconosco la tua intelligenza e non ho intenzione di offenderla dicendoti quanto mi dispiace per le tue pene d'amore. La verità è imbattibile e ha sempre la sua dose di charme.»

Andersen sbuffò una risata. «Mi piace pensare che in un'altra vita saremmo potuti essere amici. Se non altro sei onesto e questo, in te, lo apprezzo molto.»

«Non sono solito fantasticare, e comunque anche così non mi dispiace. Sarebbe stato tutto più noioso se non avessi avuto la possibilità di sfotterti quando e come più mi aggrada. Non trovi?»

Jake sogghignò. «Lo sai, Godric? Ti invidio.»

L'Efialte sollevò entrambe le sopracciglia con aria fintamente sorpresa. «Tu mi invidi? Si vede che sei disperato e depresso, e anche un bel po'!»

«No, dico davvero. Insomma, dici quello che ti pare a chi ti pare e non te ne frega niente di quel che il prossimo potrebbe pensare della tua lingua velenosa e biforcuta. Hai conquistato il massimo della libertà, se ci rifletti bene! Non badi ai sentimenti altrui, dici le cose come stanno e si fottano le conseguenze.»

Godric sorrise in modo decisamente forzato. «Be', Occhi Blu, non pensare neanche per un momento di imitarmi. Non sono il Re Sole e non amo essere imitato. Sono un pezzo unico e gradirei restare tale, perciò meglio se rimani come sei. Basto e avanzo io a infrangere i cuori e le altrui speranze con la mia lingua velenosa.»

Andersen scosse la testa. «Non mi sorprende che tu sia un padre single, sai?»

«Non ti sorprenderà nemmeno sapere che non ricordo la faccia della madre di Violet, allora.»

Jake rimise intanto a posto nella valigetta lo stetoscopio. «Dunque Violet è un effetto collaterale?»

«Precisamente. Nessuno sano di mente deciderebbe a bella posta di figliare col sottoscritto, credimi.»

Jake, suo malgrado, rise di gusto. «Figliare! Che termine desueto!»

«Tesorino, io stesso sono desueto come l'Ancien Régime.» Godric sbuffò. «Immagino che pretendere di alzarmi da questo letto e deambulare un po' per i corridoi sia decisamente fuori discussione. Giusto?»

«Direi di sì.»

«Ottimo, allora lo faccio.»

«Come vuoi. Poi non lamentarti se ti sentirai sfiancato fra al massimo dieci minuti.»

«Senti, Coso...» Godric, pur con gran fatica, riuscì a scivolare fuori dal giaciglio e reggersi sulle sue gambe. «Qualche rischio a volte bisogna correrlo e qui c'è in ballo la mia sanità mentale già in situazioni normali abbastanza compromessa. O mi alzo e affronto lo sfinimento a suon d'orologio, o qui mi ammattisco sul serio, prendo un'accetta e faccio a pezzi la mia famiglia inesistente in questa squallida replica della stanza duecentotrentasette. Se non ti è chiaro qualche punto dimmelo, altrimenti vattene a fanculo con tanto di cartolina da spedirmi all'arrivo. Grazie.»

Jake sghignazzò. «Oh, come desiderate, mia Regina.»

L'Efialte restrinse lo sguardo e invano cercò nei paraggi qualcosa da lanciargli in faccia. «Appena rivedrò quel debosciato di Iago, giuro che io e lui faremo un bel discorsetto su questa dannata storia della ‟regina".»

Andersen rise ancora. «Oh, andiamo! In fin dei conti ti si addice!»

«Sai cosa si addice a te, invece? Il segno inequivocabile della mia mano sul tuo bel faccino, Yakovich.» Godric, non senza sibilare una bestemmia un bel po' sconcia, fu costretto a rimettersi seduto sul letto. Niente da fare, non ce la faceva a stare in piedi, neanche per cinque minuti. «Mannaggia alla Grande Madre» borbottò ancora. «Giuro che appena pesco Grober in giro, e tanto accadrà una volta o l'altra, gli faccio un culo così. Parola mia. Nessuno mi maledice, riduce a un novantenne con l'artrite e resta poi impunito. Nessuno!»

Jake sbuffò una risata e non disse niente. L'Efialte, dunque, domandò: «Come se la sta cavando il Cornelius resettato?»

L'ex-medico si strinse nelle spalle. «Fa il bravo, come c'era da aspettarsi. Oserei dire che è piuttosto gradevole come presenza, ora che non fa più lo stronzo e ha smesso di gettar fango sul prossimo.»

Godric fece una smorfia. «Peccato che insieme al caratteraccio abbia perso anche le sue abilità di guerriero. In quello stato è utile quanto una lampadina fulminata.» Si sporse e recuperò il bicchiere d'acqua mezzo vuoto per dare sollievo alla gola secca.
Jake schiarì la voce e tossicchiò. «Uhm, non so come dirtelo senza mandarti fuori dai gangheri, ma credo che tu, in un certo senso, abbia fatto colpo su di lui. Ha chiesto spesso di te in questi giorni, pare quasi un cagnolino che ha perso il padrone per strada.»

Vide l'altro sul punto di strozzarsi con l'acqua. Gli si avvicinò e gli batté qualche colpo sulla schiena. Godric lo spinse indietro bruscamente. «T-Tu e le tue... t-tue balordaggini!» gracchiò inviperito. «Sono troppo vecchio per certi scherzi cretini!»

«Guarda che dico sul serio!» insisté Andersen, un po' contrariato. «E poi, a pensarci bene, questa cosa potrebbe volgere a vantaggio di tutti quanti. Pensaci, Godric: potresti influenzarlo in modo da riprogrammarlo, in un certo senso, e dargli qualche dritta su come ci si batte e roba del genere. Senza volerlo Dante ha...»

«Non pronunciare quel nome in mia presenza!» tuonò l'Efialte.

Jake roteò gli occhi. «Oh, insomma! Ora inizi tu a fare la scolaretta offesa? In fin dei conti ha fornito a Petya la formula per salvarti dalla maledizione, no?»

«A volte sei talmente stupido, Jake Andersen, da spingermi a chiedermi come tu abbia fatto a studiare medicina.»

«Sono solo imparziale e se vuoi il mio parere, allora sappi che siete ridicoli. Tutti e due.»

«Ha dato a Petya quella formula solo per toglierselo dalle scatole, perché altrimenti sapeva che l'avrebbe perseguitato fino alla fine dei tempi. Non scambiare per cameratismo un atteggiamento ben diverso.» Godric non scherzava affatto quando diceva di non voler più saperne niente di quell'orribile individuo. Da parte di Dante aveva ricevuto solo cattiverie e malignità gratuite, e finalmente si era reso conto di aver commesso un grave errore a dargli più importanza di quanta ne meritasse in realtà. «Che crepi pure, se lo crede bene. Farebbe un favore a tutti, compreso il sottoscritto. Soprattutto a me. Farei i salti di gioia.»

Jake si incupì. «Attento a dire queste cose e a esprimere certi desideri ad alta voce. Rischi che si avverino e ti ritornino indietro dritti in testa come un boomerang, e allora sì che sono dolori.»

«Chi se ne frega.»

Andersen squadrò Godric in silenzio, poi: «Sei solo ferito, tutto qui. Non lo odi, e lo sai meglio di me, e se anche lo odiassi, sarebbe comunque qualcosa. La belva peggiore di tutte è l'indifferenza, amico mio. Quando arriva quella non c'è più di niente da fare, ma fintanto che esistono l'odio e il risentimento...»

«Oh, non farmi la predica!» si lamentò l'Efialte, storcendo le labbra. «Dico ciò che penso, e penso che Dante, per me, è come se ormai fosse morto e sepolto! E prima o poi qualcuno gli darà la lezione che si merita! Questo è quanto!»

«Allora perché ti scaldi tanto?»

«Dici un mucchio di fesserie, ecco perché.»

Jake sbuffò una risata, poi schiarì la voce. «Che mi dici, invece, di Grace? Tra un pettegolezzo e l'altro sulla tua presunta, e inesistente, relazione con mio fratello, è saltato fuori che...»

Godric alzò gli occhi al cielo. «Abbiamo scopato una sola volta! Va bene?» sbottò, esasperato. «Non si può fare niente qui senza che tutto il circondario venga a risaperlo! È il colmo!»

L'altro ghignò con fare più impertinente. «A me sembra di aver sentito dire che vi hanno visti entrare in questa stanza almeno un paio di volte.»

«Vaffanculo, Andersen.»

«È vero o no?»

«Non sono tenuto a risponderti!»

«È vero, eccome se lo è!» esclamò divertito Jake. «Guarda che faccia che hai!»

In effetti Godric sembrava essersi inalberato parecchio. «È una tipa attraente, non c'è dubbio» si limitò a bofonchiare l'Efialte, fissando con improvviso interesse le lenzuola. «Ci sa fare, ecco.»

«Nient'altro?»

«Per Dio! Fatti un po' un anfiteatro beatissimo di cazzi tuoi! Vuoi?»

«E dimmi, vecchia volpe: tu le piaci?»

«Tu, piuttosto, progetti di svegliarti domani con un bell'occhio nero?»

«Da quanto va avanti?»

«Dov'è Grober con le sue maledizioni quando serve? Ho un improvviso desiderio di crepare!»

Jake, capendo che Godric non aveva intenzione di fiatare in merito a Grace e alla presunta tresca, decise di mollare l'osso, almeno per il momento. «Okay, okay. Siete ancora in una fase strana.» Gli batté una mano sulla spalla. «Ti lascio riposare, dai.»

L'Efialte si morse il labbro inferiore. «N-Non è che...?»

«Petya mi ha caldamente proibito di lasciarti in compagnia dei Fiori del Buio» rispose l'ex-medico, capendo subito la sua allusione. «Credo che... be', che non si fidi ancora e pensi che potresti fare qualcosa di estremamente stupido.»

Godric strinse le labbra. «Vorrei che per un solo giorno uno di voi, non importa chi, si ritrovasse nei miei panni. Forse a quel punto capireste cosa vuol dire essere me.»

Jake si sentì un po' male nell'udire quelle parole. «La morte non è la risposta, credimi. Non risolve niente.»

«Tu dici? Secondo me, invece, risolve un bel po' di cose. Risolverebbe tutti i miei problemi.»

Andersen squadrò l'Efialte con aria concentrata. «Di' la verità: non volevi essere salvato.» Non ricevette risposta, ma lo sguardo che gli restituì Godric parlava da sé. Era chiaro che si era abituato all'idea del trapasso e che Petya, invece, gli avesse scombinato i piani.

Godric deglutì a vuoto. «Vuoi che parli con onestà? Va bene, lo faccio: sì, non volevo essere salvato e sì, ancora spero che prima o poi la mia tediosa esistenza arrivi finalmente al capolinea. Quel che avevo da vedere, Andersen, l'ho visto. Quel che avevo da vivere l'ho vissuto, e sì, sono stanco. È come se dentro di me sapessi di essere un libro ormai giunto alle ultime pagine. Un libro che non ha più niente da raccontare e insegnare, e mi va bene così.»

Col cuore in gola, Jake schiarì la voce. «Qualche anno fa avrei detto anche io queste cose, ma poi... be', Max e Rose mi hanno restituito la voglia di vivere. Quando sono stato liberato dalla prigionia credevo di essere ormai distrutto, impossibile da aggiustare, a volte avrei voluto solo farla finita una volta per tutte. Come te non riuscivo a dormire, perché rivedevo sempre i momenti in cui venivo torturato. Mi sentivo in colpa per James, per mio fratello, poi però ho capito che dovevo rialzarmi, che c'era ancora qualcosa per me in questo mondo, in quello dei vivi.» Si sedé sul bordo del letto. «Hai una figlia, Godric. Quella bambina ha bisogno di te, sei suo padre e hai il dovere di vivere per starle vicino e guardarla diventare un giorno una donna in gamba, proprio come te. Non puoi permetterti di indugiare in questi pensieri, perché a mio parere hai tanto da dare agli altri. Il punto è che hai paura, tutto qui. Sei rimasto scottato una volta e adesso ti terrorizza il voler impegnarti di nuovo a costruire una famiglia, un avvenire.»

Godric emise una risata strana, per niente allegra. «Non è questo» disse. «Il punto è che io sono vivo e non me lo merito. Non me lo meritavo allora, non lo merito neanche adesso. Il solo pensiero di essere felice mentre la mia famiglia marcisce tra le rovine di un passato che non riuscirò mai a dimenticare, mi disgusta. È vero, ho il dovere di vivere, ma solo per ricordarmi dove mi ha portato dare la precedenza alla famiglia di qualcun altro, piuttosto che alla mia. Nel tentativo vano di salvare i cari di un altro, ho sacrificato mia moglie, i miei figli, ogni cosa. È come se li avessi uccisi io, lo capisci?»

Se ci rifletteva meglio, forse si era meritato fino in fondo l'ostracismo al quale era poi stato condannato da Dante e gli altri suoi compagni di rivolta. Non erano stati clementi, nient'affatto, perché sopravvivere alla propria famiglia e andare avanti ogni giorno col pensiero costante di avere le mani sporche del sangue dei propri cari era la tortura peggiore di tutte. La morte, a confronto, sembrava il miglior balsamo del mondo, un lusso impareggiabile.

Dante, invece di ucciderlo, lo aveva condannato a ricordare in eterno tutto quanto, a sentirsi in colpa, responsabile di un orrendo disastro, marchiato a vita nel cuore e nella mente con l'orrido segno della vergogna. Bastava questo a far capire quanto Dante potesse essere sadico e crudele, specialmente se furibondo.

Gli aveva letto negli occhi, secoli prima, che era consapevole di avergli affibbiato la punizione peggiore di tutte. Godric lo aveva capito nel momento in cui l'aveva visto gettare a terra la spada, fino a istanti prima pronta a trapassarlo, e dirgli, con quell'espressione glaciale, furiosa e disgustata che mai aveva dimenticato, che sarebbe stato per tutti quanti loro alla stregua di un criminale, di un reietto, un emarginato sociale da evitare come la peste.

‟ Non sei più il benvenuto fra di noi " gli aveva detto, crudele nell'espressione e nelle parole come la maledizione della meretrice, o come il più temibile e insensibile giudice infernale.

L'Efialte esitò, poi sollevò una manica e finalmente fu chiaro al suo interlocutore il motivo per cui, persino in estate, non indossava altro che magliette e camicie a maniche lunghe. Jake trattenne il fiato mentre osservava la cicatrice antica e mai completamente guarita, in rilievo sull'interno del braccio. Era un marchio vero e proprio ed era stato impresso con un ferro rovente. «Cristo...» esalò Andersen. Si trattava, in realtà, di una parola, una runa appartenente all'alfabeto arcaico degli Efialti. Significava, come disse poco dopo Godric, ‟traditore". «Non è mai guarito del tutto. È un segno maledetto, lo si riserva da millenni solo a pochi eletti, a chi come me è considerato il nemico del suo stesso popolo. Anche se lo nascondo, i miei simili lo percepiscono lo stesso. Il marchio li allerta e tramite l'istinto fa capire loro che è meglio tenermi a distanza ed evitarmi, perché sono un poco di buono, un criminale, un traditore. Ho tradito la mia gente e la mia punizione è la solitudine e l'indifferenza.»

Jake deglutì. «Non sei mai riuscito a toglierlo? Voglio dire...»

«No. Ci ho provato tante volte, ma è indelebile. Non importa cosa io faccia o abbia fatto nel tentativo di liberarmene. Non se ne andrà mai. È una condanna a vita, eterna. C'è solo un modo per porvi fine e proprio quando iniziavo ad accettarlo, ecco che tuo fratello è venuto a rovinare tutto di nuovo.» Godric riabbassò la manica. «Ora capisci perché non voglio che mia figlia cresca con me? Finché rimarrà in mia compagnia, tutti sapranno che sono suo padre, che ha per genitore un traditore, un reietto, qualcuno che va disprezzato ed evitato. C'è ancora chi non mi rivolge la parola, anche a distanza di secoli. Ecco perché me n'ero andato dall'Oltrespecchio: laggiù per me non c'era altro che miseria e solitudine.»

Una domanda, di fronte a tutto ciò, sorse spontanea nella mente di Jake: come poteva Godric amare la persona che lo aveva condannato in eterno a quella sorta di ‟cammino della vergogna"? Quello era puro masochismo, altro che storie!

«L'unica cosa buona che avrei potuto fare per Violet, sarebbe stata morire e venir finalmente dimenticato da tutti. Impedirle di essere collegata in alcun modo a me. Non c'è altro che io possa darle. Niente, se non questa libertà. Per un Efialte, puro o meno, è importante essere riconosciuto dai membri della sua specie, avere un posto dentro di essa. Non è come per voi umani: ve ne andate in un altro Paese e una generazione dopo l'altra riuscite ad ambientarvi, a sentirvi alla fine parte della comunità, ma per un Efialte l'Oltrespecchio sarà sempre la casa più importante di tutte, la madre fra le madri, e quando è tua madre a rifiutarti e a respingerti...»

Non c'era bisogno che Godric continuasse il discorso. Il senso era chiaro a tutti e due.

Jake, senza farsi vedere né notare, si passò il dorso della mano sulle guance. «Be', qui saresti una presenza gradita, se solo la smettessi di fare lo stronzo e respingere chiunque cerchi di esserti amico. Non sarà come avere il rispetto e l'affetto dei tuoi simili, ma sempre meglio della solitudine totale.»

«Non è quella a terrorizzarmi, ormai, ma l'esatto contrario. Ho imparato a stare bene da solo.»

Jake compativa quell'Efialte. Era proprio vero: una volta che ci si ammalava di infelicità, non si guariva più. Era una malattia priva di cura, infida, si insinuava fin dentro le ossa e ancor oltre, in ogni singolo meandro dell'animo. Fagocitava tutto finché non restava più niente che potesse divorare. Finché non si diventava come Godric: disillusi, senza speranza, schiavi di una solitudine e un'oscurità che da avversarie erano diventate care e vecchie amiche, le uniche compagne di un'anima persa.

Godric sorrise appena, un'insopportabile curvatura delle labbra che esprimeva solamente rassegnazione. «La verità è che sento, so che non c'è posto per me. Non c'è, poco importa se mi trovo qui o nell'Oltrespecchio.» Aveva imparato a guardare in faccia la crudele e sterile realtà, e soprattutto ad accettarla. Il sogno per lui era terminato da un pezzo, o forse mai era cominciato.

Jake schiarì la voce. «Non dire fesserie.» Aveva un brutto presentimento, orribile anzi, e sperava solo di sbagliarsi. Eppure, quando incrociò gli occhi di Godric, capì che pensavano alla stessa cosa: Grober, prima o poi, sarebbe tornato all'attacco. Una volta che aveva individuato la preda, non la lasciava più andare finché non l'aveva azzannata e abbattuta.

L'Efialte fece un gran sospiro. «Non mi importa cosa farà pur di avermi fuori dai giochi. Non ho intenzione di restare fermo mentre mi mutila pezzo dopo pezzo. Che venga pure a cercarmi. Mi troverà in piedi e pronto a saltargli alla gola di rimando.»

Jake si guardò in giro, come se temesse di veder saltare fuori Grober da un momento all'altro. «Non dire queste cose ad alta voce.»

«Che io le pensi o le dica, la differenza è poca.»

«Be', non credere che ti permetteremo di affrontarlo da solo.»

«Questa è la mia battaglia. Scusa se sarò schietto, ma ne sono piuttosto geloso.»

«Non puoi battere da solo Grober, ragiona! E non provare a dire di nuovo che non ti importa di sopravvivere, o ti prendo a pugni!»

Godric lanciò un'occhiata ad Andersen ricolma di fermezza. «Non voglio che vi immischiate. Risparmiate le forze per questioni più importanti. Ve ne serviranno a iosa.»

«Fai parte della Resistenza e godi come tutti gli altri della sua protezione!»

«Io non voglio alcuna protezione, però. Non ho paura di morire, Jake. Non ce l'ho più da un bel po' di tempo. Ho passato secoli a riderle in faccia. Non aspetto altro che il momento in cui deciderà finalmente di rispondermi per le rime.» Le parole di Godric non erano di una persona disperata, e soprattutto erano quelle di uno sano di mente. «Se proprio volete aiutarmi, allora non fate niente. Lasciate che Grober si prenda ciò che vuole. Se ho ben capito come sta la storia, è meglio assecondarlo e permettere alle cose di fare il loro corso.»

Andersen lo guardò inorridito. «Non puoi sul serio aspettarti che restiamo a guardare!»

«Allora non guardate. Volgete altrove gli occhi. Mi sembra piuttosto semplice. D'altronde l'avete fatto anche con Misha, se ben ricordo.»

Quella frecciatina fece un bel po' male a Jake. «È diverso. Non sapevamo cosa stava accadendo sul serio, altrimenti saremmo intervenuti. È stato un atto solitario, Godric. La colpa va imputata a Loki e a nessun altro. Lui ha forzato Misha a sacrificarsi.»

«Misha negli ultimi giorni di vita era visibilmente cambiato, era palese che ci fosse qualcosa sotto, eppure lo avete ignorato. Non venirmi a raccontare fesserie, Jasha Yakovich! Iago mi ha detto tutto! Se anche aveste saputo cosa stava succedendo, non avreste comunque fatto niente perché odiavate Misha, tutti quanti voi!»

«Ma non odiamo te!» insisté Jake. «E ci siamo ripromessi che non avremmo più lasciato da solo un membro della Resistenza!»

«E Alex, invece? Di lui cosa mi dici, sentiamo? Non lo mettiamo in conto?»

L'ex-medico ammutolì e l'Efialte, dunque, gli rifilò un'altra occhiata pungente. «Per certe stronzate colossali ci vogliono basi solide. Ricordatevelo la prossima volta che vorrete convincere qualcuno che qui siamo tutti sulla stessa barca, quand'è palese l'esatto contrario. Ci fosse stato Skyler al posto di Alexander, vi sareste mobilitati tutti pur di guardargli le spalle e cercare una scappatoia, ma qui non parliamo dell'Imperatore, giusto? Come al solito ci sono individui che contano più di un'intera nazione. La canzone è sempre la stessa.»

Jake si alzò. «Be'... se la tua sorte è davvero segnata, se davvero Grober verrà a cercarti... se veramente intendi affrontare la fine, sappi che io sarò lì, al tuo fianco. Non siamo amici, non possiamo crepare di vederci, ma io questo, Godric, l'ho imparato quel giorno maledetto nella foresta di Nordmarka: nessuno dovrebbe morire da solo, senza qualcuno che stia lì a stringerlo, a dirgli che va tutto bene, a confortarlo negli ultimi istanti di vita. Io sarò lì, non importa cosa potrebbe succedere. Non meriti di restare da solo fino alla fine dei tuoi giorni.»

Godric si ostinò a non guardarlo. «Fa' come ti pare.»

Gli era bastato e avanzato parlare con Metatron per capire che in un modo o nell'altro non avrebbe visto la fine di quella maledetta guerra. Aveva guardato quell'angelo negli occhi e compreso tante cose, ed era chiaro che Grober lo voleva morto per un motivo ben preciso e che lui, volente o nolente, doveva lasciarlo fare, permettergli di prendere ciò che desiderava.

Quando arriverà il momento, Godric, non fare niente" gli aveva detto Metatron con aria grave. ‟Lascia che la tua sorte si compia, qualunque essa sia."

Lo sguardo dell'Angelo Profeta aveva parlato molto più delle parole e ormai era come se tutto quello che era successo fosse destinato a confluire in quell'unico e inesorabile finale. La sua caduta dalla grazia, la vergogna e il rifiuto tollerati per secoli, sarebbero finalmente cessati. Era quella la sola libertà alla quale Godric sentiva di poter aspirare, l'unica che attendeva un Efialte che aveva guardato negli occhi un Cardinale che si era attardato sul far della sera. La sentenza era già stata emessa e l'esecuzione attendeva di compiersi, e a lui andava bene così.

Godric era morto molto tempo addietro, poco importava quel che tutti gli ripetevano. Il suo spettro aspettava solo di tornare nella cripta e riunirsi alle sue ossa.

Guardò in silenzio Jake abbandonare la stanza. Non era rimasto più niente da dire.


Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro