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22. Cantones - poesie

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22.     Cantones – poesie


«Mi passi quella cassa per favore?»

Alluene impazziva per la festa di inizio inverno.

Quell'anno era stata ridotta ad un solo concentratissimo misero giorno ma, per lei, era un momento unico e non si sarebbe persa neanche un minuto, una bancarella, un gioco, o una gara.

Per questo aveva abbandonato il Mirage per restare in piazza e aiutare con i preparativi.

Anche se era solo metà mattina era già stanca. Forse perché in piena notte era stata svegliata di soprassalto dalle urla del newyorkese che aveva deciso di liberare la sua bellissima voce di punto in bianco.

Pensando fosse successo qualcosa, si era precipitata verso la camera che lo ospitava per poi bloccarsi dietro la porta chiusa, come se avesse perso di colpo la facoltà di movimento.

«Elene?»

Era rimasta impietrita ad ascoltare lamenti disperati che le rimbombavano tra le ossa con la forza della loro disperazione.

A parte il primo urlo straziante, gli altri erano diventati sommessi di chi, anche nell'inconscio, non voleva farsi sentire, di chi viveva il suo tormento in un vortice che cresceva dentro, dove nessuno poteva vederlo.

«Elene mi senti?»

Lei aveva appoggiato la schiena contro la porta e si era lasciata scivolare a terra, restando lì in disparte, senza che la potesse vedere, senza che potesse intromettersi. Senza invadere il suo tormento ma, quell'inquietudine era arrivata anche dentro di lei come se le fosse in qualche modo appartenuta.

«Alluene!»

«Cosa!!» balzò colta alla sprovvista, un pungo contro il costato per frenare il battito spaventato. «Daisy» esalò senza fiato, con una mano sul petto per contenere lo spavento «Non chiamarmi con il nome intero!»

«Non mi sentivi!» si giustificò la cugina, sistemandosi i capelli rossi in una coda alta. «Sembravi in trance. Pensieri?»

«I soliti» Alluene rispose sbrigativa con una scrollata di spalle. Sua cugina la conosceva talmente bene che capiva quando non era il caso di addentrarsi oltre nei meandri della sua passeggera e solitaria malinconia.

In paese, solo Odin era a conoscenza del suo passato, di ciò che l'aveva portata a rifugiarsi lì. Ma a loro sembrava non importare, come se ciò che era stata un tempo non pregiudicasse la persona che era diventata.

Daisy le si avvicinò poggiandole una mano sulla spalla. Dall'espressione furba che le rivolse, capì che aveva qualcosa in mente.

«Finiamo di sistemare in magazzino questi» propose indicando i cartoni pieni di oggetti e lattine di bevande. «E poi pranziamo con thè e biscotti?» come rifiutare!

***

«No.»

«Frena l'entusiasmo.» Alluene sospirò angosciata all'ennesimo grugnito.
Che novità... L'orco – cinghiale le dava le spalle, seduto, visibilmente scomodo, alla sua vecchia scrivania bianca in fondo alla stanza, troppo piccola per la sua stazza.

«Puoi andare» esortò lui accompagnando un eloquente gesto della mano, tanto per non lasciare spazio a equivoci.

Pure?

«Credo che tu non abbia capito» lei si avvicinò a passi lenti e studiati «Non era un invito. Dobbiamo andare, ora» enfatizzò quel "ora" con un'inflessione più acuta.

«Non è un mio problema» e certo, ora era un suo problema, invece. Stupida illusa che aveva creduto che dopo le ultime vicende e la parvenza di leggero interesse, lui fosse più mansueto.

«Potresti evitare di farmi penare ogni volta?»

«Che divertimento ci sarebbe allora» rispose atono, svogliato, come sempre. Senza neppure degnarsi di guardarla in faccia. Pretendeva solo di scacciarla come si faceva con una mosca fastidiosa.

«Perché, ti diverti di solito?» lo punzecchiò con una cadenza macchiata di acida ironia.

«No, ma mi gusto l'idea di non darti soddisfazioni» Alluene titubò, i muscoli erano scossi da un leggero tremore di stanchezza. Non aveva le forze necessarie per fronteggiare tutto quell'ammasso di sgarbataggine.
Era esausta, forse per quello che lasciò andare un sospiro.

«Per favore» si lasciò sopraffare su quel suono supplichevole, arrotolando la lingua nel palato, immediatamente pentita quando lui si girò a tre quarti, concedendole un'occhiata sghemba.

«Me la servi su un piatto d'argento» nei suoi occhi balenò una scia di temibile vivacità.

«Cosa?» domandò lei ingenua, con un filo di voce quando l'espressione del ragazzo si trasformò, tendendo i lineamenti in modo sadico.
La scia di vitalità si disperse lasciando il posto ad un bagliore di sfida.

«La soddisfazione del sentirti supplicare» Alluene strinse le labbra piegandole tra loro quando quel turbine di sadismo le si sfracellò in faccia. «Anche se ho pensato sarebbe stato in un altro contesto.» La rudezza della sua voce la colpì come un colpo ben assestato.

Era solo una lotta per lui, l'obbiettivo che lo animava era solo la presunzione di vincere e di annientare lei, sempre e comunque.

Allora digrignò i denti furiosa. Furiosa con se stessa per aver solo ipotizzato di ricevere da lui un minimo di comprensione o malleabilità.

Corse in camera sbattendo i pungi sul letto per la frustrazione. Non aveva neanche trovato la battuta ad effetto per accompagnare la sua ritirata.

Era solo scappata come una vigliacca.

Sapeva che avrebbe sfruttato l'occasione, allora perché andarsela a cercare, si chiese mentre un'onda di rammarico le chiuse la gola non appena la risposta le si palesò in mente.

Perché certe volte sembrava davvero che cercasse la sofferenza.
Come se solo soffrire potesse farla sentire ancora presente in quella dimensione. In quella vita.

E mentre aveva lo sguardo perso, abbattuto dalle tristi consapevolezze, un luccichio contro la luce le accese un'idea che mai avrebbe pensato avrebbe potuto allettarla.

E con quella, tornò anche la determinazione.

Si precipitò verso la camera del cinghiale, spalancò la porta con poco garbo e non appena lui provò ad aprire la bocca per far uscire una qualche freddura, lei gli chiuse una manetta intorno ad un polso, allacciandolo al suo sotto lo sguardo sbigottito e incredulo del ragazzo.

«Vorrai scherzare – rimase immobile lui, il corpo schiacciato contro la sedia in legno bianca troppo piccola per la sua fisicità.

Poteva intuire tutto il suo disprezzo da come aveva corrugato il labbro superiore e arricciato il naso, schifato.

«A mali estremi, estremi rimedi – la sua voce si sgretolò di soddisfazione invece, mentre tendeva la schiena verso l'alto con superbia.

Perché non aveva pensato prima alle manette!

«Toglimi subito questa roba – ordinò lui ondeggiando il polso ammanettato con tanto vigore da muovere anche il suo.

Alluene si sporse in avanti, appoggiando la mano libera sulla scrivania per arrivare vicino al suo viso tanto da poter agganciare ogni fiaccola di attenzione che gli volò negli occhi, in quello sguardo contratto e tremendamente attraente.

«Mai – soffiò suadente di ironia prima di strattonargli il polso legato, tanto per enfatizzare che non aveva scampo.

«Non crederai sul serio di potermi trascinare con la forza – l'osservò scettico, ma l'orco cinghiale non aveva idea di quanto potesse essere testarda.

Non del tutto almeno.

«Stai a vedere – fece pressione sulle gambe, lanciandosi in avanti sicura di spostarlo quanto bastasse per alzarlo dalla sedia e dargli un decisivo slancio in avanti che l'avrebbe convinto a desistere dalle sue proteste e seguirla di buon grado.

Invece nonostante si sforzasse di procedere, la suola delle scarpe le slittava sul pavimento, mentre lui se ne stava immobile a guardarla sottecchi.

Lo sguardo compiaciuto e altezzoso di lui, come a voler dire: "te l'avevo detto" le pizzicò i nervi mentre era ancora seduto comodamente come se nulla lo stesse infastidendo, solo il braccio teso verso di lei, che invece sembra di star tentando di spostare una montagna.

Che cavolfiore.

«Dicevi? – se non fosse stato l'essere umano più apatico sulla faccia della terra, Alluene avrebbe giurato di vedere un lampo di divertita soddisfazione lambire la calma delle sue verdi lagune.

«Cos'hai, il piombo al posto delle ossa? – con la mano destra tirò la corta catena che teneva unite le due manette tra loro, con il corpo che pendeva dalla parte opposta, cercando di portare il peso nella sua direzione. Invece lui ancora non sembrava sotto nessuno sforzo.

«Per quanto vuoi continuare? –

«Fin quando servirà! – s'impuntò lei testarda, tirando come una matta, piccata di ferocia, mentre lui le concedeva solo di alzargli il braccio legato e niente altro del resto del corpo.

«Resteremo tutti e due qui allora – la sua convinzione fu come una miccia di sfida.
Una sfida che non avrebbe perso.

«Non pensarci nemmeno – Alluene si avventò su di lui, afferrandolo per le maniche del maglione beige a collo alto e, approfittando dell'effetto sorpresa, se lo spinse addosso costringendolo finalmente ad alzarsi da quella maledetta sedia.

Ma quello che ne venne fuori fu una sorta di reazione a catena poiché le loro gambe si incastrarono tra loro, la spinta e il precario equilibrio li portarono a sbilanciarsi e il laccio delle manette non poteva che peggiorare il complicato quadro.

Alluene fece qualche saltello all'indietro sperando di recuperare l'equilibrio, ma quando ormai erano sul punto entrambi di finire a terra, fu lui a puntare i piedi, indurendo i muscoli delle gambe e piegando il braccio legato al suo per schiacciarsela addosso.

La schiena finì contro il muro e lei si ritrovò bloccata tra la parete e il corpo di Harry che, con il braccio libero era riuscito ad appoggiarsi e con l'altra mano le aveva afferrato il polso, intrecciando le loro braccia già legate l'un l'altra, per comandare anche i suoi movimenti.

Alluene cercò di respirare lentamente, nonostante il corpo del ragazzo incombesse massiccio su di lei, che la sua altezza la privasse dell'aria, che il suo sguardo minaccioso la stesse perquisendo, frugando tra le sue fragilità come se avesse avuto polpastrelli o dita e la stesse toccando.

«Che piffero fai – lei puntò i suoi occhi con una resistenza che in realtà non possedeva, anzi ben lontana dalla tensione che invece piegava ogni muscolo tanto da farle quasi perdere il controllo del proprio corpo.

E infatti stava cadendo come una broccola lessa.

«Ti impedisco di finire per terra, ancora una volta, Fiorellino – lui piegò le labbra in un ghigno che sembrò improvviso, imprevisto, impulsivo. Tanto deciso da essere accompagnato dalla nascita di una piccola piega che andava ad incunearsi al lato della bocca.
Una fossetta.
Lei fissò quella minuscola piega come se ne fosse stata ipnotizzata. Accidenti, gli donava persino «Devo pensare che in realtà non ti dispiaccia affatto.»

«Cosa? – rispose in ritardo, balbettando quasi, come se si fosse resa conto solo dopo di ciò che aveva detto, distratta da quel nuovo dettaglio che non aveva mai potuto notare prima in lui.

Harry si passò la punta della lingua sulle labbra, temporeggiando come se fosse stato indeciso e lei fissò ipnotizzata ogni dettaglio, ogni enfatizzato movimento.

«Essere sfiorata da me – soffiò roco, il calore del suo fiato le atterrò sul viso come se la distanza si fosse frantumata di colpo.

Osservare il suo volto a quella vicinanza era venerare la perfezione di un dipinto, o di una statua.

Solo che lui era vivo, in quel momento forse meno immoto che mai, meno freddo, più presente, più coinvolto.
I suoi occhi apparivano immensi, di un verde limpido come il mare in una giornata di sole, nessuna traccia di nubi o delle sue ombre.

Le rovine che si portava dentro sembravano solo spettri distanti di qualcosa andato distrutto troppo tempo prima.
Restavano solo le scie delle loro ombre e degli anni che avevano oscurato a tenere viva la loro presenza.

Un battito svanì tra le costole e la gola si chiuse per i muscoli in tensione.

Era già caduta una volta in una trappola simile.

Quella luce che vibrava nelle sue iridi verdi era solo illusione di chi desiderava illuminare con la propria tenacia anche il buio più fitto.

Era il miraggio di chi si ostinava a pensare che quella misera distanza, sebbene non fosse sufficiente per renderli vicini, non fosse neanche abbastanza per farli stare lontani.

Era un'illusione.

Falsa come i sogni che si fanno prima di addormentarsi quando ci si augura che le circostanze si evolvano in un modo e invece, in realtà, si rivelavano l'opposto.

«Devo ricordarti com'è finita l'ultima volta – la sua voce si tese, fortificata da un impeto caparbio.

Non cedere.
Non a lui.

«Mi hai visto nudo – il suo timbro era diventato morbido, suadente. Conquistatore.

Un groviglio le annodò la gola mentre quel suono le vibrò persino nel sangue. Non era abituata a certi tipi di risposte.
Non era abituata proprio a sentirlo parlare!

E, per dire certe cose, sarebbe stato meglio fosse rimasto muto.

«No, ti ho dato una testata e se non vuoi replicare, ti conviene venirmi dietro – ordinò sbrigativa e lui storse la bocca in una specie di smorfia imprevedibile e divertita che si impiantò nella mente come un'immagine che non avrebbe potuto rimuovere.

«Sei sicura? –

Alluene spalancò gli occhi non appena si rese conto delle parole esatte che aveva pronunciato con la solita superficialità svampita.

«Oh piantala!» mosse la mano libera in aria per minimizzare l'errore. «Hai capito quello che intendo.»

Ci mancavano i doppi sensi a scombussolarle la lucidità già ballerina di suo.

Cercò di girarsi su se stessa, di smuoversi da quel pantano per attuare i suoi propositi, ma lui la bloccò per un braccio, avvicinandosi ancora, prolungando quell'agonia di imbarazzo.

«Allora stai attenta a ciò che desideri, Fiorellino» la sua voce abissale si tramutò in una catena fatta di spine. Si infranse contro la pelle della sua guancia che iniziò a vibrare come se fosse stata appena punta, saccheggiata. «Potrebbe avverarsi.»

«E tu a quello che fai» invece la sua, di voce, suonò tirata, arsa dalla siccità che le aveva seccato di colpo la gola.
Passò sotto il suo braccio, approfittando della sua attenzione catapultata su quel gioco insulso di doppi sensi per tirarselo dietro. «Andiamo!» e lui finì per cedere.

«Sei una seccatura» si arrese infine, stufo.

Era ora!

***

Colori.

Paradossalmente la festa di inizio inverno era un tripudio di sfumature, un impasto di tinte denso come le creme di una torta.

Si chiamava Cortes perché era raggruppata nel centro storico, tempestandolo di carretti di legno che offrivano alimenti di ogni tipo, oggetti e giochi, e ricordava i giardini in festa delle vecchie proprietà nobiliari, così immense da sembrare piccoli paesi.

Nonostante fosse solo metà pomeriggio, le giornate invernali erano brevi e il sole era già sparito dietro l'orizzonte.

Luci, fiaccole e fiori sempreverdi si arrampicavano tra i banchetti o gli angoli degli edifici, arricchendo l'atmosfera di un'ambientazione magica.

L'aria era imperlata di profumi così diversi, che mischiati tra loro formavano una fragranza unica. Il profumo della Cortes.

Il vento era ricoperto di risate e urla allegre e il pavimento in granito della piazza si stava trasformando in una distesa di foglie e petali caduti.

Tutti i negozi e le attività restavano aperte fino alla fine dei festeggiamenti e le loro vetrine venivano addobbate a tema.
Sembrava davvero di essere in un bosco fatato dove nessun tipo di tristezza era concesso.

Si desse inizio ai giochi!


Harry

Ormai era chiaro che la ragazza non era del tutto savia e, tra tutti i tiri mancini che gli aveva giocato, non si sarebbe mai aspettato di finire ammanettato.

E non per giochi erotici.

Infatti, la selvaggia lo stava letteralmente trascinando da una parte all'altra della piazza, tirandolo come se fosse stato un cane pigro al guinzaglio, sotto gli sguardi perplessi dei turisti e quelli compiaciuti dei locali.

«Deduco che denunciarti per sequestro di persona sarebbe inutile» proferì serio quando incrociò l'espressione soddisfatta del sindaco che li spiava da dietro un banchetto di caramelle, vestito come un clown.

«Ogni tanto sei perspicace» Harry aggrottò la fronte alla sua presa in giro «Oh, vieni!» incitò tirandolo verso una delle bancarelle.

Girava come una trottola impazzita in mezzo a quella baraonda di persone e tende, fermandosi in ogni banco e ovunque aveva comprato qualcosa per entrambi nonostante lui avesse palesato più volte il desiderio di non desiderare mangiare nulla di quella roba «Devi assaggiare questi, sono tipici e sono buonissimi» ma lei come al solito, non aveva prestato la minima attenzione.
Infatti poi si rivolse alla venditrice dando per scontato il suo assenso, palesemente negato più e più volte «Due per favore.»

«Pago io» asserì lui per l'ennesima volta sbuffando.

Era pur sempre un gentiluomo e dato che lei non accennava a non acquistare porzioni singole, aveva finito persino per offrire lui.
Tutto.

«Grazie» lei sorrise saltellando.

Le prime venti volte in cui si era offerto di pagare lei era stata reticente. Aveva smesso di protestare quando le aveva rubato il portafoglio mentre lo agitava in aria per convincere una delle venditrici ad accettare solo i suoi soldi.

«È assurdo che ti stia lasciando compiere un reato» scostò la carta uniticcia da un lato osservando quella specie di grossa palla senza sapere cosa fosse di preciso.

«Dovrai pur mangiare, assaggia» con una velocità disumana gli sfilò dalle mani quella strana cosa e gliela sventolò sotto il naso.
L'odore forte di spezie gli andò dritto dalle narici alle papille gustative.
Non avrebbe mai dato soddisfazione alla selvaggia, ma il profumo era invitante.

Così si decise ad addentarne una parte.
Un fiotto di una sostanza infuocata quanto la lava che risiedeva direttamente nel centro della terra gli ustionò la bocca.

«Bfucia» tossicchiò quando gli andò quasi di traverso il boccone.

«Non lo sento tanto piccante» lei gli colpì la schiena con il palmo «Che palato delicato hai.»

«È bollente!» spalancò la bocca per prendere aria, una volta aver mandato giù quella consistenza infuocata. La lingua pizzicava per l'ustione.

«Allora soffia» replicò lei ovvia, guardandolo con un sopracciglio alzato come se fosse stato un completo allocco.

«Perché a te non brucia?» la domanda uscì carica di sconcerto.

«Sono abituata a mangiare piccante e anche molto caldo» spiegò lei continuando a mordicchiare quella roba con gusto come se fosse stata a temperatura ambiente.

«Hai l'amianto in bocca» commentò riprendendo a camminare, sperando che il pizzicorio freddo dell'aria stemperasse i gradi del suo cibo.

«E lo stomaco di uno struzzo diceva mia nonna. Perché digerisco anche le pietre» precisò prima di dare un altro morso «Ti piace?»

«Non è male» avrebbe detto "buono", ma con la lingua grattugiata in quel modo non era più sicuro di riuscire a giudicare distintamente i sapori.

E soprattutto, detestava compiacerla.

«Prendiamone qualcuno in più, tanto offri tu stasera» la proposta avvenne talmente spontanea che Harry dovette serrare la mandibola per non concederle più di un ghigno divertito.

Era incredibile come lo stesse pungendo lo stimolo di sorridere.
Ed erano anni che non ne aveva sentito la necessità.

«Ammanettato e anche derubato» piegò la testa da un lato osservandola in un modo che aveva qualcosa di compiaciuto.
Che lei però non colse.

«Esagerato» la mano libera vibrò nell'aria indicando un punto non identificato «Andiamo di là» e lui dovette seguirla.

Il piano iniziale era quello di metterle talmente tanto i bastoni tra le ruote da farla desistere e concedergli la libertà, ma poi aveva intuito che sarebbe stata solo un'altra inutile perdita di tempo.

A New York detestava ogni evento affollato, odiava fare a gomitate con le persone, respirare l'aria contaminata dal fiato di troppi individui che si muovevano insieme.

Ma, nonostante i nervi tirassero per la sua avversione nel compiacerla, con lei tutto diventava imprevedibile.

Lei si tuffava in mezzo al caos come se le fosse appartenuti, così giusta in mezzo a quella vivacità di paese fatta di persone vestite in modo strampalato, giochi vecchi di mezzo secolo e odori di cucinato di ogni tipo che potevano far venire fame o nausea.

Lei si muoveva districandosi tra la folla, elettrizzata come una bambina, con un sorriso carico di energia e un'esuberanza che avrebbe potuto riempire anche alcune delle piccolissime parti della sua totale apatia.

Imprevedibile era che avrebbe finito per lasciarsi trascinare ancora una volta, che avrebbe permesso ad una psicopatica di costringerlo a ritrovare l'istintivo gusto di divertirsi.

Imprevedibile fu la nebbia di amarezza che serpeggiò tra le sue viscere al pensiero che il divertimento era così effimero come concetto per lui, così distante e irriconoscibile.

L'attenzione volteggiò ancora sulla selvaggia, che orbitava i suoi pensieri senza volerlo su di lei, sulla dimensione ignota che sprigionava, un'atmosfera fatta di pianeti luccicanti e colori accesi.

Aveva finito per fargli germogliare in una parte ancora oscura della sua mente, una misera briciola di voglia di seguirla, di scoprirla, di trovarla interessante.

Quella sera lei era anche vestita meno trasandata del solito, con un jeans più scuro e non sbiadito che le fasciava le gambe lunghe.
Il blu acceso del cappotto, adornato da qualche ricamo dorato, faceva risaltare la pelle chiara del viso che, incorniciato da quella cascata morbide onde, le donava una parvenza docile e quasi graziosa.

Tutto il contrario rispetto alla sua indole selvatica.

Harry le camminava accanto osservandola guardingo nel suo ambiente naturale e quando lei si girava a guardarlo, come ad accertarsi che ci fosse ancora, gli sorrideva. Ogni volta.

Un riflesso spontaneo che lei rivolgeva a chiunque e, in quel momento, sembrava davvero diretto a lui.

Quel sorriso era un ornamento per tutto il viso, emanava una luce confortevole che poteva trapassare la sua perenne tensione.

Poteva leggerle negli occhi la spontaneità di quei sorrisi, trasformandoli in un firmamento setacciato di milioni di stelle.

Imprevedibile era che finisse per trovare qualche di bello, in quella luce, di affascinante, che gli ricordava l'allegria e la spontaneità di un bambino quando imparava a sognare.

Inconsciamente Harry allentò le briglie dei vecchi ricordi che teneva rigorosamente fuori dalla sua quotidianità e la vista si sfocò.

Le camminò alle spalle come un automa mentre la mente rifletteva immagini di lui bambino con sua mamma che gli insegnava a pattinare al Rockfeller Center nel periodo di Natale, quando New York era un tripudio di luci, persone, banchetti e attrazioni.

Non avrebbe potuto prevedere che, per un solo istante traditore, desiderasse essere contagiato dalla stessa infantile vivacità che lei ancora conservava.
Desiderò di dimenticare tutto, anche la stessa perdita che lo affliggeva perennemente, per vivere un solo momento con la stessa genuina spontaneità che aveva lei.

E lo desiderò talmente inconsapevolmente, che finì per guardarsi intorno e non trovarsi più così disperso in un mondo distante di esseri umani slegati e dissociati.

Andare in giro con lei non era così terribile, non era nemmeno noioso come aveva creduto e questa strana, assurda, inspiegabile consapevolezza si trasformò in un formicolio che non sapeva distinguere.

Un'altra sensazione nuova che si affacciava guardinga tra gli spettri della sua emotività.

E se da un lato la curiosità di lasciar fiorire quei germogli premeva contro lo stomaco con un martellio assordante, dall'altra si spianava la strada nella mente la consapevolezza che quelle reazioni fossero del tutto fuori luogo, così distanti dal suo essere, e per questo, andavano sradicate.

Sognare, forse lui aveva finito di farlo troppo presto, ma era più pericoloso per lei, se ancora non aveva imparato a smettere.

«Giochiamo?» lei inchiodò davanti a lui, destandolo dai suoi pensieri.

«Che roba è?» come se fosse stato un riflesso, tirò fuori il portafoglio. Non che avesse speso grandi cifre, su per giù l'ammontare di tutto era un quinto di quello che avrebbe speso a New York per una semplice cena nel ristorante meno esclusivo che conoscesse.

«Colpisci la talpa. Non possiamo perdere» dichiarò agguerrita «Tengo io il martello» impugnò l'attrezzo di legno con la mano destra, che di conseguenza tirò anche la sua sinistra verso l'alto «Dovrai collaborare.» Quell'avviso suonò minaccioso.

«Non chiedo di meglio» replicò sarcastico e lei gli strattonò il braccio con forza.

«Ti devi concentrare e seguire i miei movimenti.»

«Agli ordini» la profanò con uno sguardo infuocato, al ricordo del loro scontro in casa prima di uscire dove, appoggiati contro il muro.

Nella sua mente erano balenate immagini poco caste di tutto quello che avrebbe potuto farle se solo lei fosse stata meno acida, meno restia, meno...lei.

La selvaggia sembrò cogliere il significato della sua occhiata tanto che spalancò gli occhi voltandosi di colpo per nascondere il rossore delle guance.

Comandato da una forza misteriosa, la stessa che in quell'isola lo rendeva schiavo delle emozioni e sensazioni che aveva perso, la stessa che dopo tanti anni, gli evocava immagini di lui bambino, la stessa che gli faceva accettare quella strana ed insulsa attrazione verso una ragazza come lei, apparentemente insignificante, che poi, in realtà, di significati sembrava possederne tanti.

Allora Harry si avvicinò, poggiando la mano libera sul tavolo per farsi più incombente.
E lei che, concentrata a tirare martellate sulla testa della talpa, non si accorse di lui fin quando le loro braccia legate non si scontrarono.

I suoi occhi gli volarono addosso e qualcosa scoppiettò nello sterno. Erano curiosi per come titubavano reticenti su quella vicinanza improvvisa, intensi perché sembravano ponderare se volerlo più vicino.

Due occhi color del sole.

Dove mille frammenti di cristalli d'ambra si spezzavano, dove l'oro liquido si fondeva in striature di luce.

Qualcosa di molto simile ad un ricordo viaggiò nella sua mente in un eco tanto potente che quasi lo scosse dall'interno, proprio quando qualcosa di duro comparve sotto il palmo della mano destra, sollevandogliela.

Si voltò di getto verso il tavolo e quando lei, seguendo il suo movimento, sgranò gli occhi e tese il braccio ammanettato, capì chiaramente cosa era sul punto di fare.

«Aspetta!» non fece in tempo a terminare la frase che lei aveva già caricato il colpo e schiantato contro la testa della talpa un secondo dopo che lui riuscisse a togliere la mano prima che potesse fare la stessa fine della talpa.

«Stai cercando di distrarmi per farmi perdere?» lo incolpò accigliata lasciandolo sbigottito.

«Sono io che ho rischiato di perdere la mano!»

«Era un sacrificio per la causa, non ti saresti fatto nulla, invece così ha vinto la talpa.»

«Preferivi amputarmi un arto?» era diventato così labile e invisibile quel confine tra la voglia di infastidirla e il vezzo più malizioso del flirt, quello in cui si aspetta la risposta più adatta per giocare con i doppi sensi, quello in cui puntava i suoi occhi, che lo fissavano sempre così spudorati, per aspettare che li sgranasse appena o sbattesse quelle ciglia folte per camuffare l'imbarazzo.

Come se non si rendesse conto che ogni emozione era perfettamente riconoscibile sul suo viso, come se fosse stato un collegamento diretto alla sua emotività.

La sensazione più assurda era quel solletico allo stomaco, quell'effervescenza nel cercare, scoprire, scrutare tutto ciò che lei era in grado di mostrare.

La pazzia più compromettente era che non gli dava più così fastidio starle accanto. Anzi, era quasi piacevole come la sua compagnia invadesse ogni silenzio, ogni malumore, persino ogni solitudine.

E non era abituato a non sentirsi solo.


Alluene

Sul palco centrale allestito apposta per l'occasione, la banda del paese era in fermento.

Vestivano il costume tradizionale, fatto di strati rossi, neri e banchi, camice con maniche a sbuffo e gilet di pelle, per cantare i ritmi tipici e antichissimi. Alcuni di loro avevano studiato nella capita l'arte del canto e le tradizioni di quelle arcaiche melodie.

Il problema, come ogni volta, era lui: Jo.

Il vecchio fratello del sindaco era un pericolo perché, vestito di tutto punto, si posizionava davanti al coro per esibirsi da solista con le sue note stonate e le parole inventate, che aveva la presunzione di spacciare per corrette.

Ogni anno, vedere la disperazione di quei poveretti che tanto si impegnavano per mantenere alto l'onore canoro del paese, e la frustrazione sciogliersi sul viso di Tyler, era quasi divertente in quel clima da tragi-commedia.

«Cosa sono?»

Alluene roteò gli occhi a quel "cosa" volutamente utilizzato dal newyorkese.
Era avvilente che non li considerasse neanche alla stregua di degni esseri umani. Ai suoi occhi dovevano apparire come tante scimmie saltellanti.

Meglio animali, che spettri come lui.

«Menestrelli» lui alzò un sopracciglio perplesso.

I suoi occhi le arrivarono addosso fendendo la distanza che li divideva.

Doveva ammettere però che non si era comportato nella solita odiosa maniera. Si, salutava tutti a stento come se gli pesasse anche solo separare le labbra se non per un minimo di educazione, ma aveva smesso di farsi trascinare come se fosse stato appeso ad un mulo, e incredibilmente aveva collaborato.

Le aveva persino offerto qualsiasi cosa proponesse, mangiando di tutto e persino accontentandola nei giochi.

«Menestrelli?» un urlo di Jo costrinse entrambi a corrugare il volto.

Non doveva illudersi, non erano una coppietta che si gustava la festa passeggiando mano nella mano. Loro erano legati perché lei l'aveva ammanettato e lui ormai era rassegnato a darle il contentino.

Eppure, non era così terribile la sua compagnia, quando non grugniva solamente. Anzi, sembrava trarre un subdolo divertimento a provocarla.

«Si, loro cantano le Cantones, poesie di una tradizione estremamente antica che narrano le vicende dei banditi» spiegò lei senza nascondere la punta di orgoglio che le scaldava il sangue, approfittando del picco di tolleranza del ragazzo nell'ascoltarla e porle domande «Erano personaggi molti discutibili che vivevano per lo più nella zona centrale dell'isola, che data la sua natura selvaggia, si presta perfettamente a nascondigli e scorribande» continuò ancora «Il paradosso di queste figure è che se da una parte venivano condannati, dall'altra le persone li esaltavano.»

«Esaltare dei criminali, tipico dei selvaggi» la sua constatazione non la stupì.
Classico di chi dava giudizi a freddo solo per il gusto di esternare un'opinione.

«In realtà loro rispettavano un codice d'onore e molto spesso uccidevano per vendetta o per faide familiari» si appurò che lui ascoltasse attentamente la sua precisazione «Oppure rapivano per riscatto, ma se la famiglia non poteva pagare, allora li lasciavano andare, a patto che mai rivelassero dettagli sul rapimento o su dove erano stati reclusi» e lui seguì ogni parola con un'attenzione nuova che non gli aveva mai letto negli occhi.

Per la prima volta seguì le sue iridi ruotare intorno ai suoi come satelliti intorno al sole, come se fossero stati incapaci di fare altrimenti.

Come se fossero stati attratti.

«Quindi sei della stessa politica anche tu» sibilò lui tra i denti con una nota distorta che poteva sembrare delusione, che lei non riuscì a giustificare.

«Non li assolverei, ma penso che i veri mostri siano altri» come i veri e vecchi abitanti dell'isola, anche lei tendeva a difendere i banditi, ma solo quelli che non avevano mai ucciso, solo quelli che ancora rispettavano i codici d'onore.

Perché loro, a differenza dei veri criminali, ancora davano importanza all'onore.

«Tipo?» il viso del ragazzo si infittì di tensione, come se quell'argomento avesse potuto puntellare una corda insidiosa per lui.

«Chi uccide per il puro gusto di farlo o chi massacra, picchia e trucida» Alluene si mantenne salda, cercando di non farsi schiacciare dal peso del suo silenzioso giudizio.

«Uccidono anche loro, hai detto.»

«Solo per vendetta.»

«E non è la stessa cosa?»

«Il risultato si, infatti ho detto che li potrei assolvere solo se non fanno del male a nessuno» puntualizzò ancora «I veri criminali sono altri e molto spesso, nemmeno finiscono in galera» una punta di amarezza densa come il veleno fluttuò nel palato.

La giustizia era un argomento che non aveva più trattato da quando si era trasferita lì e lui era l'ultima persona con la quale avrebbe dovuto aprirlo.


🌼🌗



Spazio Ila 🐿:

Lo soooo! Sono sempre in ritardo ultimamente, perdonatemi <3

Come sapete tengo tantissimo a questa storia e forse, finisco per mettermi agitazione da sola e finisco per rallentare, perennemente in ansia!

Grazie per la vostra pazienza, prometto che sarà ben riposta.

Non notate anche voi un avvicinamento???

Zan zan zan!!

Vi adoro <3

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