8. Harbūtu - desolazione
8. Harbūtu – desolazione
"È terra di angosce la mia terra
dove forte e martellante
è la voce del silenzio
che da secoli invoca al cielo
estreme suppliche di pietà."
Harry
Riaprire gli occhi fu come atterrare sul fondo di un dirupo dopo una caduta. Ma senza avvertire il dolore dell'impatto.
La dimensione sfocata e irreale fu assorbita da oggetti e spazi nitidi, coperti dalla luce del sole che si infiltrava dalle tende.
Appena sveglio era stato trafitto dalla stessa sensazione di confusione che l'aveva invaso dopo l'incidente. Era spaesato e vuoto. Solo che quando andò a scavare nei ricordi, questa volta, al posto della totale desolazione di un campo bruciato, la sua memoria sollevò immagini, suoni, persino parole.
Solo una volta in piedi si rese conto di aver dormito sopra le lenzuola, ancora vestito, ma immobile. Come se fosse stato assorbito dal limbo di una dimensione parallela, era stato ospitato da un sonno stranamente quieto.
Harry scosse la testa, poggiando entrambe le mani sul lavandino del bagno prima di far scorrere l'acqua e infilare la testa sotto il getto. Quando si rimise dritto, i capelli gocciolarono sopra la camicia, lasciando spargere le chiazze scure dell'acqua sul tessuto.
Aveva sognato. Erano state immagini sbiadite, prosciugate di colore ma il suono di quel timbro gli era entrato sotto la pelle. Non era la prima volta che sognava quel melodioso raccontare, le parole, o la voce di una donna. Ma quella era stata la prima volta che al suono aveva accostato anche qualche frammento di immagine. Per la prima volta era stato meno confuso, quasi...un ricordo.
- Come stai? – Harry si voltò di scatto, le ciocche bagnate di capelli gli sbatterono sulla fronte come tante eliche scure. Il corpo era indebolito da un lieve tremolio. Squadrò la ragazza, in piedi al centro della camera, con un'occhiata veloce e disinteressata.
- Meglio di ieri – commentò atono, chiudendo il rubinetto e sfregando velocemente un asciugamano sui capelli.
- Lo vedo – con la coda dell'occhio Harry si soffermò sull'accenno di sorriso che si ripiegò in quel volto pulito.
- Dimentica che ti ringrazi – esclamò lui brusco nella prevedibile volontà di cancellarle ogni segno di soddisfazione. Conosceva le donne, bastava un niente per illuderle di aver stabilito un qualche assurdo legame. Lei aveva assistito ad un momento di vulnerabilità e non sarebbe mai dovuta cadere nella presunzione di poter instaurare un qualsiasi rapporto con lui, che non aveva più rapporti neanche con se stesso.
- Non me lo sarei aspettato – lei scosse la testa facendo un passo indietro quando lui uscì dal bagno. Harry rimase a fissarla serio, un'increspatura intimidatoria ad oscurargli lo sguardo, ristabilendo quella distanza tra loro che probabilmente lei agognava tanto quanto lui – Non sono capace di prendermi cura degli esseri viventi. Ma mi dispiace per quello che ti ho detto – ammise lei abbassando lo sguardo verso terra. Harry piegò le sopracciglia incassando una frustata di fastidio.
- Lo sanno tutti? – chiese preciso, sapeva che non c'era bisogno di aggiungere altro. Lei fissò i suoi occhi caparbia, per niente sorpresa o confusa dalla sua domanda.
- Solo Tyler, io e Odin, ma conoscendo Tyler l'avrà detto anche a sua sorella, quella che ha il negozio di frutta e verdura e... - la ragazza si fermò di colpo riprendendo fiato – Si lo sanno tutti – convenne infine lei e Harry strinse i denti, storcendo la bocca con disgusto. Dannazione – Ma non importa a nessuno – si affrettò ad aggiungere lei, scrutandolo come se avesse voluto sbirciare tra le pagine strappate della sua tormenta interiore. E ancora una volta, una sensazione di inquietudine lo percosse.
- Ne dubito – sussurrò a se stesso ritornando verso il bagno. Si pettinò i capelli all'indietro con le mani, ignorando la presenza della ragazza che cocciuta si impadroniva del centro della sua stanza. Vai via.
- L'auto è pronta, immagino che vedere la città non ti interessi, perciò ti aspetto giù nella hall – lei chiuse la conversazione come se gli avesse letto nel pensiero, sparendo dalla stanza così come era comparsa, veloce e inaspettata. Almeno, finalmente, quella tremenda gita stava per concludersi.
Alluene
Chiuse gli occhi aspettando che le porte dell'ascensore si aprissero. Li strinse con rabbia, ciglia contro ciglia, in attesa che le immagini di quel viso diabolico sparissero dalla mente. Con le ciocche bagnate che gli cadevano ad elica sulla fronte, la marea verde negli occhi si era trasformata in una cascata, animata da una luce macabra intrisa di oscurità. E lei l'aveva presa in pieno tutta quella devastante drammaticità.
Alluene riaprì gli occhi solo per fissare allo specchio l'immagine del suo stesso riflesso, si guardava e si sforzava di riconoscersi. Era cambiata tanto, aveva imparato a ricominciare, a lottare, scontrandosi anche contro se stessa quando necessario, ma aveva anche iniziato a comprendere quando ritirarsi da una battaglia persa in partenza. Così aveva abbandonato quella camera lasciandosi dietro le spalle l'ingombrante presenza di Harry Staiden.
Ma quegli occhi l'avrebbero sicuramente perseguitata a lungo. Quegli occhi non poteva dimenticarli...
La hall l'accolse con i suoi colori freddi e ampi spazi, il mobilio minimal moderno tipico delle grandi catene che tendevano a spersonalizzare tutto e, in quel deserto di creatività, si sentì ancora più smarrita.
Camminava lungo lo spazio antistante la reception, quando una sagoma familiare comparve oltre la porta a vetri all'ingresso attirando la sua attenzione. Alluene si bloccò, colta di sorpresa, quando la figura varcò la soglia, iniziando a correre verso di lei a piccoli saltelli. Per tutti i puffi!
- Zia! –
- Tesoro! Meno male che non sei ancora andata via! – strillò la donna sulla settantina, trottando verso di lei. Le cinque buste che teneva tra le mani penzolassero malamente a ritmo dei suoi sobbalzi.
Zia Wanda era l'unica prozia superstite della famiglia di suo nonno, il cui legame di parentela era andato disperso, ma essendo rimasta sola, la famiglia di sua nonna l'aveva praticamente adottata.
Alluene rimase ipnotizzata a fissare lo sgambettare dei goffi e corti arti inferiori della donna che macinavano passi veloci, ma superato lo stupore iniziale, si affrettò a raggiungerla nella speranza di evitare qualche cataclisma. Zia Wanda era famosa per essere fonte di disastri. E le buste che, ormai arrivate allo stremo, tendevano la loro plastica sottile sempre di più ad ogni rapido saltello.
Si sapeva che la vita era pronta a fare uno sgambetto proprio in momenti in cui ci si sentiva più protetti. E infatti, proprio quando tra loro erano rimasti solo pochi centimetri di distanza, i manici delle buste cedettero di colpo. Il contenuto si sparpagliò per tutto il pavimento e la zia volò in avanti, finendo stesa per terra con le braccia in avanti e le mani che stringevano ancora i manici rotti. Alluene sbiancò sussultando impreparata, affrettandosi a soccorrere la donna, insieme a qualche testimone.
Oddio, sicuro si era rotta qualcosa.
- Zia ti sei fatta male? – domandò preoccupata, aiutandola a mettersi seduta con cautela.
- Sto bene cara – per fortuna sembrava incolume. Alluene liberò il sospiro che le era rimasto incastrato in gola quando per un attimo aveva temuto il peggio.
Nonostante l'età e la testa svampita, Wanda era un agglomerato di energie e resistenza, che si concentravano in un corpicino basso e tondeggiante. La donna strinse le palpebre, tirandola per un braccio in modo che si facesse più vicino – Non vedo niente. Hai visto i miei occhiali? –
- Che sta succedendo? – quella voce la congelò sul posto. Nella confusione generale di persone che le vorticavano intorno a loro e di frutta, verdura, confezioni di dolci sparpagliati qua e là, quella cadenza roca e inconfondibile la colpì alle spalle come un dardo infuocato.
Perché proprio adesso.
Alluene prese un respiro, non si curò di essere accucciata a quattro zampe, con il sedere in aria, in posizione da cane da tartufo pronta a cercare gli occhiali della zia, e si voltò di scatto verso di lui.
- Non startene lì impalato, dacci una mano – ordinò perentoria, nonostante immaginasse che la sua richiesta non avrebbe attecchito.
- Scusate signori, chi è il proprietario della macchina rossa parcheggiata qui davanti? Dovreste spostarla, ha bloccato la strada – un receptionist dai capelli corti brizzolati e l'alta stazza si era affiancato a loro con aria preoccupata.
- Uh, ma è la mia! – squittì la zia mentre il brusio delle persone intorno si faceva fastidioso come un ingranaggio inceppato. Alluene chiuse le palpebre, desiderando per un istante di poter sparire da quella gabbia di matti.
- Questa donna ancora guida? – spalancò gli occhi di colpo all'insinuazione stupita del ragazzo, punta da un prurito irritante. Altro che sparire, lei ci sguazzava alla perfezione tra i matti, piuttosto avrebbe volentieri spedito lui a farsi un giro su Saturno.
- Non hai altro da dire? –
- Signora la prego di spostare l'auto – il povero receptionist insisteva mortificato, cercando di mascherare invano la propria impazienza, che si palesava da come gli tremavano le mani mentre si tamponava il sudore sulla fronte con un fazzoletto.
Intanto dalla strada cominciavano a giungere le prime proteste insieme allo scalpitare dei clacson imbufaliti. La zia Wanda nel frangente scuoteva la testa, sempre più frastornata, i pochi capelli rossi rimasti che portava gonfi intorno al suo ovale restavano immobili e appiccicati tra loro da quintali di lacca, nonostante i suoi movimenti nervosi.
- Non posso fare niente senza occhiali – si lamentò la donna avvilita. Alluene alzò la testa verso di lei per un puro scatto istintivo, fu per caso che inquadrò la forma tondeggiante e maculata della montatura da vista, appesa ad una catena di perline rosse, poggiata sul torace della donna. Sgranò gli occhi come se avesse appena visto un miraggio. Non poteva averli avuti davvero addosso per tutto il tempo...
- Zia, sono lì! – l'esclamazione esterrefatta defluì dalla sua bocca con un tono acuto mentre glieli indicava frettolosamente con la mano.
- Oh! – Wanda emise un suono sollevato e lei dovette inspirare con forza pur di contenere l'impulso di strozzarla – Tutto a posto allora – affermò la donna indossandoli allegra mentre tutte le persone intorno a lei si lasciavano andare a sospiri esausti. Tutti eccetto il cinghiale, di cui percepiva solo qualche acido sbuffo contro la schiena. Poi però, la zia inclinò la testa da un lato, confusa e lei sudò di nuovo freddo – Perché non vedo ancora niente? –
- Ma... - Alluene osservò incredula il viso della donna ornato dall'appariscente montatura e per poco non collassò a terra sconsolata - Non ci sono le lenti – esalò poi senza fiato e Wanda le rivolse un'occhiata disorientata - Le lenti! – ripeté lei allora alzando la voce per sovrastare l'orchestra sinfonica di clacson, da far concorrenza alla Royal Albert Hall, che proveniva dalla strada. Tornò a fissare il pavimento alla ricerca di due spesse lenti trasparenti che, sul marmo bianco, oltretutto, non sarebbero state una passeggiata da trovare. Oltretutto la presenza invadente del cinghiale alle sue spalle la inquietava.
- L'auto signora, mi perdoni ma... – Alluene rivolse uno sguardo impietosito verso il receptionist che ancora si dimenava al suo fianco, girandole intorno come una trottola. In un'altra occasione avrebbe quasi trovato buffo il modo in cui quell'uomo, alto e dalla corporatura consistente, sudava e si agitava impotente di fronte alle angherie della zia. Il poveretto ora stringeva tra le mani un'intera confezione di fazzoletti, ma nonostante tutto quell'abuso di carta, la sua fronte non smetteva di grondare.
- Non può guidare se non ci vede – proferì lei con ovvietà, tastando a mani spalancate il pavimento con disperazione.
- È incredibile che possa ancora guidare – come un fantasma dispettoso e distaccato dal resto dei comuni mortali, Harry Staiden sembrava divertirsi ad insinuarsi proprio nei momenti meno opportuni.
- E lui chi è? – sua zia squadrò il newyorkese come se si fosse trattato di un miraggio. I suoi occhi piccoli, nascosti sotto il peso dei segni indelebili del tempo, viaggiarono su quella figura come se di colpo non fosse esistito altro. Alluene schioccò la lingua tra i denti con stizza, la bellezza demoniaca colpiva sempre, persino una talpa miope come la zia.
- Insomma, qualcuno sposti quell'auto! – all'ennesimo ruggito spazientito del ragazzo e alla sinfonia di clacson che ricominciava senza tregua, Alluene perse definitivamente le staffe. Con un gesto repentino agguantò la borsa pitonata della zia, afferrò il gigantesco mazzo di chiavi e lo lanciò direttamente contro il ragazzo fulminandolo con un'occhiataccia infervorata.
- Grazie per esserti offerto! – lui, dapprima colto alla sprovvista, allargò le narici oltraggiato, mentre tratteneva con due mani il pesante mazzo di chiavi che gli era finito all'altezza dello stomaco.
- Non ci penso nemmeno – con espressione schifata, pizzicò con due dita il portachiavi a forma di ciambella allontanandoselo di dosso.
- Invece lo farai! – rincarò la dose lei energica, sperando si sentisse un'infame a negare un aiuto ad una persona anziana e momentaneamente cieca! Sembrò quasi che lui avesse colto il suo recriminare silenzioso quando storse il labbro superiore con stizza. Le onde verdi delle sue iridi si incresparono di collera.
- La prego signore – fu il receptionist a intervenire nella guerra silenziosa di sguardi e lei dovette pizzicare un labbro tra i denti pur di non scoppiare a ridere di un riso isterico, nel vedere la faccia del cinghiale sciogliersi di puro pietismo di fronte a quel poveretto grondante a cascata di sudore e tensione. Non riusciva a tenere più in mano neanche i fazzoletti per la quantità esagerata che aveva consumato.
Ma il suo intervento fu provvidenziale, perché dopo l'ennesimo ringhio, volto a mascherare una serie di vituperi, Harry Staiden si precipitò fuori dall'albergo.
Harry
Ma che aveva fatto di male? Non appena uscì sulla strada antistante all'albergo, non gli fu difficile inquadrare l'auto incriminata. Era un magiolone bordeaux abbandonato in mezzo alla strada e, dietro di lui, la fila di macchine si era fatta vergognosamente lunga. Harry fu colto dall'istinto di fare un passo indietro, vergognandosi come ladro anche solo di avvicinarsi a quell'auto, figurarsi doverla persino spostare.
Preso un grosso respiro, si sistemò nel posto del conducente, ignorando la cascata di insulti e scampanellio di clacson che lo accompagnò. Non appena seduto, dopo aver sbattuto la porta dell'auto con troppa rabbia, la visiera parasole crollò sopra il volante di colpo, facendogli rischiare un infarto. Accidenti.
Frugò tra quel vergognoso mazzo dove un portachiavi rosa a forma di ciambella cercava di sorreggere una quantità di ferraglia che avrebbe fatto concorrenza al custode di un carcere. L'ennesimo scampanellare di clacson gli fece irrigidire muscoli mentre continuava a cercare la chiave di quel rottame.
Ciò che più detestava di quei trogloditi isolani era l'inciviltà. Quelli suonavano il clacson come se fosse stato una tromba, inveendo contro l'auto, ancor prima di provare a superarla, nonostante puntualmente, con lentezza e la dovuta cautela, riuscissero comunque a passare. Ma loro dovevano suonare a prescindere, bifolchi.
- Imbecille! –
- Non è colpa mia! – Harry ringhiò all'ennesimo insulto urlato da finestrino a finestrino, replicando al milionesimo idiota che gli sbraitava contro. Che situazione, pensò allibito. Bloccato in una cittadina schifosa, in un'isola da far inghiottire dalle maree, nell'auto di una vecchia sconosciuta, che neanche voleva saperne di accendersi!
- Chi ti ha dato la patente, pezzo di cretino! – il sangue cominciò a ribollirgli nelle vene. Incivili.
Provava tutte le chiavi, smuovendo il mazzo tra le dita con ferocia, e nessuna riusciva a entrare nella toppa dell'auto, dannazione! Ma ciò che risultava più snervante era che lui a stento perdeva la calma, raramente si lasciava comandare da attacchi di rabbia, invece quel posto, quelle persone, sembravano gareggiare a chi sarebbe riuscivo per primo a farlo imbestialire.
L'ennesimo troglodita aveva deciso di rompergli i timpani, oltre al suo proverbiale stato di indifferenza. Il furbo, quella volta, non aveva tentato neppure di superarlo, tempestandolo a sfregio di quel costante scampanellare. Harry stringeva la mascella contraendola in modo spasmodico pur di conservare la sua controllata pacatezza. Ma quando le chiavi gli caddero nello spazio ignobile tra il sedile e il cambio, troppo ingombranti per infilarsi tra i due, ma abbastanza massicce da incastrarsi talmente bene da obbligarlo a dare una serie di strattoni per liberarle, non ci vide più. Tirò fuori la testa dal finestrino con il volto livido, crucciato di fastidio e il sudore che grondava dalla tempia sinistra.
- Ci passa un treno, idiota! – ma l'ultima vocale dell'urlo gli morì in gola, un brivido freddo gli cristallizzò il sudore di colpo quando si accorse delle dimensioni dell'auto alle sue spalle. Era un pullman a due piani, alto e largo, con il conducente in occhiali da sole, con metà corpo fuori dal finestrino che gli sbraitava contro in una lingua sconosciuta.
Ma c'era di peggio, come la fila di macchine che finiva oltre il suo raggio visivo, tutte ferme dietro quel pullman. Harry ingoiò una sciabolata di ira avvelenata di frustrazione. Ora basta.
Alluene
- Grazie zia, ma non dovevi portarmi tutta questa roba – disse a fatica mentre abbracciava le pesanti buste piene di vivande, cercando di non farle cadere. Per forza si erano rotti i manici, dal peso sembrava contenessero pietre.
- Devi mangiare, sei troppo rinsecchita, sembri un bastone di scopa – replicò la donnina pizzicandole un fianco con affetto – Prova a far divertire il tronco, che magari si ammorbidisce un po' – Alluene per poco non tossì la lingua, immaginandosi la faccia del "tronco", un modo isolano per definire un bel ragazzo, ingrugnirsi raccapricciata se avesse sentito.
Con quell'ultima perla di saggezza sibilata tra gli ultimi tre denti davanti che ancora conservava in bocca, la zia sfrecciò come un siluro, sicura e disinvolta, rischiando di schiacciare due pedoni e finire contro una macchina che aveva davanti, quando si voltò ancora una volta per salutarla oscillando la mano fuori dal finestrino. Fortuna che erano riuscite a recuperare le lenti.
Alluene strinse la busta con ciò che era rimasto integro del bottino, pregando che la sua bizzarra fortuna accompagnasse la zia ancora e sempre.
Fece capolino nella hall dell'albergo, dove lo trovò seduto su una poltrona grigio scuro, con il cellulare tra le mani e un bicchiere in vetro, svuotato del suo contenuto, abbandonato sul tavolo basso di fronte a lui. Alluene seppellì dentro se stessa la rassegnazione di trovare ancora la liscia e scivolosa apatia ingrigire quell'illegale, sublime bellezza. Abbassò gli occhi verso il pavimento, socchiudendoli per un istante, colpevole di aver perso troppo tempo a contemplarlo.
Era il fascino malato di studiare qualcosa che non si sarebbe mai potuto raggiungere, scoprire, o toccare. Solo l'idea di sfiorare quella fisionomia che oltrepassava l'apice dell'avvenenza, l'avrebbe terrorizzata.
D'altronde anche la cera più corposa, si sarebbe potuta sciogliere sotto i roventi aliti degli inferi. Sempre di cera si trattava, il destino era segnato.
Si avvicinò di qualche metro solo quanto bastasse affinché lui la notasse, Alluene gli fece un cenno con una mano, segnale che lui colse al volo perché si precipitò fuori dalla struttura come se avesse avuto i razzi ai piedi, senza degnarla di una parola. Non che la cosa la dispiacesse, anzi, strinse le labbra per evitare di ridacchiare, nascondendosi alle sue spalle come un'ombra. Probabilmente era ancora adirato per la questione delle chiavi.
Si era accorta di avergli dato il mazzo sbagliato solo quando ormai lui aveva varcato la soglia e, invece di avvisarlo, aveva deciso che quel diversivo imprevisto avrebbe potuto farle guadagnare un po' più di tempo. Così aveva lasciato che venisse inondato di insulti, ridendosela sotto i baffi mentre aiutava la zia a ricomporsi.
Dopo qualche minuto lui si era fatto largo nella hall come un carrarmato. Nonostante la tensione dei muscoli e la rabbia che fuoriusciva da ogni ruga contratta del viso, la sua andatura conservava sempre una compostezza inumana. Una divinità che piombava tra gli uomini solo per punirli.
Era giunto davanti a lei sbraitando qualcosa in fretta, masticando insulti tra i denti con furia. E lei per poco non gli scoppiò a ridere in faccia per la drammatica comicità che rivestiva il tuo temperamento iracondo in quel momento. Aveva dovuto mordersi l'interno della guancia per stroncare la risata sul nascere, ma da come lui aveva assottigliato gli occhi e accartocciato la fronte in un'espressione di puro e viscerale odio, doveva aver colto tutto il suo divertimento. Infatti, dopo aver riconsegnato le chiavi alla zia con un gesto veloce e sgarbato, si era allontanato con il solito grugnito sommesso.
La mattinata alla fine era stata spazzata via e dopo il pranzo tardivo e veloce, come al solito senza scambiarsi parola, avevano ritirato la sua amata Jimmy nel tardo pomeriggio.
Lasciando Claramontis alle spalle, Alluene meditava in quel silenzio disturbato solo dallo stridere del vento contro il vetro, dai suoi stessi continui sospiri e dal mutismo del passeggero che, da quando si era seduto, non aveva fatto altro che tenere la testa girata verso il finestrino. Quasi non volesse concederle nemmeno di poter incrociare l'orlo del suo nobile profilo.
Eppure non le andava giù. Picchiettava l'indice contro il volante mentre rimuginava su quella gita, congeniata con un piano sindacabile pur di far vedere al cinghiale ciò che si stava lasciando sfuggire a causa dei suoi paraocchi. Alla fine era capitato di tutto, tranne ciò per cui erano andati lì.
Strinse il volante tra le dita non riuscendo a digerire di aver fatto tutto per niente, anzi, forse la situazione era quasi peggiorata e non andava bene.
Frenò di getto dando un colpo secco contro il pedale, stringendosi al volante pur di non finire sbalzata in avanti fin quando le gomme bloccarono la loro scivolata sull'asfalto. Indirizzò le pupille verso il passeggero di striscio, solo per godersi la vista di lui appeso con una mano alla maniglia di sicurezza, con l'altro braccio attorcigliato sulla cintura. Gli occhi erano sbarrati, divisi tra lo spavento e la testardaggine di non volerlo lasciar trapelare.
- Che cavolo ti prende? – i verdi amuleti del ragazzo le volarono addosso, alcune ciocche di capelli gli erano scivolate sul viso e il torace era contratto per lo sforzo.
- Vorresti vedere le rovine del castello? – domandò lei con estrema naturalezza. Lui corrugò la fronte confuso, piegando le sopracciglia in un'angolazione che imprimeva di stupore il volto.
- No – ribatté poi con prontezza, prima di voltarsi di nuovo verso il finestrino.
Alluene tornò allora a guardare la strada, tutto era rimasto immobile dove si erano fermati. Lei era sempre stata una ragazza caparbia, seppur mansueta e pacifica alla prima impressione. Aveva abbandonato di punto in bianco New York per vivere in quell'isola e non avrebbe rinunciato ai suoi propositi solo perché il bell'imbusto non collaborava. E, per tutti i gamberi lessi, era lei alla guida, non aveva bisogno del suo permesso!
Difatti, si lasciò scivolare via il fastidio solito che le provocava quella stupida cocciutaggine, e ripartì.
- Ti ci porto lo stesso – decretò infine ignorando il lungo sbuffo che lui fece in risposta.
- Allora perché lo chiedi? –
Harry
Si pentì di essere sceso dall'auto non appena mise piede a terra. Quella deviazione significava che avrebbe dovuto sopportare la selvaggia dispotica ancora per altro tempo e ciò gli recava non poco fastidio. Eppure lo sguardo volò nel circondario, come attirato da una curiosità subdola di cui ancora stentava a riconoscerne il gusto, per il lungo lasso di tempo in cui ne era stato a digiuno.
La luce del sole era calante, spazzolava i suoi colori caldi in quell'estensione collinare di natura e gli spicchi di roccia che la lambivano, ricreando un'armonia che gli scivolò nel sangue come una calda carezza. Seguì la ragazza con movimenti svogliati, come trainato da un laccio invisibile. Poi, una volta imboccato il sentiero dissestato in salita, fu lei a fermarsi di colpo.
Lui la imitò in silenzio, perso in un loop in cui gli occhi saettavano impazziti tra quella radura inforcata da schegge granitiche. Arroccata sulla cima, una torre in pietra saliva verso il cielo, composta e fiera come un tracciato di passato che non voleva essere cancellato dal tempo.
Fu il suo turno di avvicinarsi. Superò la ragazza inforcando la salita dinanzi a loro, senza sapere esattamente dove andare, ipnotizzato da quel panorama. Harry alzò il viso per tracciare, con una curiosità crescente, l'altezza della torre, ancora più maestosa vista da vicino, e un improvviso senso di malinconia gli chiuse la gola mentre le pupille viaggiavano tra le poche rovine accartocciate tra graniti e boscaglia.
Non avrebbe mai ammesso il fascino avviluppante che aleggiava intorno alle vestigie di quella fortezza, in quel luogo spennellato di una sfumatura di mistero. Un'inspiegabile curiosità gli imperniò le ossa, i muscoli delle gambe spingevano senza comprendere da dove si propagassero gli impulsi, mentre lui percorreva la salita dissestata tra la boscaglia per avvicinarsi ancora.
Una percezione di intangibile appartenenza gli sferragliò il sangue, come se all'improvviso non si sentisse più così straniero ed estraneo a quell'orgogliosa decadenza.
Che posto è questo?
- Questo è il fiume Cochinas – spiegò lei indicando le rive del fiume che circondavano la collina fino a scendere a valle, interrompendo i suoi passi, come se avesse potuto sentire la sua domanda sussurrata tra i filamenti spenti di pensieri contrastanti. Lei puntava il viso verso la torre, proseguendo nella spiegazione come se stesse parlando a se stessa – Vuol dire "cucina", si chiama così per le sue correnti calde e le proprietà curative delle sue acque – Harry non voleva conversare, distrarsi da ciò che era diventato l'unico scopo della sua vita. Eppure l'impulso di sapere gli pizzicava la mente - E questo è Casteldor –
Casteldor.
Quella voce morbida indicò i resti dell'edificio in pietra, risuonando nella sua testa come una litania già sentita.
Poteva un suono evocare un ricordo?
– Si racconta sia stato edificato dalla famiglia dei Dor, una famiglia importante di un'epoca non precisa – Harry sentì la sua presenza farsi più vicina, non eccessivamente, ma quella ragazza riusciva ad essere invadente anche mantenendosi a distanza. Tutta colpa di quella personalità esuberante, chiassosa e logorroica.
Eppure rimase concentrato sul suo modo di raccontare pacato e, stranamente, accattivante – Questo luogo è scenario di racconti e leggende. Pare che ci sia una cisterna che nasconda la "Conca di la muneta", un fosso molto profondo dove, si dice, i Dor custodissero il denaro. Nella conca c'era una grande campana d'oro: i passanti lanciavano una pietra dall'alto per farla suonare, per questo ad oggi è completamente ricoperta di pietre e quindi invisibile – oppure, semplicemente non esisteva, pensò Harry con un sottile filo di rammarico. Persino quando era piccolo non si lasciava abbindolare da racconti fantastici e dicerie. Da quando aveva capito che la vita non era una favola.
- Perché mi racconti questo? – le chiese poi, puntando gli occhi verso quell'esile figura. La sua fisionomia non era provocante o attraente. Vestiva dei jeans stretti scoloriti dai quali si notava che fosse snella, magliette con strane stampe o frasi ironiche che spesso copriva con golf enormi. Il suo carattere era irritante e starle vicino non sarebbe mai diventato piacevole, ma c'era qualcosa, mentre la guardava abbassare lo sguardo verso l'erba alta, accarezzarla con la mano, con i capelli sguinzagliati dal vento, che non la rendeva noiosa. O brutta.
- Le leggende fanno parte di quest'isola, del suo fascino, del suo mistero – lei piegò gli angoli della bocca in un sorriso malinconico.
- E cosa avrebbero di misterioso? – il fiato gli sfuggì ancora prima che potesse rendersi conto di voler davvero porre quella domanda. Divenne semplice quanto un'abitudine dimenticata, studiare le sue movenze, gli sguardi ammirati e persino il cadenzare parco della voce quando parlava, quando doveva narrare una storia.
- L'asfodelo – sussurrò lei con ancora lo sguardo rivolto verso l'erba verde che li circondava, spostandosi una ciocca di capelli dietro le orecchie. Harry fece un passo avanti, concedendosi il lusso imprevisto di guardarla più da vicino, alla ricerca di quel qualcosa che improvvisamente la rendeva affascinante ai suoi occhi pigri – Gli isolani lo chiamano ḫarbūtu, è una parola babilonese che significa 'desolazione'. Ma ciò che l'etimologia impone alla riflessione è quello che rappresenta questa pianta. È detta la "pianticella della morte", perché s'insedia nelle praterie ed è spesso causa di incendi, anche se con il tempo ha acquisito anche diversi significati – accarezzò i lunghi steli senza fiori con le dita in un movimento circolare che Harry trovò ipnotico, perché seguiva le sue dita come se non fosse riuscito a guardare altrove – Si dice che presentarsi con un mazzo di asfodeli significhi: oblio per il passato e promessa per il futuro – forse fu quell'inflessione scoraggiata, l'ultima vocale nascosta nell'aria, lo sguardo perso verso nulla, la mano di lei ancora tesa verso l'erba, che gli fece arrotolare lo stomaco. Una vertigine gli girò il mondo sottosopra tanto che dovette chiudere gli occhi per qualche istante. Il fervore della frustrazione gli sibilò tra gli organi. Era come essere avvolti dall'acqua quando lui non era più capace di nuotare.
Quando riaprì gli occhi, di fronte aveva ancora lei, il profilo rivolto verso il basso. La delusione lo tramortì come un pugno in pieno viso, mentre, incapace di volgere lo sguardo altrove, continuava a fare capovolte sul suo profilo, disegnando fronte, naso, bocca. Gli occhi cadevano su ciò che gli appariva davanti senza avere il coraggio di infiltrarsi in profondità, di scrutare, di scoprire.
Era facile forse, per qualcuno che non aveva il passato, decidere di perdere anche il futuro.
- Non mi interessa la botanica – berciò arcigno, dandole le spalle in modo brusco. I rami secchi guairono spezzandosi sotto le sue scarpe.
- C'entra con la leggenda, allocco – una punta di acidità sporcò il tono placido che lei aveva usato fino a quel momento.
- Se me la vuoi proprio raccontare, almeno fai in fretta – Harry si spinse ancora una volta in avanti, avvicinandosi alle rovine, ma lei gli si parò davanti allargando le braccia.
- Che vuoi fare? - le mani le tremavano e una strana inquietudine sporcava il lucido miele che riempiva le sue iridi.
- Non si può entrare? –
- Entrare? – ripeté lei con un cenno di allarme - No, certo che no, è un castello in rovina – lei alzò le sopracciglia, osservandolo come se fosse un povero idiota solo per aver chiesto - Si deve apprezzare il fascino da lontano e al massimo farsi raccontare la leggenda. Allora, vuoi sapere qual è? – Harry sospirò al suo tergiversare inutile. Sapeva che gliel'avrebbe raccontata comunque, ormai, assurdo che dovesse anche fargliela sudare. Il mistero era il suo improvviso interesse di conoscere una storia assurda, priva di fondamento e, senza ombra di dubbio, inventata di sana pianta.
- Se dico di no, non la smetterai di perseguitarmi, deduco – lei sembrò cogliere la palla al balzo.
- Si dice che... -
- Si può sapere perché diavolo me lo chiedi se poi fai come ti pare? – la rimproverò seccato e lei incrociò le braccia davanti al busto.
- Per educazione, non sono una selvaggia –
- Divertente – Harry non si preoccupò di mostrarle un ghigno sghembo per la scelta accurata dell'aggettivo da lei stessa utilizzato – Allora, la leggenda? – la incalzò infine esausto, appoggiandosi su una grossa roccia alle sue spalle. Lei rimase ad osservarlo immobile e avrebbe potuto scommettere di leggere una sfumatura di soddisfazione nello sguardo che gli rivolse. L'oro nei suoi occhi si accese di vivacità gustandosi quel momento con esaltazione, tanto che lui schioccò la lingua tra i denti e incrociò le braccia al petto invitandola tacitamente a smetterla. Lei, per niente intimorita dai suoi modi rudi e poco amichevoli, portò le mani dietro la schiena, avvicinandosi di pochi centimetri verso dove si era accomodato. Dietro di lei, le dimensioni della torre pentagonale oscuravano il sole, rendendo ancora più minacciosa la sua oscura salita verso il cielo.
Posizionata al suo fianco, la ragazza si voltò per rivolgersi verso il castello, come se avesse desiderato conversare direttamente con quelle antiche rovine. Come se avesse potuto domandare il permesso per raccontare la loro storia. Come se lo spirito che aleggiava intorno a quelle tristi macerie potesse essere in qualche modo...vivo.
Era la memoria a rendere vivi, pensò sentendo il respiro farsi pesante. Ecco perché lui si sentiva lo spettro di ciò che era stato, uno zombie più morto che vivo.
Forse era davvero morto in quell'incidente.
- Si narra che il castello appartenesse all'ammiraglio della famiglia Dor, un uomo nobile, ricco e di buon animo. Un giorno, una donna si invaghì di lui –
- Lo sapevo che sarebbe finita con una drammatica storia d'amore – commentò lui di getto, come se quella considerazione gli fosse sfuggita dalla lingua. Harry deglutì come se la gola di colpo si fosse gonfiata, disabituata da quello sforzo.
- Ma l'attaccamento della donna divenne morboso e quando Dor la respinse, accecata dalla rabbia, lei concesse l'anima al demonio per ottenere poteri magici. Un giorno fermò l'ammiraglio e gli disse: "Quando vedrai i campi del Cochinas ricoperti di cavalli e cavalieri verdi, il tuo castello sarà espugnato e tu con la tua corte sarete impiccati sugli spalti di CastelDor!" – pronunciò lei solenne, ingrossando la voce di una nota sinistra, con un dito puntato verso l'alto – Il povero Dor allora fortificò il castello nella speranza di poterlo salvare e per precauzione inviò le chiavi del sotterraneo dei tesori alla sorella che abitava in continente. In Settembre, i campi del Cochinas erano coperti di asfodelo e la perfida donna compì la sua magia. Trasformando tutti i fusti verdi in tanti cavalli e guerrieri – la ragazza fece una pausa, Harry ne approfittò per studiarla con cautela - Il prode Dor allora si precipitò dal bastione e cadde sfracellandosi sulle rocce sottostanti. Con la sua morte, l'esercito verde sparì e nella fresca aria della mattina echeggiò il riso diabolico della donna che aveva ottenuto vendetta – uno spiffero d'aria gli si infilò tra i risvolti del colletto della camicia, sbottonata di pochi bottoni sul petto. Harry nascose un leggero brivido portando le braccia all'indietro per poggiarsi meglio sulla roccia.
Ciò che diceva lei, seppur ricco di effetto, sulla sua apatia era il nulla più totale e sebbene avesse ottime doti nel raccontare storie, era chiaro che fosse una finzione - Saputa la triste vicenda, la sorella dell'ammiraglio si imbarcò per l'isola, per aprire i sotterranei e trasportare i tesori nel continente, ma durante il viaggio fu colta da una fatale malattia. Così gettò le chiavi in mare, con gli occhi morenti fissi verso le coste dell'isola dove dormiva il suo infelice fratello di un sonno perpetuo – concluse lei con lo sguardo perso verso l'orizzonte che faceva capolino dietro la collina, concedendo qualche istante di silenzio rivolta verso quelle rovine, palcoscenico silente di quella triste storia - Nessuno seppe più aprire la Conca di la muneta, e i tesori dei Dor splendono ancora laggiù, nell'ombra del sotterraneo, da qualche parte nei pressi dell'imponente Torre di pietra –
To be continued...
Spazio Ila 🐿
Sono in ritardoooo ma magari il prossimo capitolo lo sgancio prima ❤️ e soprattutto...sono un sacco di paroleeee😂
Scusate e grazie per essere sempre qui, il vostro sostegno è tutto!
Dunque... in questo capitolo è presente un dettaglio che ritroveremo più avanti!
Avete capito quale??? Zan zan zan zan
Piano piano entriamo nel vivo della faccenda ma questi due hanno tanto da dirsi...vedrete!
Non dimenticate la ⭐️ mi raccomando❤️
Baci, vostra Ila
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