[nana] cosmic child
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Je te laisserai
des mots
En dessous de
ta porte く 栄 ゎ 虞移ェー
COSMIC CHILD
Il primo giorno del mese di novembre imperversava il diluvio universale. La finestra della mia camera era aperta e il vento gelido si riversava all'interno con violenza. Le ante dell'armadio fremevano e scricchiolavano al contatto, i vetri tintinnavano e le pagine di diario accartocciate sul pavimento si libravano leggiadre nell'aria, lasciandosi cullare dalla tempesta. Il tessuto della mia felpa grigia era troppo sottile e sentivo il freddo penetrarmi nelle ossa. Rabbrividii, ma non distolsi lo sguardo dalla grande città, da quel mondo sconosciuto in cui mi avevano gettato contro la mia volontà. Lo scrutai con diffidenza e lui mi osservò di rimando. Era grigio, zuppo di pioggia, maleodorante. Poi, vidi uno scorcio di mare in lontananza, prima nero come la pece e poi blu come la notte, camaleontico e terrificante.
E pensai a lui, ancora una volta. Kim Taehyung avrebbe scattato una foto per racchiudere quel momento in una delle sue tante polaroid. Kim Taehyung avrebbe detto che c'è del bello persino nella distruzione, nella bufera, nel grigiore. Agli occhi di quel ragazzo anche una banale tempesta era uno spettacolo della natura, ma io, Jeon Jungkook, non riuscivo a vedere nient'altro che monotonia, disinganno e desolazione in quello scenario. La verità è che il mondo mi faceva paura, mentre io mi convincevo che non mi piacesse affatto. Mi mancava stare all'aria aperta, passeggiare al parco, prendere l'autobus. Mi mancavano proprio le piccole quotidianità che dicevo di odiare, ma la paura era più forte, era totalizzante e aveva il pieno controllo sulle mie azioni.
Con i palmi rivolti verso l'alto, allungai le braccia fuori dalla finestra per sentire la pioggia tra scivolarmi tra le dita. Le gocce d'acqua mi sfiorarono appena, solleticandomi la pelle, prima che il vento le portasse via con sé per riprendere la loro eterna danza.
Perché tutto in questa vita maledetta mi sembra così vuoto, privo di senso, ordinario? Cosa c'è che non va in me?
Chiusi gli occhi per un solo istante e il mio corpo si sporse in avanti. Sospirai di sollievo al contatto con la brezza fresca. Sentii i capelli solleticarmi la fronte e la pioggia accarezzarmi il viso con dolcezza. Sorrisi impercettibilmente e mi sporsi ancora. Ne volevo di più. Desideravo che il vento mi portasse via, volevo danzare con l'acqua.
«Jungoo» chiamò flebilmente mia madre alle mie spalle. «Che stai facendo?».
Davanti ai miei occhi c'era il vuoto, e quando ritornai in me sbattei le palpebre per la sorpresa. La strada, il marciapiede, le strisce pedonali, l'asfalto sotto di me, a dieci metri di distanza. Mi spinsi all'indietro, barcollando. Mi guardai le mani, erano cianotiche, tremavano vistosamente. Battevo i denti per il freddo e non me ne ero neppure reso conto. Per quanto tempo ero rimasto lì? Il cielo era più blu. Mi chiesi che ore fossero, ma non seppi rispondermi.
Mia mamma si avvicinò e appoggiò la fronte tra le mie scapole, lasciando un bacio proprio al centro della schiena. Fu come se mi avesse sfiorato il cuore con le labbra. Mi abbracciò forte, con le sue braccia magre strette intorno alla mia vita. Accennai un sorriso e mi voltai per baciarle la guancia.
«Va tutto bene. È la medicina. A volte mi rende un po' assente, ma mi sta aiutando» mentii.
«No, Jungkook. Non ti sta aiutando. Io ho paura di lasciarti da solo, non sei più lucido» disse, sforzandosi di trattenere le lacrime. «Dimmi la verità, ne stai prendendo più del dovuto? Sai dove le nascondo?» mi chiese sciogliendo l'abbraccio. La delusione si palesò nei suoi occhi. Mi scrutò a lungo, cercando una risposta nel mio sguardo.
Sì, mamma. Non mi fanno pensare e ne ho prese più del dovuto. Ma non così tante, te lo giuro. Ho tutto sotto controllo.
Non tentai neppure di sottrarmi a quell'occhiata, perché per mia madre ero un libro aperto. Capì immediatamente.
«Oggi viene il dottor Kim. Devi andare avanti con la terapia, non con quelle pillole. Erano provvisorie» mormorò, dandomi le spalle. Prese a raccogliere i fogli accartocciati sul pavimento, gettandoli nel cestino. Non lesse neppure una parola, perché sapeva che non volevo. Sin da bambino era mia abitudine scrivere su carta tutti i miei pensieri. I miei diari mutavano con me, con le mie emozioni, erano un pezzo del mio cuore e non lo avrei mai condiviso con nessuno.
«Mamma, non sono pronto per incontrarlo» sussurrai mettendomi le mani nelle tasche per nascondere il tremore. «Ho avuto un attacco d'ansia ieri mattina, più forte dell'ultima volta. Ho bisogno delle pillole» replicai alzando la voce. Appena mi resi conto del tono disperato con cui avevo pronunciato quelle parole, mi morsi il labbro inferiore e ammutolii.
«Jungkook!» gridò mia madre, voltandosi a guardarmi con le lacrime agli occhi. Strinse i pugni sulla sua veste così forte che le vene vibrarono sotto la pelle lattescente. Mi sembrò tutto a un tratto piccolissima, molto più giovane di me, ragazzina, e mi si strinse il cuore. Non riuscii neppure a guardarla.
Mi morsi l'interno della guancia e alzai gli occhi al soffitto. Le mie lacrime roventi mi bagnavano le guance. Ero così stanco di piangere, di sforzarmi, di sopravvivere, eppure annuii. Lo feci per lei, ancora una volta. Lo feci per Kim Taehyung, che quel giorno mi aveva detto che stava guardando il temporale dalla finestra di camera sua con la macchina fotografica alla mano. Lo feci per mio padre, che aveva lasciato casa nostra senza opporre resistenza, dopo aver firmato i documenti per il divorzio sul tavolo della cucina. Lo feci per il dottor Kim, che mi chiamava tutti i giorni per chiacchierare con me, nonostante fosse l'unico a interloquire. Lo feci per tutti, tranne che per me stesso.
«D'accordo».
Quel pomeriggio l'ansia mi divorò. Odiavo quella sensazione di vuoto alla bocca dello stomaco, quel macigno sul petto pesante come piombo che mi rendeva impossibile persino respirare. Il pensiero di dover incontrare il dottore, parlare con lui, mi dava la nausea. Continuavo a immaginare come sarebbe stata la nostra conversazione, quali domande mi avrebbe posto e come avrei dovuto rispondere. Più tempo passavo in solitudine, più mi sembrava impensabile parlare con la gente. Anche andare al convenience store era terrificante per me, e me ne vergognavo.
Per distrarmi da quei pensieri, scrissi a kafkasullaspiaggia. Non era online, per cui non ricevetti alcuna risposta. Ero abituato a sentirlo di sera e non mi sorprese che fosse impegnato durante il giorno, ma avevo sperato comunque di poter parlare con lui. Mi tranquillizzava, metteva a tacere le mie insicurezze con poche semplici parole e per questo motivo pensavo a lui più di quanto volessi ammettere.
Lasciai il cellulare sul materasso e accesi il computer. Mi ricordai di un videogame di cui mi aveva parlato Taehyung, un gioco strambo chiamato Cosmic Child. Mi disse che ci giocava di notte e che era completamente folle, addirittura senza senso. Un gioco di ruolo in cui il protagonista era un giovane alieno rimasto bloccato sul pianeta Terra, incaricato di salvare l'umanità dall'ordinarietà e dall'omologazione. L'obiettivo finale era ritrovare la strada verso casa, oltre i confini dell'universo.
Mi invitò a giocarci perché su di lui aveva un effetto calmante. Lì per lì rifiutai. Preferivo i giochi arcade e quelli di strategia, mi davano l'illusione che la mia intelligenza servisse ancora a qualcosa. Tuttavia, ero curioso di scoprire cosa piacesse a quel ragazzo dai capelli blu, per cui decisi di iniziarlo.
Era completamente in giapponese, la grafica era esageratamente blu, tipicamente nipponica, e la colonna sonora era decisamente triste, ma in qualche modo anch'io la trovai confortante.
Giocai a lungo, controllando di tanto in tanto i messaggi, fino a quando mi bloccai in un punto morto del gioco. La mia mentore comparve sullo schermo; era una ragazza aliena che comunicava con me tramite l'iperspazio, dandomi indizi per completare le missioni.
La sua voce metallica e snervante riecheggiò nella mia camera con il tono allegro di una presa in giro. Era la tipica voce femminile da cartone animato giapponese, melliflua e squillante, come quelle degli otome game.
«Figlio del cosmo, sei in ascolto? Non temere l'alienazione o la tua diversità. Se la Terra non è la tua casa, abiteremo un altro pianeta, ché questo è un posto tanto meraviglioso quanto brutale. Le azioni di coloro che chiamiamo umani sono le più disumane. Sogna in grande. Mira alle stelle».
Gli altoparlanti continuavano a gracchiare quel messaggio imbarazzante. Arrossii fino alla punta dei capelli e chiusi il portatile con un gesto nervoso. In quel momento sentii bussare alla porta, e mi voltai di scatto.
«Jungkook, sono il dottor Kim». Mi alzai repentinamente e arretrai, come se avessi davvero avuto una via di fuga da quella situazione. Il cuore mi martellava violentemente contro il petto. Lo sentivo spingere contro le costole, mentre l'ansia saliva e mi stringeva la gola nella sua morsa d'acciaio.
«Non entrerò. Sono venuto solo per dirti che ho parlato con tua madre e penso che tu non sia ancora pronto per la terapia. Tuttavia, credo che questa casa sia la causa scatenante. Il problema è qui dentro e va risolto qui. Per cui se tornassi, se parlassi con te attraverso questa porta, per te sarebbe troppo, Jungkook?» mi chiese con il suo tono di voce calmo e rassicurante.
Sospirai di sollievo e mi avvicinai lentamente alla porta. Misi una mano sullo stipite e appoggiai la fronte contro il legno. Mi chiesi che volto avesse quell'uomo, se i suoi lineamenti fossero gentili tanto quanto la sua voce. Gli ero grato per non essere entrato, e tanto bastò per convincermi ad assecondarlo.
«Se non te la senti di rispondere, batti un colpo per dire che per te va bene. Ti prometto che non farò mai niente contro la tua volontà».
La sua voce era troppo vicina, a un passo da me. Era tutto così irreale: poco meno di un metro a separarmi da un'altra persona, da uno sconosciuto, dopo mesi di isolamento. Alzai il braccio sinistro e battei un colpo incerto contro la porta. Osservai la mia mano stretta a pugno sul legno, il polso, il braccio. Il mio sguardo si arrestò sulla garza bianca che sporgeva dalla manica della felpa. La garza che nascondeva la mia ferita, la testimonianza del mio ultimo fallimento.
«Grazie, Jungkook. Ci vediamo presto. Rispetta i dosaggi. Mi fido di te». Quando sentii i suoi passi lenti lungo il corridoio, capii che era andato via.
Mi lasciai cadere sul pavimento, stringendo le braccia contro il petto per calmare il mio battito impazzito. Inspirai ed espirai, inginocchiato sul parquet, mentre tentavo di regolare il respiro. Ero così concentrato sugli esercizi di respirazione, che non mi accorsi neppure che qualcun altro si era avvicinato alla mia porta.
Soltanto quando li riaprii, i miei occhi colsero un movimento, un lampo bianco nel mio campo visivo. Un bigliettino scivolò sotto la porta e si fermò proprio davanti a me. Aggrottai la fronte e lo raccolsi titubante. Il dottore era appena andato via, che si fosse dimenticato di dirmi qualcosa? Pregai che non avesse cambiato idea sulla terapia farmacologica, perché quella pillola era l'unico motivo per cui ero ancora sano di mente. Sospirai, mi costrinsi ad aprirlo e lessi svogliatamente il messaggio. La grafia morbida, sinuosa, quasi femminile, recitava soltanto: Hey, ragazzino.
Il respiro mi si fermò in gola e sgranai gli occhi. Soltanto una persona mi chiamava in quel modo, ma non era possibile che lui si trovasse in casa mia. Sbattei le palpebre una, due, tre volte, certo che fosse colpa della stanchezza, che si trattasse di un'allucinazione dovuta alle mie medicine. Il biglietto però era ancora lì, tra le mie mani, tangibile, reale.
Lo lessi ripetutamente, con il fiato sospeso e i polsi che tremavano. Poi, fissai il pavimento ai miei piedi e attesi che - chiunque fosse - mi scrivesse ancora. Non aveva alcun senso, non poteva essere Taehyung, eppure ogni frammento di me era convinto che lo fosse. Poco dopo, un secondo biglietto scivolò ai miei piedi, e mi affrettai a raccoglierlo. Stavolta la grafia era più frenetica, rapida, incerta.
Ho visto la libreria in salotto. È piena di romanzi di Haruki Murakami.
Quand tu voudras
Embrasse moi 央印メ韻
a/n
Ciao lettori e lettrici di Rapsodia in Blu.
Mi dispiace tanto per essere sparita,
purtroppo ho avuto da fare con un esame
e non ero nel pieno delle mie facoltà mentali per scrivere. Per farmi perdonare, oggi c'è un capitolo più lungo del solito. È un capitolo di passaggio, ma spero comunque che vi piaccia. So che la questione del gioco potrebbe essere "inaspettata", ma mi piace comunicare
tramite metafore, proprio come ai miei
due protagonisti.
Questo capitolo doveva uscire domani,
ma contro ogni aspettativa l'ho finito
prima del previsto. Comunque, da oggi
sarò molto più presente🌊
Aspettatevi più aggiornamenti!
Un bacio,
Maddie
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