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Appuntamento (One-Shot da Nightmare)

Premessa: non ho mai scritto in prima persona, quindi questo è un beeeel grande esperimento. Grazie a JediKnight01 che sopporta ogni mio sclero e mi è sempre accanto. Se questa OS esiste è grazie a te.
Infine spero che marwoleth ne sia felice. Regalo di compleanno palesemente in ritardissimo, ma mi avevi chiesto di pubblicarla come regalo, quindi ecco(?).
Bene, addio.
Probabilmente questa raccolta verrà aggiornata di tanto in tanto, forse sempre coi Pov di Atlas perché, beh, è Atlas.

***

Atlas

«Ma guarda che meraviglioso figurino.»

Adesso ammazzo Isak. Credo di averne il diritto in quanto suo migliore amico. Dovrebbe imparare a stare zitto. Gli mozzerei la lingua e gliela farei ingoiare, a volte. Soprattutto oggi. Sono nervoso. Se si azzarda a dirmi ancora qualcosa potrei scannarlo vivo.

Gli scocco un'occhiataccia, nel mentre che abbottono la camicia. Sono agitato, non sono a mio agio e sento di dover vomitare, molto probabilmente. Ho lo stomaco più debole di quello di un poppante, Cristo Santo. Forse avrei dovuto prendere la camicia azzurra, non quella bianca.
Ora mi sento un idiota per voler sembrare quanto più passabile agli occhi di Hercule. In pratica tutta la mia sicurezza ha deciso di scaricarsi nel cesso, oggi.

«Giuro che se continui ti ammazzo. Così posso raccontare a tua figlia cosa succede quando non si sta zitti.» Punto un dito contro Isak, quando sento Ida alle mie spalle ridacchiare.
Adesso ammazzo anche lei. Due pallottole, due problemi in meno.

Mi volto a guardare Ida, che mi si avvicina a passo lento e cadenzato, prima di soffermarsi ad osservarmi per qualche istante. Vorrei chiederle se ho qualcosa che non va, ma non ho voglia di rendermi ancora più ridicolo.
Ida mi sistema un ciuffo di capelli ribelle e mi ammicca, porgendomi poi la giacca.

«Smettila, Isak. Non metterlo a disagio, è il suo primo appuntamento.» Sorride poi divertita, sghignazzando insieme al suo futuro cognato.

Due facce di cazzo. Ecco cosa sono. Adesso penso che in effetti potrei rendere Eyre e Bendik vedovi in una sola sera e con un solo colpo. Sarebbe divertente da testare. Il pensiero mi distrae da questo appuntamento che non chiamerò mai così ad alta voce. Nemmeno sotto tortura. Anzi. Adesso nego, perché non devono farsi aspettative.

Socchiudo gli occhi e libero le mani dalla presa mortale chiusa a pugno. «Non è un appuntamento.» Sono in ansia come un sedicenne. E questo ormai è palese a tutti, invece. Vorrei urlare e scappare come un forsennato, sfondando la porta. Non ho mai fatto cose simili, non ne ho mai avuto il tempo. Va bene, non ho nemmeno poi avuto così tanta voglia.
Ammetto che nessuno era abbastanza interessante quanto Hercule.

Eppure, in cuor mio -sempre supponendo che ne abbia uno, ovvio- so che ciò che sta per succedere sia molto simile al concetto di appuntamento, semplicemente preferisco non pensarci.

Isak ridacchia ancora e si passa una mano nella folta barba rossa. «Proprio per questo hai messo una camicia nuova, vero?»

Ma perché quell'idiota parla ancora? Dovrei seriamente mozzargli la lingua. «Vuoi per caso un naso rotto?!»

Ho sempre avuto un debole per le camicie, mi piace essere elegante, ma mai troppo. Così ne ho indossata una bianca, anche se continuo a chiedermi come mi starebbe quella azzurra, dei jeans e un cappotto abbastanza lungo, per restare al caldo. È pur sempre novembre e il freddo si sente così tanto, da poter ghiacciare le ossa.

Mi guardo attorno e faccio per prendere la pistola, ma san Ida rompicoglioni mi ferma.

«È un appuntamento, non una sparatoria, perché non te la godi, ogni tanto?»

Sbuffo. «Non è un appuntamento.» Lo ribadisco, a quanto pare soffrono di Alzheimer. Riesco a demonizzare e allontanare il nervoso così.

Inizio a muovermi come un automa. Afferro le chiavi di casa e lancio un'ultima occhiata ai miei due amici. Ho l'aspetto di chi era pronto a marciare sul fronte di guerra. Mi sento in ansia, di cosa diavolo si parla a un appuntamento?
Cosa dovrei dirgli? Anche perché penso abbia capito che il suo culo mi ha destato già un certo interesse e non sono bravo coi complimenti, anzi.

Isak a stento riesce a trattenere una risata.

«Sei troppo agitato, tanto è già tuo.»

Ma sì, adesso lo ammazzo. Mi avvicino al tavolo e faccio per prendere la pistola, ma Ida è più veloce e mi spinge all'indietro. «Lascialo stare, Isak. Siete due bambini, Cristo.» Aggrotta la fronte e gli sorride poi. «Come vi organizzerete?»

"Ma che cazzo ne so, io".
Le vorrei rispondere così e piagnucolare come un bambino. Mi piace lamentarmi. Mi aiuta a liberarmi delle tossine.
In realtà mi diverte esasperare chi ho attorno, ma questo immagino che i miei amici lo abbiano capito già.

Scrollo le spalle. «Ha detto di andare da lui, così finiva di prepararsi perché ha finito tardi al commissariato e poi uscivamo.» Decido che quello è il momento migliore per fuggire via ed evitare ulteriori commenti. Esco da casa e mi riverso per la strada di fretta.

Alzo una mano per attirare l'attenzione di un taxi e salgo al suo interno. Do al tassista l'indirizzo del palazzo di Hercule e nascondo le mani nelle tasche del giaccone, cercando di non pensare a cosa fare o cosa dire. Quando ero un ragazzino e frequentavo le superiori, mi ero sempre tenuto lontano dagli altri, anche perché non sono un amante della compagnia e nella mi solitudine ci sguazzo benissimo.
Vivevo in una comunità, una sottospecie di orfanotrofio e per anni ero riuscito sempre a non farmi adottare da nessuna famiglia.

Nessun legame, nessun problema.
È sempre stata questa la mia filosofia di vita, ma a volte mi chiedo a che prezzo. E ultimamente questa domanda infesta la mia testa sempre di più, soprattutto quando quel dottore idiota mi gira attorno con quel solito odioso sorriso.

Avevo vissuto abbastanza male il mio orientamento sessuale all'inizio, motivo per il quale tendevo a non uscire con nessuno dei miei coetanei, né ad avvicinarmi a qualche ragazzina.
L'ultima volta che avevo deciso di violentarmi, avevo invitato a uscire una certa Lyanna Curtis, perché sembrava carina e abbastanza folle da essere interessata a me.
Fu probabilmente il mio unico appuntamento, ma non amo ricordarlo. Dopo averla accompagnata vicino casa, ci eravamo scambiati un bacio e pochi istanti dopo aveva vomitato. Se ci ripenso mi salgono di nuovo i conati.
Mi ostino a dire che non sono uno stomaco debole, ma in realtà è l'unico modo con cui il mio corpo scarica la tensione. Avevo accumulato così tanta ansia quel giorno da essere crollato a fine serata.

Cristo, spero di non fare la stessa fine questa sera. Sebbene Hercule abbia già assistito al mio pietoso spettacolo. Mi chiedo perché voglia ancora uscire con me. Forse il pazzo è lui tra noi due.

Da quel momento, comunque, avevo capito che le relazioni e le uscite non fossero il mio campo e che era meglio che mi tenessi a debita distanza. Col tempo, avevo iniziato ad accettare me stesso e il fatto che fosse difficile che amassi davvero o che potessi essere compreso e amato. Avevo iniziato soltanto a distrarmi col piacere della carne, quando avevo voglia di scaricare il nervosismo in qualche modo diverso dal solito omicidio.

Spero di non starmi trasformando in un patetico e ridicolo romantico, dal momento in cui penso che con Hercule non sento l'esigenza di divertirmi soltanto. Mi basta anche restare in sua compagnia.
Va bene, sono ridicolo. Forse è meglio che trovi qualcuno da uccidere.

Fisso, attraverso il finestrino, le luci della città incatenarsi tra loro, fondersi con quell'aria magica e tetra che solo Edimburgo di notte poteva avere.
Pur essendo di origini cubane, avevo vissuto per anni a Londra, spostandomi spesso per lavoro anche in America o in altre parti del mondo, soprattutto quando avevo vissuto nell'esercito per qualche anno. Mi era trasferito da poco ad Edimburgo, forse per l'esigenza di cambiare aria, conoscere un posto nuovo, che fosse abbastanza lontano da casa, sebbene a volte sentissi la mancanza dei tempi migliori, troppo lontani e brevi per poter sorridere al ricordo.

«Siamo arrivati.» Il tassista attira la mia attenzione. Pago la corsa e scendo dal taxi, guardandomi intorno, un po' nervoso.
Prendo un forte respiro e citofono al palazzo di Hercule. Attendo poco, perché mi apre immediatamente il portone e mi infilo all'interno, fino a raggiungere il suo appartamento.

«Ho aperto! Entra.» La voce di Hercule arriva lontana, forse si sta ancora preparando.

Probabilmente quell'idiota avrebbe dovuto avvisarmi che non eravamo soli per quei minuti, giusto per abituarmi all'idea di una peste di cinque anni.

Entro nell'appartamento e resto pietrificato, quando una bambina dai folti capelli ricci, tirati in alto da due codini, mi viene incontro sorridendomi a trentadue denti.
Okay, forse non proprio trentadue. Ha qualche dente in meno a giudicare dalle piccole finestrelle. «Io sono Heaven, tu chi sei?» inclina il capo.

Potrei urlare. Mi guardo alle spalle e la tentazione di scappare, sfondando la porta e lasciando la mia sagoma lì, è forte. Hercule deve aver come minimo organizzato una serata perfetta per farsi perdonare di questo altissimo tradimento. Cosa posso mai dire a una bambina? E poi perché mi guarda?
Perché non se ne va a giocare da qualche parte?

La osservo perplesso, forse più terrorizzato. Fisso la pelle scura e gli occhi color nocciola, profondi, che mi scrutano con curiosità. «Atlas.»

«È uno strano nome.» la bambina inclina il capo, dondolandosi sui piedi.

Sono permaloso, lo ammetto. Però mi sembra assurdo che una bambina col nome di una spogliarellista -tra l'altro di uno squallidissimo locale, di sicuro- mi dica che il mio nome è strano. Ma sarà strano il suo.

«Almeno non significa paradiso. È un nome da spogliarellista anche..» Non potevo trattenermi. Spero che Hercule non mi abbia sentito, in effetti.
Sono sempre stato certo che i bambini debbano detestami, invece, non so mai come, riescono sempre ad affezionarsi a me, a tal punto che mi girano intorno, ronzando come mosche fastidiose. Anche Leyla, la figlia di Isak, mi adora, mi chiama addirittura "zio" e io ci provo davvero a comportarmi in maniera normale con lei, solo che non sempre è facile.

L'incontro con Heaven direi che è uno dei momenti più imbarazzanti e strani della mia vita. Sicuramente sul podio, dietro a due momenti cruciali.
La nascita di Leyla, quando Isak mi ha chiesto di tenerla in braccio e ho pensato che potesse rompersi tra le mie mani. Così l'ho tenuta come una granata.
Il primo posto, però, è riservato al giorno in cui accompagnai Isak a comprare un test di gravidanza. Fu davvero imbarazzante.

Heaven prende bene la mia battuta. Ridacchia e mi si avvicina. Sono all'angolo. Non posso arretrare o mi sarei scontrato con la porta.

«Sei strano.»

Lo so. Me lo dicono tutti, bimba.
Scrollo le spalle. «Grazie, suppongo.»

Mi abbraccia e mi paralizzo. Questa minuscola cosa mi prende alla sprovvista e mi irrigidisco. Essendo alta più o meno mezzo metro e un tappo, non arriva nemmeno alla mia pancia, motivo per il quale sembra più un koala aggrappato alle mie gambe.
Decisamente Heaven è uno strano ibrido. Un incrocio tra koala e cozza, direi.
Tossicchio. «Ahm- ehm, sì, sì. Ora puoi anche staccarti.»
Le do una leggera pacca sulla spalla, nella speranza che quell'incubo si concluda il prima possibile. Voglio morire.

Heaven -che da ora in poi sarà la bambina cozza- non sembra essere del mio stesso parere, tutt'altro. «Quanti anni hai? Sembri più vecchio di papà.» Questo è un duro colpo da incassare.

Socchiudo gli occhi. Probabilmente Hercule ha deciso di torturarmi con quell'incontro e mi domando se sia morto scaricandosi nel cesso, per aver abbandonato sua figlia con un sociopatico in salotto. «Ne ho trentasette, sono solo due in più. Tu quanti ne hai?» Odio dover conversare.
Figuriamoci con una bambina.

Se questa serata va a buon fine, spero davvero che si concluda con una buona scopata a questo punto. Me lo merito.

La bimba si stacca, finalmente, e mi conduce verso il divano del salotto. «Sei anni. Papà mi aveva detto di essere brava e dolce, perché eri poco paziente.»

Stupido dottore.

«Eccomi! Scusa, tra poco arriva la mamma di una sua amica per un pigiama party e andiamo.» Hercule mi sorride. Per un attimo mi dimentico di volergli spaccare la faccia con un pugno. Mi sembra anche di aver dimenticato come si parla. Hercule si abbassa sulle ginocchia e posa un bacio sulla fronte della figlia.

Deglutisco e distolgo lo sguardo. Mi fa strano osservare gesti d'affetto simili. «Nessun problema.» mento, sapendo di mentire.
È stato un grandissimo problema, odio i bambini. Non mi hanno mai fatto nulla di male, semplicemente mi danno i brividi.
Sono troppo felici e buoni. Il mondo non li merita.

Hercule si tira in piedi. Pochi secondi dopo il citofono suona e accompagna sua figlia fuori, lasciandomi lì ad aspettare per un paio di minuti. Quando mi raggiunge, di nuovo, prende le chiavi di casa e si sistema la giacca blu.

Mi giro ad osservarlo: indossa una camicia azzurra, che mette in risalto i suoi stupidi occhi. Lo odio. Cerco di ripetermelo come un mantra. «Ci sono, andiamo? Ho prenotato un tavolo per due in un ristorante tranquillo. Possiamo raggiungerlo a piedi.» Mi sorride tranquillo e mi ritrovo ad annuire perché non so che altro dire.

Lo seguo fuori dall'appartamento. All'improvviso ho l'impressione di aver perso tutte le certezze della mia vita. Non so più di cosa parlare e la gola mi si è seccata. La voce è morta in gola, incastrata tra le corde vocali, e probabilmente il mio cuore sta iniziando a perdere battiti. Forse ho un infarto in corso. Mi porto la mano al petto.

Ridicolo, mi ripeto mentalmente.

Ci incamminiamo ed Hercule mi osserva divertito. «Qualcosa non va?»

«No, fa solo freddo.» Mi stringo nel cappotto come a rimarcare il concetto.

«Capisco... spero che Heaven non ti abbia esaurito, a volte è una gran chiacchierona.»

«No, mi ha solo chiesto quanti anni avessi. Sembro più vecchio di trent'anni?»

Hercule ride e mi fermo per un istante ad ascoltare il suono della sua risata come un rimbambito. Scuote poi il capo. «Probabilmente se la smettessi di essere sempre imbronciato avresti meno rughe.»

Mi porto le mani in volto e aggrottò la fronte. «E vorresti suggerirmi la tua skincare forse?»

«Ho sentito che hai detto che ha un nome da spogliarellista...» Hercule sembra stressato. «Ti pare?!»
Ha sentito, bene.

«Oh che c'è, dottore, è il tuo incubo?» Ghigno soddisfatto.

«Quello di ogni padre direi.»

Scrollo le spalle. «È pur sempre un onesto lavoro.»

Hercule rotea gli occhi al cielo e fa finta di ignorarmi, poi alza le mani in segno di resa. Sembra rilassato o per lo meno si sforza di apparire tale. Si passa una mano in volto. «Sai, mi aspettavo che non avresti mai accettato. Ero sicuro che all'ultimo avresti trovato un modo per non presentarti.»

Trasalisco. Ci avevo pensato. Continuamente.
Ci avevo pensato mentre si preparava, quando mi sistemavo i capelli e perfino mentre guardavo Edimburgo dal finestrino del taxi, in maniera disincantata. È sempre stato più facile uccidere a sangue freddo, senza pressioni, piuttosto che affrontare situazioni sociali importanti.
Mi sento a disagio con le altre persone, eppure per Hercule mi sto sforzando. E sarei un terribile bugiardo se dicessi che non mi piace.
Non avrei mai ammesso ad alta voce il motivo, ma forse per una volta potevo concedermi un sorriso, potevo darmi un'opportunità. «Ho valutato la possibilità, in effetti.» Ammetto. Indosso poi un sorrisetto divertito. «E poi avevi paura perché ti sarei mancato troppo?» Inclino il capo.

Hercule si volta a guardarmi e ridacchia. Le sue labbra si incurvano appena all'insù, nonostante stia cercando di nascondere un sorriso genuino.
Mi chiedo che sapore abbiano.
Nel momento in cui questo pensiero mi sfiora, ho voglia di prendermi a pugni. «Molto probabile.» Hercule mi riscuote. Si ferma, poi, davanti a un grande palazzo.

Fisso le ampie finestre, dalle quali si intravedono le luci giallognole del locale. È un posto piuttosto tranquillo, ci sono stato qualche volta, soprattutto perché alcune mie vittime si nascondevano lì durante qualche viaggio. So anche che il ristorante al suo interno è abbastanza conosciuto e soprattutto molto apprezzato dagli studiosi del posto: è circondato da scaffali, pieni zeppi di libri. A volte dà l'aria di un caffè letterario.

All'improvviso mi assale, di nuovo, l'ansia, nonostante sappia che sia soltanto una serata a mio vantaggio. Avrei potuto sviare qualsiasi conversazione, muovermi in tranquillità.
Eppure, Hercule riesce sempre a tirar fuori qualcosa dal mio animo durante una chiacchierata.
Non mi ha mai chiesto di non essere me stesso, paradossalmente era stato il primo ad avvicinarsi, ignorando tutti i motivi per cui avrebbe dovuto scappare. Probabilmente Hercule o è straordinariamente stupido o un completo coglione.
Però inizio a credere che quell'idiota mi piaccia.

Il medico mi fa cenno di seguirlo, mentre si avvicina al maître di sala. Mi guardo intorno. Sorrido quasi involontariamente, notando tutta la cura dei dettagli all'interno, con alcune poltroncine nella sala d'attesa. I candelabri illuminano la sala e i tavoli circolari sono sistemati con straordinaria ed ordinata eleganza. Hercule sa chiaramente dei miei problemi per l'ordine e sembra abbia scelto appositamente quel posto.
Potrei svenire dalla perfezione.
Va bene, forse anche venire.

Fisso la sua figura, davanti a me. La camicia celeste gli fascia il busto ed è appena sbottonata. Devo trovare un modo per darmi un contegno, potrei ritrovarmi a sbavare senza nemmeno accorgermene. I miei amici mi prenderebbero in giro a vita.
Hercule ha appena sfilato il cappotto, porgendolo a uno dei camerieri, e così lo imito, sebbene non ne fossi particolarmente entusiasta. Odio liberarmi delle mie cose.

Mentre percorriamo i corridoi del locale, seguendo il cameriere fino al tavolo prenotato, camminiamo uno accanto all'altro.
Le nostre spalle si sfiorano più di una volta. Rabbrividisco e deglutisco, guardandomi intorno.
Cerco di celare quel nervosismo, che ha iniziato a diffondersi lungo tutto il corpo, come una scarica elettrica.

«Questo è il vostro tavolo, signori. Vi lascio il menù e la carta dei vini. Nel frattempo vi porto dell'acqua, naturale?»

Vorrei fare un commento inappropriato ma non credo sia il caso. L'acqua serve solo per una doccia, ma forse non è il momento. Mi accomodo, lasciando che sia a Hercule a confermare. Mi nascondo dietro il menù, cercando di riportare un po' di calma e prendo un forte respiro.

«Qualcosa ti turba?»

Lo odio. O meglio vorrei odiarlo. Lo detesto per provare a infilarsi nei miei pensieri, indovinando la maggior parte delle volte. «Sei uno strizza cervelli o uno strizza morti?»

Hercule sorride, ancora. Mi manda in tilt il fatto che non subisca le mie battute penose.
Si sistema meglio la camicia e ringrazia il cameriere non appena porta l'acqua. «Lo hai detto tu stesso che non era un appuntamento, non vedo perché tu debba essere così in tensione.» Sistema alcune posate.

«Infatti non è un appuntamento.» Credo di star diventando un disco rotto.

Il dottore storce il naso. Sembra infastidito da quelle continue negazioni. «Perché sei così terrorizzato? Anche se lo fosse?»

Faccio scorrere lo sguardo dal menù al volto di Hercule. Osservo i suoi occhi chiari. Noto che, a volte, durante le giornate meno soleggiate, sembrano più grigi. Mi piacciono, mi ricordano il cielo, anche quando in tempesta. «Lyanna Curtis.»

Hercule aggrotta la fronte. Ha un'espressione confusa, eppure anche in quel momento lo trovo carino. Come trovo carino il terrore nello sguardo delle mie vittime. Mi chiedo cosa diavolo mi stia succedendo.

«Come scusa?»

«Il mio primo e unico appuntamento.» Chiarisco, forse non era così ovvio com'era sembrato nella mia mente. «Avevo sedici anni e una sorta di omofobia interiorizzata. Quindi avevo pensato che sarebbe stato del tutto normale invitare una ragazza a cena.»

Lo sento ridacchiare sommessamente. Si porta una mano davanti alla bocca. Non ho la più pallida idea di come si conduca un appuntamento o un'uscita seria con qualcuno. Di solito vado a bere in un locale, approccio col primo idiota che sembra disponibile e dopo un po' me ne vado via o da casa sua o da qualsiasi stanzino davvero molto discutibile. Torno a casa, faccio una doccia e la mia giornata ricomincia. «Ed è andata male?»

«All'inizio anche bene, sembrava interessata, credo. O per lo meno ascoltava quelle poche cose di cui mi andava di parlare.»

«E poi?» Quell'idiota è davvero preso dal racconto, è strano.

«E poi l'ho accompagnata a casa. Ci siamo baciati e pochi istanti dopo ho vomitato ai suoi piedi.»
Hercule cerca di trattenere una risata. Io, invece, torno a prestare attenzione al menù. Forse avrei scelto un filetto di carne ai ferri. «Ovviamente era solo uno scarico di tensione, ma lei pensava fosse per il bacio e mi ha detto che pensava che fossi gay.»

Hercule mi fissa incuriosito. «Ed era carina, almeno?»

Scrollo le spalle. «E io che cazzo ne so, non so valutare la bellezza delle persone.»

«E allora io non lo sarei?»

"Tu che dici, dottore? Sbavo come un idiota"

Lo guardo storto. «Non credo che il tuo ego abbia bisogno del mio parere.» Alzo la mano per chiamare il cameriere, sospendendo il giudizio. Sento il suo sguardo bruciarmi addosso. Fisso di sbieco Hercule, mentre ordina in tutta tranquillità.
Non ne capisco assolutamente nulla delle persone, né di cosa vada valutato per poter instaurare una relazione. Sono abbastanza certo che sia quasi impossibile starmi dietro. È difficile restare accanto a qualcuno che non avrebbe mai compreso -a causa di forze maggiori- certi stati d'animo.

Il resto della cena trascorre in maniera tranquilla e non posso quasi credere che tutta la tensione sia volata via, come una semplice scrollata di spalle. E sono consapevole non sia assolutamente merito mio, ma di Hercule. Lui sta guidando la conversazione e, nonostante i miei chiari disturbi di manie del controllo, glielo lascio fare, altrimenti rischierei di impazzire dal nervoso.

Hercule ha iniziato a scalfire la muraglia che ho costruito attorno a me, con la stessa costanza ed efficacia di una goccia contro una roccia.

Dopo la cena, passeggio appena per le strade di Edimburgo. Natale è alle porte e i mercatini e le luci illuminano l'aria, trasformandola in qualcosa di ancor più magico. Posso sentire il profumo di cannella provenire da qualche piccolo stand e arriccio appena il naso, un po' affamato. Di solito tendo a non ascoltare i discorsi delle persone, mi annoiano parecchio. Invece, adesso ricordo tutto quello che Hercule mi ha raccontato, come se riuscissi ad appuntarmelo mentalmente. Mi ha appena rivelato di essere un appassionato di corse d'auto e la cosa mi ha preso abbastanza alla sprovvista.

Fa freddo e, se continua così, inizierà anche a nevicare. Da bambino amavo la neve, ne facevo sempre innumerevoli pupazzi e trascorrevo il tempo ad osservarli. Erano così semplici e venivano sempre allegri, quasi felici. Avrei voluto che almeno un attimo della mia vita fosse così, prima di sciogliersi al sole.

«Ehm, ti va una cioccolata calda da me?» Hercule sembra nervoso, ma non ci do particolare peso. Lo sono anche io.

Col senno del poi, mi darei dell'idiota patentato solo per aver voluto credere a qualcosa, per una volta tanto.
Hercule, in fondo, mi avrebbe insegnato che, per quelli come me, l'amore sarebbe sempre stato impossibile. Non era altro che un traditore, che aspettava il momento migliore per pugnalare alla schiena.
Colpiva con stilettate invisibili e le sue cicatrici erano ancor più complicate da curare.

«Mh, va bene.» Evito commenti stupidi e idioti. Inoltre sta iniziando a piovere e dobbiamo chiamare un taxi per evitare di bagnarci. Fissò i suoi capelli appena appiccicati sulla fronte e non riesco a smettere di farlo. Qualsiasi cosa io stia provando, posso essere sicuro sia un'agonia.

Non appena si accomoda al mio fianco, lo sento rabbrividire. Era in tensione. «Tranquillo, dottorino, non mangio mica.»

Hercule sorride un istante. «Oh lo so bene.»

Una volta arrivati davanti casa sua, lo vedo armeggiare agitato con le chiavi. Apre la porta e si sposta di lato per farmi accomodare. Mi guardo attorno, nel buio della casa e mi irrigidisco. Vedo un'ombra, una figura tarchiata, davanti a me. Assottiglio lo sguardo per osservare meglio. Faccio per girarmi, ma in pochi istanti mi sono addosso.
Un colpo violento mi colpisce al capo e mi portò le mani alla testa, sanguinante. Mi brucia. Mi sento senza forze e gli occhi faticano a restare aperti.

Devo sempre portare una pistola, avrei dovuto ricordarlo ai miei amici. Quando faccio per tirarmi in piedi, il medico mi inietta una siringa al collo e sento i muscoli indebolirsi.
Gli lancio un'ultima occhiata carica di risentimento.

Hercule ha lo sguardo annebbiato. «M-mi dispiace, davvero.» mi sussurra appena all'orecchio.

Mi fa male la testa e non riesco a elaborare una risposta.

Le palpebre si appesantiscono e crollo sulle ginocchia.
Prima di perdere i sensi, il mio pensiero è uno: avrei ucciso Hercule Jarvais con le mie mani.

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