12. Kadoš-Šēne - Madre Santa
"Era un soffio, un ansito misterioso che pareva uscire dalla terra stessa".
Alluene
Rientrava avvilita, e sudata da far schifo, da una giornata di lavori manuali che erano stati un completo disastro. Tom l'aveva persino bandita, insinuando non solo che non era stata d'aiuto, anzi li aveva addirittura rallentati costringendoli a sistemare i suoi pasticci.
Il vento le martellava la schiena con la forza tipica che bersagliava solo Tibula, mentre il sole pian piano spariva dietro la linea del mare.
Ma il culmine della giornata era arrivato solo dopo. Ossia quando era dovuta correre, direttamente dal Mirage, con la giacca a vento a coprire le deplorevoli condizioni dei jeans strappati, e non per bellezza, proprio sotto la natica destra, con la maglietta gialla diventata marrone di terra e polvere, all'assemblea cittadina che ogni mese radunava gli abitanti per discutere di organizzazioni, feste e iniziative. Solo che quella volta nel dibattito era emerso anche il suo piccolo problema di gestione del newyorkese. Se ripensava alle provocazioni di Tyler davanti a tutti, le veniva ancora voglia di strozzarlo con il suo stesso cardigan come una salsiccia in un budello. Infatti lei aveva finito per abbandonare l'assemblea a metà, sbraitando contro tutti che avrebbe portato in giro per l'isola l'orco - cinghiale a costo di chiuderlo nel portabagagli dell'auto.
- Fiorellino! – percorreva il viale di casa al solito passo di carica quando il suono di quel nomignolo arrestò di colpo la sua marcia.
- Nenette ciao – sorrise all'anziana donna che sbucava appena da oltre la siepe. Il solito golfino marrone con piccole roselline rosse ricamate sopra, che tanto le piaceva, le faceva da sciarpa, deposto tra collo e schiena. Non era sorpresa che si trattasse di lei, solo le tre comari la chiamavano in quel modo, ormai.
- È uscito di corsa sbattendo la porta – spiegò la donna agitando un braccio mentre lei la guardava perplessa. Il vento le spostava con forza le ciocche corte, riccioline e grigie dei capelli.
- Chi? –
- Ha persino spaventato Patrick che ora si è rintanato in casa – sistemò una manica del golfino che le era scivolata giù dalla spalla. Alluene cercò d'istinto la capretta nel giardino della vicina, cercando di spremersi le meningi per dedurre alla svelta di chi stesse parlando.
- Ma...Oh – improvvisamente una lampadina si accese nel cervello. Oh no. Per un attimo le parve più allettante tornare in albergo a farsi massacrare da Tom e i suoi lavori forzati piuttosto che affrontare Harry Staiden. Rettificava tutto ciò che aveva pensato prima, la parte più difficile della giornata doveva ancora arrivare.
- Si, il neiorkese – confermò la donna, la dentiera traballò nella pronuncia sgangherata e Alluene rischiò di scoppiarle a ridere in faccia in maniera poco carina – Ero alla finestra, l'ho visto uscire diverse ore fa, sembrava davvero arrabbiato – che novità, pensò lei rassegnata.
- Sarà andato a stemperare i bollenti spiriti – minimizzò lei quasi sollevata di non trovarlo a casa. Ma l'espressione cupa della donna la mise in allerta.
- Dovrebbe sbrigarsi a tornare, è in arrivo la tempesta – Nenette fece roteare l'indice verso l'alto come se fosse stata una maga in procinto di fare un incantesimo. Nel cielo le nubi si contraevano sotto le forti folate di vento. Un brivido si infilò sotto la giacca a vento e lei si strinse nelle spalle per evitare di tremare.
- Quale? – domandò ingenua, sfregando le mani sulle braccia. L'anziana donna allora la guardò sbigottita.
- Ma quella del 21 ottobre! – Alluene spalancò gli occhi, la testa prese a girare e la sensazione di sconforto si fece più elettrica che mai. Erano già al 21 ottobre, che disastro!
- Kadossène! – strillò prendendo un palmo contro la fronte - L'avevo completamente dimenticata – e ciò aveva dell'incredibile perché ogni anno, alla fine dell'assemblea, Tyler ordinava a tutti di restare nelle proprie abitazioni quella notte, ripetendolo almeno dieci volte di fila prima di liberarli.
Era sacra la notte di Kadossène, e loro la onoravano in un ritiro quasi mistico, lasciando che la tempesta più misteriosa e spaventosa di tutta l'isola placasse la sua furia indisturbata.
- Non hai visto il mare? – il leggero rimproverò di Nenette le risuonò nelle orecchie. Guardare il mare era la prima cosa che i tibulani erano abituati a fare non appena svegli – L'onda lunga sta crescendo e con il calare del sole infurierà tutta la forza del mare e del vento – professò solenne la donna mentre lei venne avvolta da una catena di apprensione.
Ottimo. Ora doveva anche andare a recuperare l'idiota prima che la tempesta lo spazzasse via.
Harry
Aveva fissato il soffitto per una quantità esagerata di tempo, prima di addormentarsi. Ciò che era più ridicolo era essere chiuso in una prigione che sembrava la stanza di una bambina di cinque anni. Il letto era corto, le lenzuola rosa a pois scoloriti, il cuscino scomodo e flaccido ed era rimasto a fissare con severo disgusto per troppo tempo la coperta lilla con uno strano pesce rosa in tutù disegnato sopra.
Eppure lui rimase immobile su quel letto per un tempo indefinito. Si era accorto che stava per albeggiare solo quando la luce ovattata era penetrata oltre la piccola finestra ad arco, svegliandolo da un sonno talmente leggero che a stento ricordava di aver dormito.
Perché quello che lo accoglieva era sempre un sonno misero e senza sogni.
***
Aveva aspettato che la selvaggia uscisse di casa, in tarda mattinata, prendendosela comoda come tutti quegli scansafatiche, per fare frettolosamente le valigie. Non voleva restare un giorno di più in quel dannato posto.
Ma suo padre aveva bisogno di qualcosa di concreto e così, aveva spedito in fretta e furia una mail con una relazione dettagliata direttamente al genitore, con tanto di qualche foto a corredo. Doug Staiden non avrebbe avuto più scuse per tenerlo lì e lui era saturo di quelle persone. Doveva andarsene, aveva sopportato anche troppo.
Per uno come lui, capace di risucchiare qualsiasi emozione in quel limbo di perenne apatia in cui viveva, essere portato allo stremo era una novità che tangeva l'esasperazione.
Da quando aveva messo piede su quell'isola, il vecchio grassone l'aveva irritato di chiacchiericci inutili, il posto che doveva ospitarlo gli provocava continuamente attacchi di claustrofobia. E poi lei, lei come una musicista esperta, non aveva fatto altro che pizzicare i filamenti arrugginiti delle sue sensazioni.
Da quando era arrivato non aveva fatto altro che provocarlo, arrotolava tra le dita i suoi limiti, le sue barriere di cui certe volte stentava a riconoscerne i confini, portandolo sempre troppo vicino alla rabbia, sempre troppo cosciente di riconoscere il contrarsi dei muscoli, le vene chiuse al cervello che non facevano passare il sangue, l'oppressione schiacciare le ossa come segnali di qualcosa che andava ben oltre l'apatia.
Perché lei sembrava sempre sapere che corde smuovere per renderlo così succube dell'emotività. Sapeva cosa gli era capitato e lo stava sfruttando per il proprio tornaconto. A Harry non importava che lei conoscesse o meno la sua storia, ma non si sarebbe fatto manipolare come un idiota.
Ma quando suo padre aveva liquidato la sua speranza di fuga con un veloce: "resterai lì fino alla scadenza dell'accordo", lui l'aveva sentita, l'aveva sentita eccome la profonda delusione attorcigliarsi intorno al petto. L'aveva sentita tramutarsi in viscerale insoddisfazione e non riuscì ad ignorare il grido sofferente di una vita fatta di disfatte che ululava disperata nelle sue viscere.
Era la sua vita quella che gli si accartocciava nei muscoli, era un'ombra pallida e senza contorno. Era la cenere di una pergamena bruciata il cui fuoco però, non si era spento, ardeva e consumava ancora. E faceva male, dannazione. Quelle fiamme erano insaziabili, le aveva dentro forse da prima dell'incidente e non esisteva acqua che potesse spegnerle. Era abituato però a conviverci, tanto che spesso non si rendeva neanche conto di bruciare.
Ma non quella volta.
Quella volta faceva talmente male che dovette sedersi sul letto. Chiuse gli occhi. Il bagaglio poggiato sul materasso si riversò a terra, eppure il rumore sordo di un corpo che cadeva sembrava così lontano da non appartenergli.
Non voleva stare lì, invece suo padre sembrava divertirsi nel tormentarlo, nel segregarlo dove non poteva dargli preoccupazioni. Ispirò con forza, ma ogni respiro era uno spasmo di aria inquinata da infinite lame che gli puntellavano la gola. L'inquietudine, il fallimento erano una bomba che gli risiedeva nel petto, troppo pericolosa da contenere, da emarginare.
Alzò la testa di colpo, l'aria che cominciava a farsi pesante, la vista ovattata mentre gli occhi roteavano tra le pareti di quella stanza che non era sua, che non era nulla per lui se non l'ennesima condanna, l'ennesima prigione. La camera vorticò intorno a lui nell'esatto istante in cui il fuoco gli divampò tra gli organi, bruciando ogni lucidità. Sentire, sentiva tutto, percepiva ogni particella dell'organismo incrinarsi, flettersi a quel dolore lancinante. Era una bestia fatta di mille braccia che lo soffocava, lo stringeva, lo puniva. Bruciava. Non aveva neanche un passato, un ricordo in cui rifugiarsi.
Ed era troppo, era solo troppo.
***
Il vento gli sbatteva in faccia, percuoteva le guance come tanti schiaffi ben piazzati ma lassù aveva trovato un posto scavato per lui, che lo strappava del mondo circostante per mostrargli solo un infinito fatto di ignoto.
L'orizzonte era una tela di colori disuguali, mischiati dalla verve di un pittore scapestrato che, con il suo pennello di vento, si divertiva ad impiastrare l'ambiente.
Con la schiena che premeva contro la roccia, seduto in cima a quel muro dissestato, ad almeno quattro metri da quel suolo spoglio e calpestato di tracce invisibili, Harry assopì i suoi tormenti in quel marasma di consapevolezze nascoste e ricordi spenti. Come se quella bufera avesse potuto cristallizzare un po' dei suoi malesseri. E, per la prima volta dopo tanto tempo, si sentì accolto tra le mani del vento che lo spingevano verso una follia che, per certi versi, condivideva.
Cos'era infondo la vita se non una massa informe disegnata dalla natura. Era l'uomo che ne tracciava una storia, imparava a leggerla, a distinguerla secondo la sua personale visione.
Per lui invece, non era più nulla, solo un ammasso senza senso e logica nel quale amalgamarsi o sparire per sempre.
- Si può sapere cosa ci fai lassù? – la pace forzata che si era imposto barcollò quando le fila di quel vento tiranno condussero quella voce alle sue orecchie. Sospirò prima di risponderle, stanco, svogliato.
- Fingo di non essere qui – lo bisbigliò piano, con una vena confidenziale che sapeva di disperazione e onestà. Ma la verità non era semplice. Era la punta di una piramide, piccola e delineata se vista dall'alto, ma immensa, massiccia e spaventosa se inquadrata fin dalle fondamenta, dove nasceva. Il fulcro della sua verità era scoperchiato, desolante e così oscuro da temerla persino lui stesso.
- Tra un po' finirai in Alaska e il tuo desiderio verrà esaudito! – Harry passò la lingua sulle labbra aggrinzite dall'aria di bufera, lasciando che l'ironia della selvaggia volasse via consumata dalla velocità del vento che sbaragliava le foglie secche, così come aveva inglobato la sua stessa collera – Sta arrivando una tempesta dobbiamo rientrare – la sua insistenza era ridicola, rifletté Harry accomodandosi meglio quando una folata troppo decisa stava per fargli perdere l'equilibrio – Insomma vuoi scendere o devo venirti a prendere? – l'inflessione acuta quella volta gli sbattè addosso trafiggendo la sua patina di apparente quiete.
- Vattene – sputò severo, risoluto, non un suono vacillò nella sua bocca. Voleva stare solo. Solo a trovare uno spazio per lui nella tempesta. Per nascondersi nella tempesta, nascondere verità, tormenti ed emotività.
- Forse non hai capito – eppure lei era ancora lì che lo pungolava con quel becco affilato, con quella lingua instancabile, tormentandolo fino allo sfinimento. E lui reagì, stavolta, agguantato da un istinto che non sapeva di possedere.
- Vattene via! – il suo urlo spezzò il vento che gli concesse una manciata di secondi solo per far risuonare tutto il disprezzo che era straripato oltre quell'ordine.
- Neanche per idea! – protestò lei senza recedere. Harry puntò lo sguardo verso terra, dove lei e tutti i pezzi strappati della sua vita lo stavano aspettando per condannarlo ancora. Perché, dannazione, perché non lasciarlo lì a farsi prendere a pugni dalle intemperie, sepolto dal caos della terra e della sua mente? Perché doveva riportarlo in terra dove i suoi fallimenti, le sue mancanze e la sua oscurità erano solo più grandi, più opprimenti, più terribili, più spaventose.
- Lasciami in pace –
Alluene
Si era dovuta mantenere lontana di qualche metro, per riuscire a vedere dove si era appollaiato quell'idiota, seduto sullo scalpo di un muro parzialmente distrutto del castello. Se ne stava lì placido, assorto come un pappagallo sul trespolo mentre intanto il vento si alzava e la tempesta incombeva sulle loro teste.
Una volta giunta proprio di fronte al muro di cinta, aveva sbraitato con furia le sue ovvie ragioni, ma quando aveva sentito il tono solitamente saldo della sua voce incrinarsi, lei aveva alzato gli occhi di scatto giusto il tempo di vedere la sua figura rannicchiata in quel lembo di muro, la cui distruzione era per lui un trono in cui sembrava aver trovato una triste accoglienza. Eppure non riuscì a soffermarsi troppo nella contemplazione, che un giramento di testa improvviso la costrinse ad appoggiarsi con entrambe le mani contro la pietra.
- Non fare l'imbecille, sta arrivando la tempesta – ripeté ancora, seria e allarmata. Una raffica di vento che quasi la spostò in avanti sembrò giungere a testimoniare le sue preoccupazioni – La sacra tempesta è al pari di un tifone, non puoi stare lì, rischi di cadere ammazzarti – e non si poteva profanare Kadossène, era la regola, ma arrotolò la lingua per evitare di stuzzicare l'indole ribelle del ragazzo, rivelando qualcosa di proibito che subito sarebbe diventato un'attrazione incontenibile. Si voltò verso il mare, che stava diventando sempre più feroce, prima di riprendere a fissare il muro come una stupida mentre lui, lassù non si degnava neanche di rispondere. Ma quella volta, il suo silenzio fu più dirompente di un frastuono. C'era una sofferenza così profonda, così oscura e viscerale che era inquantificabile – Ti prego vieni via di lì – gemette di preoccupazione in quel sussurro che le scivolò via dalla gola di slancio.
- Tu mi preghi – invece la voce del ragazzo era rotta, distrutta, oscura quanto l'abisso in cui era finito – Ma io non sono Dio – quel suono le entrò dentro, appuntito, tagliente, viscerale. Petrolio che si espandeva nell'oceano, avvelenandolo. Lui era il diavolo, e supplicarlo era già abbastanza umiliante – E non ho niente per cui pregare –
- Hai la tua vita – Alluene si pentì di aver replicato, tanto per lui il riscatto era un linguaggio che non riusciva ancora a capire – E tra un po' avrai sulla coscienza la mia di vita, perché se non scendi subito vengo a prenderti io – quella minaccia le causò un fremito perché in realtà era terrorizzata all'idea di tentare di raggiungerlo. Si sarebbe rotta l'osso del collo di certo. Quella consapevolezza spezzò lo slancio di coraggio che velocemente l'abbandonò. Ma lui ancora una volta non si scompose nel concederle qualcosa di più oltre al suo sprezzante e smisurato silenzio. Alluene ondeggiò spazientita. Sapeva che non doveva esser facile per lui vivere senza una parte dei suoi ricordi, ma quello era davvero troppo. Sembrava sguazzarci beatamente in quel pantano di depressione - Ok, l'hai voluto tu – decretò risoluta, di nuovo carica. Lei, che non era abituata a commiserarsi, che non era abituata a pensare troppo al passato, solo per poter sopravvivere nella speranza di trovare un futuro migliore, non sarebbe stata a guardare mentre quel cretino rifiutava i salvataggi e restava ad affogare.
Scalare un muro mezzo disastrato di un castello non doveva certo essere una passeggiata, ma se ci era riuscito lui...
Fletté le ginocchia come per darsi la spinta necessaria, poi si attaccò con le mani alle protuberanze del muro e con un lungo respiro, iniziò la sua scalata. Il corpo tremava ad ogni movimento, i muscoli si tendevano ad ogni spostamento - Ci sono quasi! – biascicò con la gola secca per la fatica immane. Per lei il massimo slancio sportivo era dato da qualche sessione di balli di gruppo con Odin, scalare un muro del castello non era mai stato contemplato neanche nei sogni. Rimase appesa, attaccata al muro immobile come una patella per qualche secondo, mentre cercava di prendere fiato – Manca poco vero? – supplicò segretamente che la risposta fosse affermativa perché lei non sapeva già più come muoversi. Liberò un urlo sguaiato quando un piede le scivolò penzolando in aria.
Il vuoto di una caduta libera la stava inglobando e lei fluttuò per qualche istante nella culla del vento per la frazione di un secondo, fin quando non atterrò in piedi sul terreno. Alluene tornò a fissare il muro perplessa. Non aveva scalato neanche mezzo metro, come aveva fatto quel cretino a...
- Va bene, smettila – il soggetto in questione scese con un balzo felino mentre lei ancora cercava di comprendere come fosse riuscito a salire. Harry Staiden le apparve davanti al viso sotto il suo sguardo esterrefatto. Chi era Spiderman? – Non si può stare mai in pace in questo dannato posto – no, era sempre l'orco – cinghiale che si lamentava. Ma non si stufava mai di quel continuo brontolio. Almeno era sceso di lì risparmiandole un altro misero tentativo.
- Non stasera, andiamo – pronunciò sbrigativa e con un gesto istintivo e totalmente sregolato dalla ragione, provò a prenderlo per un polsino, ma lui schivò il suo movimento con prontezza.
- Non toccarmi – Alluene lo folgorò con un'occhiata assassina. Adesso faceva pure lo schizzinoso. Come se lei avesse davvero voluto toccarlo. Per carità.
- Allora muoviti! –
Correva quasi, si voltava solo di tanto in tanto per vedere se l'imbecille era ancora alle sue spalle, o in caso, scattare a recuperarlo ovunque volesse scappare. Che brutta fine, pensò affranta. Fare la babysitter a quel bietolone, bellissimo senza dubbio, ma pure scemo.
Il vento era talmente feroce che doveva fare forza sui muscoli per andare avanti e i suoi acciacchi cominciavano a farsi sentire. Cercò di affrettare il passo nonostante i primi dolori ma, una volta giunta sulla via di casa, udì la sua vicina chiamare a gran voce.
- Nenette, che succede? – Alluene gonfiò il petto ingrossando la voce affinchè riuscisse a sentirla. La donna, ferma sulla soglia della porta della sua casa, quando la vide avvicinarsi, prese a sbracciarsi.
- Fiorellino, ferma Patrick! – in quell'esatto momento la capretta saltò con un balzo la staccionata che divideva il giardino della proprietà dalla strada, correndo come impazzita a zig zag verso di loro.
- Oddio! – Alluene si lanciò verso Patrick allargando le braccia per bloccarlo.
- Ci penso io – prima di realizzare a chi davvero appartenesse quella voce, con uno scatto Harry si mise in mezzo tra lei e l'animale imbizzarrito, afferrando la capretta agilmente tra le braccia, prima di riconsegnarla alla padrona sotto il suo sguardo attonito.
Alluene lo seguì fino davanti alla porta, soffermandosi su come il ragazzo accarezzava il pelo della capretta in un modo lento, pacato, ipnotico e quel poveretto piano piano acquietava gli spasmi dei suoi muscoli, totalmente succube di quella magia. Nenette andò loro incontro fino a metà giardino sbandando di qua e di là dove la dirigevano le folate di maestrale. Era gracilina e bassa, troppi acciacchi e pochi muscoli per contrastare il vento che sembrava volerli spazzare via. La donna tese le braccia per riprendere quella capretta che ormai per lei, vedova e sola da anni, era diventata come un figlio. Un sorriso apprensivo sciolse la paura tirando le rughe del suo piccolo volto, mentre riprendeva ad accarezzare il pelo bianco della capretta, tranquillizzandola.
- Grazie infinite – i suoi occhi scuri brillarono di felicità, talmente tanto che le arrivò dentro, fino ad accelerare anche il suo di cuore – Ho temuto di averlo perso per sempre – sospirò la donna di sollievo. Patrick era scappato altre volte, in realtà, ma quasi alla stregua di un gatto, aveva sempre riconosciuto la sua casa tornando ogni volta. Ma Kadossène era particolarmente pericolosa e lui non era più così selvatico e in grado di proteggersi come gli altri animali.
Nonostante l'imprevedibile gesto altruista, l'orco cinghiale non sembrò per nulla toccato dalla commozione della donna, anzi si limitò a congedarsi in silenzio, la solita ombra scura a incupirgli lo sguardo. L'unica cosa che aveva di diverso erano i capelli che, per colpa delle folate accese di vento, fluttuavano a destra e sinistra, rimanendo spesso dritti verso l'alto, facendolo sembrare uno scienziato pazzo, che gli rimasero nella stessa posizione anche quando furono finalmente al riparo tra le mura di casa.
- Finalmente! – esclamò trafelata.
- Tanto allarmismo per un po' di vento – quasi non si stupì della sua frecciata.
- Questa è Kadossène – proferì ovvia e lui le rivolse uno sguardo perplesso, mai curioso, o interessato. I suoi occhi bellissimi erano due gemme vuote, rifrangevano le luci, ma dentro erano più vuoti di un abisso. Eppure non era sufficiente per trovare il buon senso di stare zitta – È una leggenda che affonda nella nascita di questo paese, sicuro ti interessi? – lui socchiuse la bellezza diabolica di quegli occhi in due fessure sottili, sembrava aver colto il messaggio vagamente acido nascosto dietro la domanda. E, come sempre, senza degnarla di risposta, la superò per imboccare le scale.
- Non mangi? – Alluene gli andò dietro, fermandosi poi al primo gradino, come se una forza interna le impedisse di salirlo, di seguire lui ancora.
- Non sono affari tuoi – invece l'orco cinghiale non si fece problemi a non voltarsi neppure mentre si affrettava a mettere una rampa di scale tra loro come se la sua vicinanza avesse potuto urtarlo.
- Guarda che qui non esiste Just Eat –
- Non mi interessa, non voglio mangiare con te – il ragazzo superò l'ultimo gradino immaginando di essersi lasciato alle spalle lei e quella misera conversazione.
- E perché, cosa sono io un mostro a tre teste? Un animale con la rogna che può contagiartela? - invece lei sbottò di colpo, lì, al centro del corridoio, accecata da una rabbia che le colorò anche il viso - Sono una persona, emerito idiota e gradirei essere trattata come tale! – sventagliò quella furia ad alta voce in preda alla frenesia della collera che le pompava nel sangue allo stesso ritmo con cui lei sbraitava in fondo alle scale. Lui era fermo in cima, dove si era fermato solo per osservare con totale menefreghismo il suo sfogo e questo la fece alterare ancora di più – Ti stavo invitando a mangiare qualcosa, non ti ho offerto escrementi o proposto lanciarti da una rupe, ma scusa se ho osato chiedere che le tue sacre chiappe si accomodassero in una delle sedie della mia cucina! –
- Sai... - lui increspò le labbra in una smorfia, sul punto di controbattere alla sua sfuriata, ma per una volta, non le interessavano proprio le cattiverie che stava per scucirsi da quell'intreccio di orgoglioso mutismo.
- Sai che c'è? Arrangiati! –
Il suono dei suoi passi rimbombava sul legno del pavimento mentre si dirigeva in cucina con la prepotenza di un toro impazzito. Fece il giro del tavolo con le braccia tese e le mani strette in un pugno, sentiva la pelle formicolare per la voglia di prenderlo a sberle, il fumo annebbiare il cervello tanto che quasi non si accorse della porta laterale della cucina che si aprì di colpo. Alluene sobbalzò per lo spavento e quando si affacciò verso la porta e intravide una figura bassa e tondeggiante, totalmente ricoperta di nero e con un velo dello stesso colore sulla testa, lanciò un urlo a pieni polmoni che per poco non spaccò tutti i vetri della casa.
- Oooh! Fiorellino smettila sono io! – la voce di quella specie di spirito maligno era femminile ma roca ed energica e sovrastò il suo urlo disumano prima di togliersi il velo dalla testa – Per chi mi hai preso per s'acabbu? -
- Rose – biasciò lei senza fiato accasciandosi esanime contro il bancone della cucina. Quasi non aveva più voce, i respiri erano un rantolo contro le costole bersagliate da un battito cardiaco che sembrava più un bombardamento atomico.
- Che diavolo succede? – saltò sul posto spalancando occhi e bocca prima di voltarsi verso il lato opposto della cucina. Per tutte le cime di rapa, ma era una persecuzione! Quella notte le sarebbe venuta una sincope. Alle sue spalle, ora era apparso il cinghiale, infastidito come suo solito.
- Ti ho portato gli ultimissimi fichi della vigna, so che ti piacciono tanto – disse l'anziana donna tirando fuori da quella specie di mantello scuro una scatola di allumino. Il cuore sembrò gonfiarsi tra gli strascichi dello spavento e l'improvvisa colata di affetto, tanto che i suoi occhi dovevano essersi tramutati in due giganti cuori in perfetto stile cartone animato non appena la donna aveva nominato la parola: fichi, ossia l'unica cosa che poteva tirarle su il morare il quel momento. Per dindirindina, si sarebbe tuffata nella polpa di fico. Rose gli portava sempre quando era di ritorno dalla sua vigna, un grande terreno appena fuori dal circuito di Tibula, dove la donna si divertiva ancora a coltivare qualche frutto o verdura. Lei era la sua dirimpettaia e, a differenza di Nenette, era alta e larga quanto una botte di vino. I capelli bianchi solitamente pettinati all'indietro e gonfi verso l'alto, quella sera erano attaccati alla testa, probabilmente schiacciati dal velo. Rose era famosa per la forza del suo vocione, la riconosceva chiunque quando chiamava qualcuno in mezzo alla piazza, per le strade o direttamente dal balcone della sua casa. Era una donna forte, perfettamente lucida, schietta e di poche smancerie. Ma era anche la donna che attraversava la strada nonostante la sua moltitudine di anni, in piena tempesta di vento, per portarle i fichi che tanto le piacevano. E questa per lei era la più grande dimostrazione di affetto.
- Non avresti dovuto uscire lo sai! – la sgridò lei, ma la donna la zittì con un semplice gesto della mano.
- Eh quando te li portavo? Quando marcivano? – replicò torva - Non ci sei mai, adesso per caso ho visto la luce e ho capito che eri in casa anche dalle urla – Rose si sporse da un lato per lanciare un'occhiata furtiva al newyorkese che ancora presenziava alle sue spalle.
- Grazie Rose – Alluene strinse la scatola che conteneva i preziosi fichi, guardandoli adorante prima di posarli sul bancone e Rose agitò ancora la mano in aria.
- Eh, ora vado –
- Ti accompagno – scattò lei superandola. Fortuna che aveva ancora la giacca addosso.
- No Fiorellino, non c'è bisogno eh – "eh" era un intercalare esclusivo che Rose utilizzava per dare enfasi ai suoi discorsi. Inoltre, a seconda di come allungava o calcava sulla vocale, il significato di quello che voleva cambiava sempre. Certe volte voleva dire: "figurati", altre: "muoviti", oppure: "lascia stare". Insomma era una donna di poche parole, ma si faceva capire meglio con quelle esclamazioni.
- L'accompagno io – se in un primo momento credette di non aver sentito bene, quando il ragazzo superò entrambe per aprire la porta alla donna in modo quasi galante, la sua mascella precipitò a terra mentre lei restava immobilizzata e incredula dietro di loro. L'orco cinghiale si era appena proposto di fare un gesto umano e altruista. Spontaneamente. Forse era per scroccare un fico.
- Eh beh, se mi porta lui – lo sguardo basito che rivolse a Rose non scalfì per nulla la donna mentre si aggrappava al braccio del ragazzo con una normalità che la lasciò di sasso. Era quasi offesa per giunta dalla tranquillità con cui aveva accettato.
- Andiamo tutti – così dicendo, si chiuse la porta in legno della cucina alle spalle.
Il vento era talmente forte che sembrava spingerli via. Rose camminava in mezzo e loro, che cercavano di ripararla dalle folate più violente, quelle che se non avesse usato tutta la forza che aveva, avrebbero cappottato a terra anche lei. Ma la sua anca cominciava a dolerle.
Nonostante avessero percorso solo pochi metri, camminare era diventato difficile, la gamba quasi non la sorreggeva più, e quando la vecchietta fu al sicuro in casa propria, e loro fecero dietro front, Alluene cominciò a rallentare alle spalle del ragazzo, lasciando che andasse avanti da solo.
Tanto lui non si sarebbe mai voltato a controllare che ci fosse.
- Che ti prende? – e invece... Lui girò il viso solo per un quarto, senza neanche concederle tutta la linea del profilo, ma rallentò la sua andatura.
- Niente, vai avanti – lo esortò, ma fu la volta che lui tornò indietro.
- Mi prendi in giro? – Harry era davanti a lei, poco distante, ma urlò come se fossero stati lontani anni luce, il vento che mangiava il suono rude della sua voce. Alluene strinse i denti sforzandosi di muoversi ancora, ma le forze di Kadossène premevano sulle sue debolezze fisiche e psicologiche spezzandola contro le sue raffiche feroci.
- Non ce la faccio – ammise in un soffio, la gola chiusa dalla stretta dell'orgoglio sofferente, prima di piegare le ginocchia e accovacciarsi a terra per riacquistare un po' di equilibrio.
La gamba destra non riusciva più a sostenere lo sforzo. Ma insieme alla sua gamba, crollarono anche gli scudi che aveva alzato intorno a sé per affrontarlo.
Lei, accasciata sulle gambe, in mezzo ad una strada deserte e percossa dalla bufera, era così piccola, così insignificante. Così fragile in confronto ad un titano come lui.
Qualcosa dentro di lei si incrinò, i lacci che tenevano uniti i filamenti della personalità che aveva ricostruito nell'isola, sibilarono assottigliandosi e lei, per la prima volta da quando lui era arrivato a Sandália, non riuscì a reggere il suo sguardo. Non riuscì a mostrarsi forte se persino il suo animo era avvolto nella debolezza, sintomo che la quiete che aveva raggiunto in quel lasso di tempo, era solo precaria.
Vinta da un guerriero invisibile, abbassò gli occhi verso terra, poggiando i palmi contro il suolo. Il vento oscillava intorno a loro, lo sentiva stridere, urlare, oscurando persino il battito frenetico e scottante del cuore.
Non voleva farsi vedere così, non da lui, che invece di aspettarla in casa, restava davanti a lei immobile, che se non fosse stato per il vento che gli sbrindellava capelli e vestiti, ne sembrava persino immune.
E lei si chiuse nella scusa di non poter alzare lo sguardo verso l'alto, solo per non scendere a patti anche con quella sconfitta, quella di non riuscire a sostenere i suoi occhi.
Sarebbe rimasta lì immobile, inginocchiata dai suoi più terribili tormenti, se il mondo ad un certo punto non si fosse cappottato sottosopra.
Un moto di follia, una ribellione che danzava contro il vento degli eventi, così poteva essere considerata la scintilla che accese quell'istante.
Con il suono, la percezione e i movimenti ovattati, si rese conto solo una volta a testa in giù, che lui l'aveva presa di peso e caricata sulla spalla, avvolgendo un braccio intorno alle sue gambe, proprio sotto al sedere – Ehi! Lasciami subito! – Alluene prese ad agitare gambe e braccia, il vento e lo stomaco sottosopra le bloccarono il respiro. La sua vicinanza era offensiva, letale. Per di più, la giacca a vento si spostò verso l'alto liberando lo strappo della stoffa intorno allo squarcio proprio sotto la natica che si tese, aprendosi ancora.
- Stai buona! – protestò lui seccato come al solito. Bel cavaliere, pensò amareggiata. Non bastava il fastidio di quel contatto, ma almeno poteva prenderla in braccio dal verso giusto, non caricandola come un sacco di patate e a testa sotto. Tra l'altro, stava per scivolare giù dalla sua spalla, quando lui per riposizionarla la spinse con l'altra mano sfiorandole una natica. Alluene avvampò di colpo, come se si fosse trovata sotto il deserto più torrido e non in mezzo ad una bufera di vento.
- Non toccarmi, pervertito! –
- Smetti di agiarti – lui controllò che la porticina della cucina fosse chiusa prima di farla atterrare con poco garbo su una sedia della cucina.
- Aio! Che modi! – lo guardò in cagnesco e lui fece altrettanto.
- La prossima volta ti lascio lì – ringhiò seccato e perentorio come al solito, ma la sua espressione di totale disappunto si sposava male con il ritorno della capigliatura da scienziato pazzo che lo rendeva incredibilmente buffo. Alluene strinse le labbra tra loro per cercare un contegno, ma la risata le sfuggì con forza proprio contro la sua faccia che impallidì di colpo, i suoi occhi saettarono su di lei come se fosse impazzita di colpo. Intanto lei continuava a ridere a crepapelle, tenendosi la pancia che cominciava a dolere sotto la forza delle sue risate – Che cavolo ridi –
- Guardati – riuscì solo a dire affannata. Ma lui non le diede soddisfazione, limitandosi ad inarcare un sopracciglio verso l'alto.
- Ti sei vista tu? –
- Meglio di no – ammise cercando di pettinarsi le ciocche intorno al viso con le dita mentre lui faceva altrettanto specchiandosi sul riflesso del vetro della porta. Alluene strinse un labbro tra i denti quando si sfiorò l'anca malmessa con la mano. Avrebbe dovuto ringraziarlo. Quel pensiero le inondò la mente e gli istinti, ma c'era un antico sintomo di vendetta che le impediva di esprimere gratitudine verso di lui. Sopravvivenza, la chiamava la sua coscienza, quella vocina statica che le ricordava perennemente di non farsi mai vedere debole dal nemico, poiché si sarebbe nutrito e rinforzato dai suoi malesseri.
Invece lui l'aveva aiutata. Quello era stato un imprevisto che la lasciava ancora sulle spine. Ed era stato talmente veloce, bruco e animalesco che non aveva nemmeno conservato gli strascichi del fastidio che solitamente le provocava toccarlo. Si schiarì la voce introducendo il discorso che ancora non aveva il coraggio di fare – Allora, ti è venuta fame? – quel tentativo era più di un ringraziamento. E lui lo sapeva. Rimase in silenzio, fermo di schiena ancora davanti al vetro su cui si stava specchiando. Il riflesso era oscurato, la parte frontale delle sue sembianze le era celata dal retro, da quella schiena ricurva dove invisibili si nascondevano le cicatrici delle ali della memoria che gli era stata strappata. Proprio quando era sul punto di rinunciare persino a pretendere una risposta, la sua voce affilata la congelò sul posto.
- Solo per stasera – pronunciò roco, un suono abissale che a lei giunse limpido e del tutto inaspettato. Era sempre lapidario lui, di poche parole e, anzi, se poteva, tagliava quelle superflue. Ma a lei bastò, per quella sera.
- Domani il vento avrà già spazzato via tutto – voleva una conferma lui, Alluene lo comprese nitidamente da come le sue verdi iridi le volarono addosso sancendo nella loro profonda oscurità un patto silenzioso.
E infatti, lui si tolse la giacca, poggiandola sullo schienale di una sedia in legno.
- Sai cucinare? – le domandò diretto, senza protendersi in ulteriori fronzoli. Alluene scosse la testa in negazione, ma si affrettò ad interrompere ogni possibile lamentela – Ma sono attrezzata – zompettò su un piede solo fino al grosso freezer da ristorante che aveva ereditato con gioia dalla trattoria di Joseph quando loro avevano deciso di comprarne uno più moderno. Era una specie di grossa lavatrice con apertura in alto, dove lei puntualmente si infilava, con quasi metà busto dentro, per frugare tra le sue scorte infinite di cibo congelato che consentivano la sua sopravvivenza - Ti propongo un piatto tipico: la supfa – tirò fuori una teglia sigillata di una pietanza precotta che lui guardò con sospetto, il sopracciglio famoso sempre puntato verso l'alto.
- Che roba è? –
- La chiamano "zuppa nascosta", era un piatto povero, solitamente fatto con gli avanzi come pane, formaggio e brodo – lo sguardo del ragazzo si fece più scettico, possibilmente.
- Basta che non mi avveleni – si mostrò arrendevole, seppur prudente. Alluene piegò le labbra in un leggero ghigno.
- Mi servi ancora vivo –
- Tu vivi così? Con cibo congelato? – il newyorkese la fissò a braccia conserte, poggiato contro il bancone e per la prima volta la sua domanda non suonò come un'accusa, ma come la più semplice e limpida delle curiosità. Quella sensazione di quiete apparente fertilizzò in lei una scossa di buon umore, nonostante la tempesta, nonostante le vicissitudini, nonostante la sua anca compromessa e il futuro incerto.
- Oh si, a destra il dolce, sinistra il salato e in mezzo le verdure – commentò con soddisfazione il suo ordine maniacale nella conservazione del cibo congelato.
- Il frigo lo tieni come optional? –
- Per la frutta, latte e formaggio – come se non avesse creduto alle sue parole, Harry aprì lo sportello e davanti a lui apparvero una serie di scaffali freddi e tristemente vuoti.
- È praticamente vuoto – l'amarezza di quella constatazione le scivolò addosso. Fortuna che compensava con il freezer sempre pieno.
- Vuoi anche patatine fritte? – chiese tirando fuori una busta congelata nuova di zecca – Tanto facciamo tutto al forno – Alluene inforcò nella mano libera la busta di patatine e iniziò a saltellare diretta verso il bancone dove lui era di nuovo appoggiato. Ma non fece troppa strada, che lui le andò incontro, strappandole di mano le vivande con poco garbo.
- Lascia, faccio io –
- Non c'è bisogno – balbettò per lo sgomento, del tutto impreparata a quella proposta.
- Non sei stabile, stai seduta e non intralciarmi –
- Non conosci questa cucina –
- So ancora come si usa un forno – il riferimento velato e tagliente alla sua condizione la colse impreparata come una scarica elettrica. Avrebbe voluto dire qualcosa, una qualche frase ad effetto di quelle che avrebbero potuto freddare l'oratore più preparato della storia e invece rimase in silenzio. La lingua era come congelata e il cervello bloccato. Tanto lui ci sguazzava nel silenzio, pensò con un filo di tensione che si arrotolava intorno alla calma del momento.
Perciò si sedette, non provò a farlo desistere, tanto che lui era già riuscito ad accendere il forno e aveva già sistemato le teglie. Non aveva domandato o chiesto spiegazioni. Era chiaro che non fosse neanche lontanamente interessato alle sue condizioni fisiche o psichiche o di qualunque tipo e, per una volta, ne fu quasi grata, oltre che per aver permesso a lei di non sforzarsi. Un vortice le scosse lo stomaco ricordandole che era solo apparenza. Harry Staiden non era un inquilino del college con il quale poteva dividere qualche pasto ogni tanto in modo benevolo. Erano nella stessa stanza eppure era sempre più nitido ed evidente quel confine invalicabile che non permetteva loro di avvicinarsi troppo. E per lei era meglio così – Allora cos'ha questa tempesta di particolare? – Alluene tossicchiò strozzandosi con la saliva andata di traverso mentre lui ignorava senza fatica il suo stupore, sedendosi di fronte a lei dall'altro lato del tavolo, in attesa. Stentò a credere alle sue orecchie, forse le era andato il sangue al cervello, forse il vento le aveva fatto saltare gli otoliti, perché quello le pareva tanto un segnale di inizio conversazione. Lo sgomento iniziale si solidificò in una patina di misera soddisfazione che le ricordava il vero motivo per cui doveva tenersi stretto il newyorkese. L'isola. E nonostante tutto non si trattenne dal punzecchiarlo, gustandosi una leggera frecciata.
- Niente che tu reputi interessante – miagolò sorniona, ma pungente, scrutando la sua espressione che non si smosse di un millimetro. Non un cedimento, non una vena fuori posto. Niente. Era devastate quanto quel ragazzo potesse essere tutto e niente allo stesso tempo. Tutto per l'isola, per gli abitanti, per il loro futuro; niente per se stesso: niente ricordi, niente emotività.
- Muori dalla voglia di raccontarlo – ma al contrario di lei, Harry sapeva quali tasti toccare. Così non se lo fece ripetere due volte e partì con una valanga di parole sfornate a raffica una dietro l'altra prima che lui avesse potuto pentirsi della domanda.
- Si dice che questo paese fu fondato almeno 400 anni fa, quando una regina dispersa in piena notte, su una nave in mezzo al mare in tempesta, non supplicò la Santa Madre di salvarla – Alluene calò un tono più studiato, il più accattivante che riuscisse a vestire – Proprio quando stava per perdere le speranze, convinta di non aver scampo, la ciurma scorse un'insenatura, un riparo. Giunta a terra sana e salva, la regina, per ringraziare la Santa Madre, decise di fondare un paese: Tibula – sorrise di slancio, la voce di sua nonna che rimbombava nelle orecchie come se fosse stata lei stessa a raccontare. Come se fosse stata la sua voce. Sua nonna non aveva bisogno del corso per doppiatori che aveva fatto lei per hobby, per far risaltare un qualsiasi racconto o storia, rendendolo affascinante – La chiamano Kadossène perché in greco vuol dire Madre Santa e ogni anno, il giorno 21 di ottobre, ossia il giorno della fondazione di Tibula, il vento monta come una macchina da corsa, il mare si infuria su questa parte dell'isola. Gli abitanti più anziani la considerano un segno della presenza divina e si chiudono in casa per non dissacrarla, per non sfidarla – Alluene puntò i suoi occhi senza pretese, immaginando che non le avesse prestato attenzione, ma quando alzò lo sguardo trovò il suo ad attenderla, come se avesse immaginato che sarebbe arrivata ad accertarsi.
Il cruccio torvo tra le sopracciglia era appena meno evidente e i suoi occhi erano lucenti e vivi che quasi la invitarono a perdersi in tanta diabolica bellezza. Il respiro si affievolì nella gola, mentre si concedeva una pausa per osservarlo ancora.
Lui stava seguendo, forse per noia, forse disinteressato, ma fu allora che percepì uno stralcio di tregua.
Grazie, Kadossène - Ma ci piace anche pensare che questa tempesta sia un inno alla fede e alla speranza, che tutto alla fine vada per il meglio -
Spazio Ila 🐿
Vogliamo parlare di Harry con la capretta??
O quante di noi vorremmo essere al posto di quella tenera bestiola? Eheh!
Direi che come immagine di inizio capitolo non poteva essere più azzeccata!
Ma, tornando serie, questo capitolo è molto importante per tanti motivi che presto (o tardi -sadica ehehe-) scoprirete!
Spero che vi stiate affezionando a questi due citrulli, proprio come me ❤️
Vi ringrazio infinitamente di essere qui ❤️
Se potete, ricordate la stellinaaaa ⭐️
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