1. Argyròphleps nesos - l'isola dalle vene d'argento
"Siamo proprio come le canne al vento.
Siamo canne, e la sorte è il vento."
Alluene
Ce la posso fare. Ce la posso fare.
Non ce la poteva fare.
- La vuoi finire? – fu l'ennesimo inutile richiamo del suo amico mentre lei continuava a camminare avanti e indietro per quegli spazi semi abbandonati che un tempo avevano ospitato la hall del piccolo hotel fronte mare.
Era un edificio su due livelli dall'impronta semplice, fatta di grandi arcate all'ingresso e poche camere per dare all'ambiente un'aria esclusiva e familiare. Il Mirage era stato l'albergo più affascinante di tutta Tibula, una fonte di ottimi guadagni e il luogo perfetto per il soggiorno di una clientela ricercata. Fino alla banca rotta e i dieci lunghi anni di decadimento che l'avevano visto trasformarsi in un rudere a cielo aperto, prima che venisse venduto all'asta.
La sua posizione conquistava un piccolo spazio pianeggiante alle spalle della spiaggia del paese, dove gli oleandri in fiore si abbracciavano, unendo le loro fitte fronde come le dita intrecciate di due amanti, per proteggere un breve sentiero scosceso che offriva un accesso privilegiato a quella piscina naturale dalla bellezza incantatrice - Mi stai facendo venire mal di mare – la protesta dell'amico giunse al suo orecchio come un vago e scherzoso appunto.
Odin riusciva a far sembrare divertente persino un insulto. Era la sua dote, era il ragazzo dal sorriso perpetuo. Ma quell'incrollabile ottimismo non riuscì a bloccare all'echeggiare sinistro dei suoi passi inquieti. Odin, in risposta ai suoi isterismi, quella mattina, eccitato per l'onore di accogliere l'ospite numero zero, aveva cominciato a lucidare il vecchio bancone in legno di mogano intarsiato della reception, salvato in extremis dal rogo in cui aveva minacciato di gettare tutto il resto del mobilio anni '60 ereditato dalla vecchia proprietà.
Da qualche mese infatti, il suo migliore amico aveva deciso di abbandonare la promettente carriera giuridica presso lo studio di famiglia, per dedicarsi al settore turistico con l'acquisto del Mirage – Quanti caffè hai bevuto? – Alluene storse il naso mentre osservava la cima del casco di riccioli corvini ondeggiare oltre l'angolo del bancone con lui che, accucciato per terra, ultimava le meticolose pulizie.
- Sai che non bevo caffè, mi innervosisce – come se non fosse già irrimediabilmente nervosa. Risistemò i capelli legandoli in una coda alta, quella sera si erano gonfiati talmente tanto da sembrare il gigantesco nido di un qualche uccello esotico. Solitamente non le davano grandi problemi, erano una folta massa fatta di onde, densa come il miele appena fatto, ma l'aria di mare li faceva ruotare in ampi boccoli.
- Beh, peggio di così – brontolò l'amico rivolgendole un'occhiata scettica. Era sempre stata molto trasparente per lui e di recente il loro rapporto si era trasformato in un legame di profondo affetto. Odin era il compagno d'infanzia con cui giocava sulla riva della spiaggia quando ancora i suoi genitori erano soliti trascorrere le vacanze estive sull'isola.
Si erano ritrovati qualche anno prima tramite Facebook e rivisti saltuariamente quando lui era capitato a New York. Ma da quando si era trasferita sull'isola, erano tornati ad essere gemelli siamesi come quando erano bambini.
- Staranno per arrivare – esalò lei un lamento carico di sconforto e rassegnazione. Trascinandosi per la hall come un carrarmato impazzito, era sicuramente arrivata a percorrere qualche chilometro a forza di andare avanti e indietro. Tutto pur di scaricare la tensione accumulata per quell'incontro.
Doveva essere preparata e invece non aveva chiuso occhio tutta la notte prima. Perciò, oltre a due occhiaie da far invidia a una mummia imbalsamata, non era sicura nemmeno che sarebbe riuscita a mantenere l'autocontrollo che si era imposta.
Si era trasferita sull'isola per sfuggire all'alta società di New York e ai newyorkesi dell'alta società, invece sembrava una maledizione che non riusciva a scrostarsi di dosso.
- Perché sei così agitata? – domandò Odin con una calma serafica che lei a stento riuscì a non invidiare. Lo invidiava eccome.
- Tu perché non lo sei? È il primo ospite che soggiornerà qui e questo posto deve ancora essere sistemato, manca tutto – allargò le braccia come se una rapida occhiata all'ambiente circostante fosse sufficiente per verificare la sua tesi.
La luce delle lampade in ottone, fissate ai muri, lampeggiò bloccando i loro movimenti e i loro pensieri fin quando non recuperò il suo equilibrio placido. Così deserto, quel luogo appariva ancora più tetro e dimenticato, le lampadine giallastre riempivano quegli spazi con il loro impregnante tepore. Oltre le vetrare ad arco della hall, il vento ululava inquieto e la notte sembrava ancora più oscura mentre divorava quei bagliori nella sua infinita, stagnante immensità.
Aveva investito anche lei in quel progetto, fiduciosa che il Mirage sarebbe tornato alla sua vecchia gloria un giorno, ma non così presto.
Gli operai avevano iniziato a rimodernare le tubature e sistemare i bagni con i nuovi sanitari, ristrutturare le mura e i pavimenti, ma il resto era un cantiere polveroso e deserto se non si contavano i mobili logori in vimini e legno e il bacone intarsiato color mogano che Odin curava come se si fosse trattato della sua prole, oltre a una serie di apparentemente insulsi dettagli. Si era intestardito con delle manopole per l'acqua fredda e calda decorate con dei pavoncelli color ottanio che aveva ordinato dalla Danimarca e che ancora attendeva con impazienza.
- Sciocchezze – lui agitò una mano in aria senza mostrare segni di cedimento al suo inspiegabile buon umore – Deve solo dormire, lo prenderò come una prova e una stanza è già pronta all'uso – Alluene sbattè le palpebre perplessa. Andava bene vedere il bicchiere mezzo pieno, ma in quel caso si trattava di allucinazioni. "Pronta all'uso" significava attrezzata all'ultimo minuto con mobili vintage arrabattati qua e là da qualche cittadino che non sapeva più cosa farsene.
- Vedila pure in questa maniera, ma Tyler ha praticamente scaricato tutta la responsabilità di questo progetto su di me – protestò sconsolata.
Come se non bastasse il problema più importante, quel pensiero si infilò nella mente prima che potesse avere il buon senso di evitarlo - Se va male, sarà solo colpa mia –
- Ami talmente tanto questa città e quest'isola che potresti convincere uno che ha paura di nuotare a tuffarsi dalla scogliera – lo sguardo amorevole dell'amico l'accarezzò con premura, avvolgendo con una coperta di coraggio le sue irrefrenabili insicurezze. Allora lei si abbandonò sul divano in vimini di fianco alla reception, lasciando le gambe penzoloni e tirando la stoffa dei jeans con i palmi.
L'intreccio consumato del mobile emise un lamento scricchiolante che provocò in entrambi un sussulto mentre Odin sgranava i grandi occhi scuri temendo che potesse spaccarsi in due sotto il suo esagerato slancio. Un lieve sorriso allentò la tensione nei muscoli del viso. Alluene avrebbe ridacchiato all'espressione di puro terrore dell'amico se non avesse avuto quel moto di incessante agitazione a contorcerle lo stomaco. Odin aveva ragione, lei amava così profondamente quell'isola che avrebbe smosso mari e monti pur di non lasciarla cadere nell'oblio, oscurata da luoghi elitari e inflazionati.
Ma, in quel caso, il risultato non era così scontato.
Era trascorso quasi un anno e mezzo da quando aveva chiuso la vita e i fantasmi del passato a New York per rivendicare le sue origini che l'avevano condotta lì. In un piccolo lembo di terra dalla forma allungata, dispersa tra le maree dell'Atlantico, a qualche chilometro dalla costa nord - orientale americana, in linea d'aria tra New York e Philadelphia.
Sandália era l'isola dove era nata e cresciuta sua nonna prima di sposarsi e trasferirsi nella Grande Mela.
Lei aveva fatto l'opposto, ma al contrario di sua nonna che aveva rinunciato alle origini per amore, lei aveva ripristinato il laccio con le sue vecchie radici, sradicandosi completamente dalla vita di città, genitori, amici, percorso di studi, per sfuggire dalla nube di fuliggine generate dalle ceneri di un amore distrutto.
Si era allontanata da tutto e tutti per cercare di rigenerarsi dalla lacerante delusione di un amore in cui invece aveva creduto fino a strabordare oltre i limiti della realtà, oltre i limiti che la mente umana avesse potuto tollerare.
Ma la realtà difficilmente trascendeva nella magia e la fine brusca e imprevista di quell'amore aveva finito per svuotarla da ogni tipo di speranza, persino di sogni.
Era volata sull'isola Sandália per fuggire ad un passato che sembrava confondersi con il presente senza che riuscisse a vedere una fine. Era tornata in quella terra che tanto aveva amato da bambina con nessuna pretesa se non quella di allontanarsi da tutto ciò che le ricordasse i suoi errori.
Era pronta a crollare in silenzio e solitudine, abbandonandosi alle braccia di quell'isola che l'aveva accolta con amorevole premura.
E poi qualcosa era cambiato.
Di quei luoghi non ricordava solo le bellezze naturali o le leggende incredibili che le aveva raccontato sua nonna quando era ancora in vita, ma sentiva il caldo palpitare della tenacia e del vigore radicato nelle radici che alimentavano quella terra.
Lo scorrere di un'identità scolpita nel tempo di una civiltà inginocchiata, dimenticata, ma che ancora viveva camminando a carpioni, strusciando le ginocchia a denti stretti come l'ultimo dei guerrieri in quell'umido e ricco suolo fatto di granito e tempesta. Fieri delle loro millenarie origini, fieri delle loro usanze, della loro lingua incomprensibile che trovava significato in leggende e arcaiche preghiere.
Era lo stesso sangue che ancora colmava il suo corpo.
Sandália era la carezza delle dune di sabbia, bianca come borotalco, era il bacio di acque lucenti e limpide come il cristallo.
L'isola dalle spine rocciose che salivano al cielo come montagne appuntite non era solo un lembo di terra scampato all'inferno di un mondo dominato dalle violenze.
Sandália era il tempo che si cristallizzava in magie e riti, era la volontà della natura che indirizzava le sue ultime forze per disegnare lagune, canyon, grotte dai poteri favolistici e dalla bellezza inimmaginabile.
Sandália era lo specchio dove si poteva osservare la Via Lattea nelle notti più limpide, dove le stelle più remote incontravano le rovine di antiche civiltà decadute, vestendole con il loro manto di luce.
Sandália era il profumo inebriante dei fiori gialli e delle foglie di fico, che trasportato dal vento lungo le scogliere ammaliava il suo popolo, la cui pelle era aggrinzita da una storia ancestrale e misteriosa, come il canto di una sirena che rapiva i suoi marinai per non lasciarli mai più andare.
Se n'era resa conto fin da quando era scesa dall'aereo con un bagaglio di sogni infranti, i resti di un cuore straziato e un dolore segreto insanabile, scoraggiata da presente e futuro.
E poi l'aveva sentito.
Il saluto dell'isola, l'abbraccio di una madre che raccoglie le lacrime di una figlia, sussurrandole parole di conforto e speranza.
Le era parso di sentire quel profumo intenso come se fosse stato davvero l'odore della pelle di una donna che si respirava quando si era avvolti da un abbraccio.
Aveva immaginato di udire nel suono accogliente e accorato del sussurro del vento un sostegno, come a volerle dire: "andrà tutto bene". Il richiamo speziato dei fiori, del mare e del vento l'aveva stregata fino all'ultimo miraggio di resistenza, fino a stringerla nelle sue radici tanto da riportarla lentamente in vita.
Era l'argento che scorreva nel tessuto tenace del suo sottosuolo per gli antichi Greci, era l'Atlantide perduta negli scritti di Platone, la Madre Santissima dei miracoli per i Fenici, il sandalo di Dio strappato alle furie di maremoti mitologici. Un'orma dai segni sovrannaturali.
Sandália era la forma iconica della vita.
Ed era riuscita a riportare in vita anche lei che, risorta dalle sue stesse ceneri, si era stabilita a Tibula, un piccolo paese che dominava, con la sua bianca spiaggia e i resti di un antico castello medievale alle spalle, le coste a nord dell'isola.
Era stata accolta con affetto da tutti gli abitanti che presto erano rimasti lusingati dal suo smisurato interesse per le sorti dell'isola e della città, che ormai sembravano dimenticate e abbandonate al loro destino. La difficoltà dei collegamenti con la costa americana, infatti, aveva reso sempre meno frequenti gli spostamenti in massa dei turisti e le bellezze nascoste dell'isola sembravano rimanere velate da una pesante ombra di oblio.
La distanza con la costa aveva reso sempre meno allettante gli spostamenti via nave e l'unico aeroporto disponibile era al sud, nella capitale Karalis che, con pochi e sicuri voli, a mala pena riusciva a mantenere una sufficiente massa di turismo per le aree circostanti, escludendo totalmente la restante parte dell'isola.
Gli spostamenti infatti erano scomodi, la ferrovia non era mai stata instaurata e le autostrade completamente assenti, ciò rendeva i tempi di percorrenza da un capo all'altro dell'isola tanto lunghi che sembravano bastare per scoraggiare qualunque turista ad affittare un'auto e addentrarsi alla scoperta delle meraviglie di quei territori che ancora conservavano gelosamente le loro arcaiche memorie.
Da poco però, il rappresentante della Flyventure Interprices, la più grande società che si occupava della gestione degli aeroporti in nord America, aveva magicamente deciso di dare una possibilità al vecchio e ormai caduto in disuso aeroporto di Claramontis, cittadina dell'entroterra localizzata ad una quarantina di minuti da Tibula.
Ripristinare l'aeroporto avrebbe significato un possibile intensificarsi del traffico turistico non solo per il nord dell'isola, ma per tutto il territorio circostante.
Sembrava la soluzione a tutti i loro problemi, ma nessuno aveva tenuto in considerazione lui.
Convincere un individuo la cui fama lo precedeva per il carattere freddo, scostante, completamente privo di emozioni, radicato alla concretezza, a lasciarsi incantare da fascino suadente di una terra che, di concreto, possedeva solo splendidi paesaggi e rovine, sembrava un'impresa destinata a fallire.
Le bellezze incantatrici di quella terra si celavano in leggende, racconti, tradizioni antiche che scavano nei meandri di uno spazio che varcava i cancelli dell'immaginazione. Tutte questioni a cui il testone non avrebbe dato il giusto significato, troppo concentrato nel trovare una spiegazione logica a tutto pur trovandosi nella patria dell'illogico.
Il suo compito era questo: convincere un giovane che credeva solo in ciò che gli si presentava davanti, a lasciarsi conquistare dallo spazio immaginario che rendeva le meraviglie di quei luoghi degli scenari unici e ineguagliabili.
Ergo: un suicidio.
Alluene sobbalzò dal divano, saltando sull'attenti come un soldato appena richiamato dal generale. Persino Odin scattò insieme a lei e, nella fretta, scagliò il piede contro il tanto amato mobile tanto forte da finire per emettere un ululato di dolore, alzare la gamba incriminata, stringersi la caviglia con entrambe le mani e saltellare sull'altra lamentandosi come un disperato.
Stava per raggiungerlo per assicurarsi della sua salute quando l'avvicinarsi repentino di voci e passi non la pietrificò sul posto. Il petto si alzava e abbassava sotto la spinta di un movimento meccanico di sopravvivenza nonostante l'aria sembrava inesistente, sparita di colpo mentre l'attesa, ridotta a poche briciole, si faceva insostenibile.
- Eccoci qui – riconobbe l'ondeggiare furtivo della lenta camminata di Tyler ancora prima che i due individui le apparissero davanti.
La figura tondeggiante dell'uomo, sindaco della città ormai da tempi criminali, apparve oltre l'ingresso. Criminali perché non rammentava altro personaggio che oltre lui avesse ricoperto quella carica nel corso degli anni. Lui ormai era diventato un'istituzione a cui nessuno osava recriminare nulla, nonostante le sue idee spesso retrograde. I cittadini preferivano ingannarlo con falsa accondiscendenza e divertirsi ad architettare progetti alle sue spalle. E il gioco andava avanti fin quando lui non se ne accorgeva.
Per questo quando lui aveva proposto l'idea geniale per ripristinare l'aeroporto ci Claramontis nessuno aveva mosso obiezioni. L'espressione perennemente crucciata era un tratto identificativo dell'uomo, insieme alla folta barba grigiastra che ornava le guance paffute.
Oltre l'aureola pelata al centro della sua testa, circondata da pochi superstiti isolati ciuffetti grigi, un'ombra scura alle sue spalle faceva risaltare ancora di più i contorni spelacchiati del suo cranio – Harry, posso chiamarti Harry? Sei così giovane – lo corteggiò melenso e fastidiosamente sdolcinato. Il ragazzo si spostò al suo fianco, esibendo un ghigno leggero che sembrava avere la vaga pretesa di imitare un sorriso consenziente – Questi ragazzi stanno rimettendo a nuovo l'albergo che un tempo era il nostro fiore all'occhiello – spiegava il sindaco settantenne accarezzando quei luoghi con una nostalgica malinconia.
Una sensazione di sconforto la colse impreparata tanto che dovette nascondere le dita nei pugni stringendo il suo tormento interiore come a volerlo contenere senza che contaminasse quell'apparenza di sterile indifferenza.
Respirare era diventato superfluo dal momento in cui si concentrava di sforzarsi di offuscare ogni emozione selvaggia, che le scuoteva le ossa, sotto la stessa imperturbabile espressione così facile da vestire per un newyorkese.
Lui, Harry Staiden appariva formale nel suo completo firmato, classico per trasmettere una certa autorità, giovanile nei risvolti più corti dei pantaloni e nelle scarpe sportive.
Le luci sibilavano tremando come imbarazzate nell'incunearsi in quella sagoma. Si infilavano timidamente nelle linee di quel volto quasi a volerlo osannare mentre emergeva dall'oscurità come se fosse stato lui stesso a illuminarla.
Le ombre che coprivano maldestramente le espressioni degli esseri umani, sembravano stemperarsi negli incavi mascolini del suo viso solo per inchinarsi a tanta bellezza. Nella freddezza di quei lineamenti che sembravano essere stati disegnati da una mente non umana, c'era tanta perfezione che avrebbe potuto far invidia al ritratto di una qualunque divinità pagana.
I capelli fluenti gli cadevano lungo il collo e, con le loro morbide onde color caffè, incorniciavano quel volto apatico. Gli zigomi appena sporgenti sembravano essere stati scolpiti da mani esperte, la mascella mascolina disseminata di un velo impercettibile di barba, le labbra segnate da un vezzo di disappunto strappavano la perfezione immacolata di quel merletto.
Alluene respirò inghiottendo un'aria che pizzicava la gola come le punte acuminate di un rastrello che setacciava la terra. Sarebbe stato facile rimanere a fissare per sempre il placido ondeggiare delle dolci acque di quelle verdi lagune che gli circondavano le pupille.
Ma erano una finzione, c'era qualcosa di oscuro, una maledizione perduta, dimenticata che si trascinava in un buio antico e desolato, spegnendo la luce che aveva avuto un tempo negli occhi.
Nascose con qualche passo avanti, vibrante di falsa sicurezza, il tremito di un sospiro. Lo sgocciolare di fiotti di acqua gelida su una pelle rovente come la sua in quel momento, poteva essere gradevole in confronto alla diabolica freddezza che si pietrificava nelle forme di un viso che incarnava una perfezione così spudorata.
Eppure, non avrebbe dovuto restare a fissare per troppo tempo l'audacia di quei verdi amuleti, o avrebbe rischiato di rimanere imprigionata nell'oscurità malvagia che tanta bellezza tentava di celare.
- Ti presento Odin Moon, il proprietario che riporterà questo posto al suo antico splendore – riprese Tyler risvegliandola da quella traditrice contemplazione e il ragazzo porse con falso garbo la mano al suo amico mentre guardava intorno a loro il decadimento ancora evidente in quella struttura, annoiato e disinteressato. Alluene aggrinzì le labbra per contenere a denti stretti tutto il suo sdegno, fissando con determinazione lo sguardo del ragazzo straripante di arroganza - E lei è A... -
- Elene – precisò lei bloccando Tyler lesta. I muscoli dell'intero corpo si irrigidirono e lei desiderò poter sotterrareil ritmo incalzante del suo battito, pur di non percepire quel costante agitarsi dentro il torace, quando quelle iridi smeraldine dal fascino diabolico caddero su di lei con altrettanto irruento menefreghismo.
Si umettò le labbra con un gesto veloce prima di tendergli la mano con una falsa disinvoltura volta a coprire il suo furtivo tremare – Sono Elene e sarò la sua guida – prese le distanze sotto quel finto garbo convinta di riuscire a sopportare la sua presenza. La sua vicinanza. Poteva farcela.
Ma quando lui afferrò la sua mano per ricambiare il saluto, il contatto con quella pelle, fredda quanto quella di un vampiro, che le solleticava i tessuti nella stretta delle sue dita tenaci, si trasformò in un tuono di agitazione che la travolse come una scarica improvvisa.
Non poteva farcela.
Una frizione interna le sconvolse gli organi e d'istinto strinse con maggior vigore la sua mano. E forse aveva azzardato troppa energia perché quello emise un leggero lamento, aggrottando le sopracciglia infastidito. Sciolsero la stretta e lei spalancò gli occhi imbarazzata mentre lui la fissava guardingo e riponeva entrambe le mani nelle tasche della giaccia.
Per tutti i formaggi ammuffiti, l'aveva stritolato!
- Elene ha una passione smisurata per quest'isola, conosce tutti i posti più belli ed è affascinata dalle storie più segrete – il sorriso di soddisfazione cui con Tyler l'aveva presentata era quasi commovente – Sono certo che le tre settimane pattuite saranno sufficienti per innamorarti anche tu di questo posto – concluse l'uomo tirandosi i lembi del gilet color kaki verso il torace. Era un movimento abitudinario che faceva nonostante fosse evidente che non riusciva a far combaciare i lembi a causa del panciotto che negli anni cresceva di centimetro in centimetro.
Alluene deglutì a vuoto sentendo la gola chiudersi e il respiro appesantirsi all'interno delle pareti della faringe. Ma non osò abbassare gli occhi.
Nascondi al demonio la tua debolezza o lui ne farà la sua forza.
- Non ho dubbi – soffiò lui guardingo e lei aggrottò le sopracciglia quando quel suono vagamente familiare andò ad incunearsi nell'udito.
La sua voce era la carezza di una creatura spaventosa che si nutriva di ombra e cresceva negli abissi. Era un sospiro roco e pungente, eccitante quanto una provocazione, inebriante quanto un veleno.
Il ragazzo riportò lo sguardo verso di lei sentendosi evidentemente osservato, rivolgendole un'occhiata stizzita che sembrava titubare dal chiedersi il motivo di tanta insistenza e seccarsi perché immaginava che fosse dovuto al suo aspetto particolarmente attraente.
Illuso.
Nonostante il suo tono fosse stato fastidiosamente ironico, Tyler li aveva salutati entusiasta, scaricando direttamente a lei il testimone rovente di quella staffetta, il cui premio erano le sorti della sua amata Sandália.
Aveva tirato un sospiro di sollievo quando Odin si era premurato di fare strada al nuovo ospite, lasciando che lei riprendesse fiato da sola alla reception. Sentiva la voce squillante dell'amico raggiungerla fin dal piano di sopra insieme al silenzio impolverato dell'ospite che stentava a proferire parole.
Non era molto loquace.
Alluene si sforzò di rilassare i muscoli, ma sentiva ancora l'intero corpo in subbuglio. Sapeva che personaggi come Harry Staiden avevano il potere di soggiogare le persone con la sola prepotenza della loro presenza e, sebbene si fosse imposta di restare vigile e attenta a non mostrare segni di cedimento, dentro le ossa il vento di quell'uragano era tornato a distruggere ogni certezza.
Aveva chiuso gli occhi per concedersi il lusso di un lungo sospiro dopo quegli interminabili minuti vissuti in apnea, appoggiandosi con le braccia al bancone.
Era già esausta ed era solo l'inizio.
Lo scricchiolare sinistro delle scale si accentuò sotto i passi veloci dell'amico. La sua attenzione venne catturata dagli squittii acuti della sua risata soffocata dalla mano che gli copriva la bocca.
- Dodo, che succede? – gli domandò confusa mentre lui continuava a sghignazzare incapace di trattenersi. Gli stavano diventando le orecchie color rosso peperone, come accadeva ogni volta che trovava qualcosa che lo facesse particolarmente divertire. Lui aveva piegato la schiena in avanti senza dire una parola e poi le aveva sventolato davanti al naso un oggetto che lei dovette osservare per qualche secondo prima di poterlo riconoscere.
- Mi è rimasta in mano – biascicò a fatica mentre stava per morire soffocato dalle risate, riferendosi all'oggetto in bronzo dalla forma ondulata che culminava con un ricciolo, che formava la maniglia di una delle porte delle camere. Alluene sgranò gli occhi afferrando il braccio dell'amico per bloccare il suo ipnotico ondeggiare.
- L'hai chiuso dentro? – lui annuì con il viso ormai paonazzo, tornando a coprirsi la bocca con la mano pur di contenere i picchi acuti della risata e lei non fece in tempo a scoppiare a ridere insieme all'amico, che un urlo spropositato e appuntito raggiunse le loro orecchie, facendo vibrare persino gli infissi per la prepotente tenacia.
- Ma è uno scherzo?! -
Spazio Ila🐿
Buonasera ragazze! Eccoci in questa nuova storia, spero che questo primo capitolo, più lungo rispetto al mio solito standard, possa incuriosirvi!
In questa storia abbiamo un Harry particolare, un ragazzo che ha perso qualcosa che vuole a tutti i costi ritrovare.
E lei è Alluene (non ditemi niente, sono fiera di questo nome - si stringe la mano da sola😂), questo nome ha un significato, nasconde anche una metafora importante che scoprirete man mano...
Come tutti i miei protagonisti, anche loro cominceranno in modo turbolento! Ne vedrete delle belle ❤️
Un abbraccio, a presto ❤️
Vostra Ila
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