[kyu] ramen noodles
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💿 nei media: (midnight) - lewis watson
And in distant skies
We watched the city die ゥチ岡 スゴ ゑ化ゑ
RAMEN NOODLES
All'alba del nuovo giorno me ne stavo seduto alla scrivania, impugnando una stilografica nella mano destra e una sigaretta spenta nella sinistra. Ne avevo rubate un paio a mia madre la sera prima, quando avevo visto Taehyung accendersene una sotto il porticato di casa nostra.
Fumava con calma con lo sguardo perso nel vuoto. Ero troppo in alto per vederlo bene in viso e avevo paura che sporgendomi troppo mi avrebbe beccato a spiarlo, ma mi sembrò più triste e più stanco di quando era arrivato. Nuvole di fumo lo avvolgevano per brevi istanti, prima di confondersi con lo smog e i gas di scarico delle auto. Neppure il fumo riusciva a sfiorarlo senza diventare effimero, vuoto, inconsistente.
In una stanza piena di gente Taehyung avrebbe avuto tutti gli occhi puntati su di sé. Avrebbe preso, preso e preso ancora, brillando prepotentemente di luce propria e riflessa, fino a far sparire chiunque altro dalla visuale. Faceva delle sue stranezze un vanto. Aveva il fascino delle vite spezzate, dei sorrisi malinconici e delle ferite non ancora rimarginate.
Taehyung indossava quella malinconia come se fosse un profumo: si percepiva nell'aria ogni volta che ti guardava ed era tanto intensa quanto inafferrabile, incomprensibile e priva di sostanza. Ti lasciava inappagato, insoddisfatto, a domandarti che tipo di vita avesse avuto a soli vent'anni, se quell'antica tristezza che di tanto in tanto faceva capolino nei suoi occhi fosse reale o soltanto frutto dell'immaginazione.
Attraverso i nostri messaggi non l'avevo capito, probabilmente perché parlavamo sempre di me. Lui voleva parlare di me. Faceva domande, ma non rispondeva mai alle mie. Quando diventavo insistente, mi raccontava aneddoti insignificanti della sua vita. Io m'incantavo a leggere i suoi messaggi e dimenticavo qualsiasi cosa gli avessi chiesto, come se non fosse mai esistita.
Mi illudevo di conoscerlo, di avere una conversazione alla pari con lui, di riavere indietro tanto quanto gli concedevo. Solo dopo averlo incontrato davvero capii che in realtà io non conoscevo affatto Kim Taehyung. Che lui non mi ridava indietro niente, perché ogni volta che le nostre anime si sfioravano - tramite un messaggio, uno sguardo o una parola - lui portava via con sé un pezzo di me.
E non gli avevo concesso nulla. Aveva voluto conoscermi e mi aveva scritto. Aveva voluto incontrarmi ed era venuto a casa mia, come per dirmi: non posso più aspettare. Era entrato nella mia vita senza chiedere il permesso, perché voleva farlo. E non capivo perché desiderasse così tanto liberarmi, guarirmi, consolarmi, anche quando io gli avevo chiesto di andare via, anche quando gli avevo urlato contro di lasciarmi in pace.
E a guardarlo lì, sotto il porticato, sembrava che Taehyung stesse lottando, che stesse tremando, che la sua armatura fatta di sorrisi e sarcasmo stesse crollando a pezzi e lui cercasse in tutti i modi di tenerla in piedi. Ma forse stavo solo fantasticando su di lui e ancora una volta non avevo capito niente di quel ragazzo.
Appena finì di fumare, spense il mozzicone e iniziò a correre sotto la pioggia. Lo seguii con gli occhi fino alla fine della strada, osservando i suoi capelli blu dalla finestra appannata della mia camera. Gocce di pioggia grosse come biglie di vetro ruscellavano sui vetri come lacrime sul viso di un bambino. Pioveva ancora. Pioveva ininterrottamente da ore e Taehyung non aveva l'ombrello. I suoi capelli bagnati - puntino azzurro su una malinconica Busan ingrigita dall'autunno - sembravano un sogno, uno strano delirio in quello scenario ordinario.
Correva a perdifiato, stretto nel suo cappotto nero, incurante degli sguardi che attirava. Urtò un signore di mezza età e si voltò per rivolgergli un breve inchino di scuse. Poi girò l'angolo e sparì dalla mia visuale. Era andato via, lasciandosi dietro il suo profumo, i suoi sguardi e i suoi silenzi. Era andato via e io mi sentivo più solo che mai.
Quella sera non cenai. Restai in camera mia per annotare sul mio diario ogni istante, ogni sensazione, ogni ricordo che avevo di quella giornata. Era un'abitudine che avevo sin da bambino. Scrivere mi aiutava a riflettere, a scavarmi dentro, a capire le mie emozioni. Nero su bianco i miei pensieri sembravano acquistare un senso, anche quando nella mia mente erano un groviglio indistinto.
Quella fu la prima volta che scrissi di Kim Taehyung. Da quel giorno il mio diario si riempì di lui, delle sue polaroid, del suo nome scritto in maiuscolo e del blu che tanto amava.
Presi la stilografica color argento, vecchio regalo di mio padre per la vittoria alle Olimpiadi di matematica, e scrissi in alto, al centro della pagina, la data. L'inchiostro blu uscì a fatica, perché non avevo mai toccato quella penna prima di allora.
Poi più in basso sulla sinistra, con la mano che tremava, scrissi:
Caro diario,
oggi per la prima volta ho desiderato di uscire. Ho un amico. O forse no, non siamo ancora amici, ma mi piacerebbe diventarlo. Voglio incontrarlo. È appena andato via e voglio rivederlo. Si chiama Kim Taehyung.
La mia mano si arrestò sul foglio. La stilografica era immobile, ferma su quel nome. Afferrai una delle sigarette che avevo rubato a mia mamma e me la portai alle labbra. Se quel gesto mi avesse permesso di sentirlo vicino un po' più a lungo, nient'altro aveva importanza. Non mi vergognai neppure per un attimo di imitare quel vizio, di far scattare l'accendino e aspirare forte.
Il primo tiro mi fece tossire. Avevo aspirato troppo a lungo, troppo in fretta. Mi venne un capogiro, ma ci riprovai. Il secondo tiro mi sembrò persino peggio. Sentii il sapore della carta bruciata sulla lingua e la gola secca. Non mi piacque, ma lo trovai rilassante. Comunque, non capivo come potesse piacergli. Arrivato a metà, riempii il fondo di un bicchiere con due dita d'acqua e la spensi. Nella mia camera aleggiava ancora qualche rivolo di fumo. L'odore era forte intorno a me e mi chiesi se anche il cappotto che indossava quel giorno avesse lo stesso profumo. Con quel pensiero in mente, ricominciai a scrivere, e scrissi per ore.
Era da poco passata la mezzanotte, quando sentii bussare alla porta. Il tocco era delicato, inconfondibile. Chiusi il diario con un tonfo, lasciando l'ultima frase a metà. «Entra, mamma» dissi.
Mia madre entrò con una ciotola fumante tra le mani e un sorriso adorabile sulle labbra.
«Lo so che non vuoi mangiare, ma stasera fa freddo e sta diluviando, quindi ho preparato un po' del mio ramen speciale. Lo dividiamo?» mi chiese avvicinandosi e poggiando la ciotola sulla scrivania. Erano mesi che non vedevo un sorriso sincero sulle sue labbra e mi sentii un idiota per averglielo rubato così in fretta. Mia mamma guardò prima le sigarette e poi me, improvvisamente seria, ma non arrabbiata come mi sarei aspettato. Non avevo neppure tentato di nascondergliele, non volevo più mentirle.
«Volevo provare. Hanno un sapore terribile» dissi sinceramente, osservando la sua reazione.
Mia madre scoppiò a ridere. «Beh, facevano schifo anche a me alla tua età. Non so nemmeno perché ho continuato a fumare. Eppure è andata così, per me e per un altro miliardo di persone» fece spallucce appoggiandosi di schiena alla scrivania. «Per un paio di minuti di pace ci serve anche una scusa» mormorò con lo sguardo perso in un vecchio ricordo. Il cipiglio sulla sua fronte lattea diventava più profondo quando pensava al passato.
«Mangiamo?» chiesi prendendole la mano. Si voltò a guardarmi e il sorriso che fiorì sulle sue labbra raggiunse anche i suoi occhi stanchi. Annuì con decisione e mi porse le bacchette.
Il ramen era caldo e profumava di buono, di Takayama e di famiglia. Lo mangiammo seduti a gambe incrociate sul letto, come se fosse il mio vecchio futon, usando le stesse bacchette e imboccandoci a vicenda. In quei momenti mi sembrava di tornare indietro nel tempo: Okaasama aveva il viso più giovane, il mio cuore era più leggero e il dolore era lontano.
Quando finimmo di mangiare, mia mamma poggiò la ciotola sul comodino e si sedette più vicino a me. Ci stringemmo sul mio letto, l'uno accanto all'altra, con la schiena appoggiata alla testiera, e restammo in silenzio per un po'. Era uno di quei silenzi avvolgenti, confortevoli, soffici come gli abbracci, quando lasci che sia il cuore a parlare per te.
«Quel ragazzo è un tuo amico?» mi chiese mia madre all'improvviso, scrutandomi con una strana luce negli occhi.
Mi colse di sorpresa, ma annuii. «È mio amico... credo» mormorai abbassando lo sguardo sulle mie mani. Mia madre le intrecciò alle sue e mi accarezzò il dorso con il pollice.
«Ha chiesto di te, sai? Faceva un sacco di domande, tanto che il dottor Kim ha dovuto chiedergli di allontanarsi per parlare con me, probabilmente per motivi di privacy. Lui ha finto di uscire, ma io l'ho visto, era appoggiato allo stipite della porta. Ha sentito tutto» disse con aria divertita.
Non mi sorprende, pensai trattenendo un sorriso. «È nel gruppo della terapia. Non ci conosciamo bene» risposi. Forse era una bugia, eppure per me non lo era. Lanciai un'occhiata al telefono e mi mordicchiai il labbro inferiore.
Stai bene, Taehyung?
Mia mamma mi osservò per un po'. Poi annuì, lasciando in sospeso l'argomento. Aveva capito che non mi andava di parlarne. Lei capiva sempre tutto, le bastava soltanto guardarmi.
Ti parlerò, mamma.
Per favore non adesso, non stasera.
Gattonò accanto a me sul materasso e mi lasciò un bacio sulla fronte. Prima che mi desse la buonanotte, le presi la mano per fermarla. Lei mi guardò con aria interrogativa ed io indugiai, inciampai sulle parole, ma mi costrinsi a parlare.
«Ieri notte ti ho vista di nuovo piangere sul lato sbagliato del letto» mormorai. «Se vuoi, posso dormirci io lì, non ha importanza per me» mentii. Avrei dormito anche sui sassi per lei. Avrei fatto qualsiasi cosa pur di non vederla più soffrire per mio padre. Non aveva chiamato neppure una volta dopo aver firmato i documenti per il divorzio e sapevo che lei ne soffriva molto.
«Non voglio vederti piangere. Puoi dirgli di tornare a casa, se è questo che vuoi» dissi cercando di sembrare convincente, ma la mia voce si affievolì pronunciando quell'ultima frase. Il solo pensiero di incrociare mio padre in corridoio e subire le sue occhiate cariche di disprezzo mi faceva rabbrividire.
Mia madre mi sorrise e mi accarezzò la guancia. «Jungkook, ascoltami. Io ho amato tuo padre, l'ho amato persino quando mi faceva del male. Mi sono messa da parte per lui. Ho abbandonato me stessa e la mia famiglia per lui. Ho preso tutte le scelte sbagliate per amor suo, ma adesso non voglio più sbagliare. Chiedere il divorzio è stata la cosa più giusta che io abbia mai fatto. Se fa del male a mio figlio, non lo voglio più nella mia vita». Osservai i suoi occhi lucidi e capii che stava dicendo la verità. Sospirai e mi sporsi in avanti per abbracciarla. Lei mi strinse a sé e il suo tocco era caldo, confortante, materno. Trattenni quell'abbraccio il più a lungo possibile, per trarne tutto il conforto di cui avevo bisogno e donarle il mio.
Quando mia mamma sbadigliò sonoramente, mi voltai a guardare l'orologio sul comodino. Mancavano pochi minuti all'una.
«Andiamo a dormire, mamma» dissi. La sentii sorridere e annuire contro la mia spalla. Quando si scostò per baciarmi la guancia, i suoi capelli mi solleticarono il collo. Erano soffici, lunghi e lisci, profumavano di lavanda.
Lavanda.
Quel profumo dolce trascinò con sé la puzza nauseante del sangue, e tornai con la mente alla notte dell'Otsukimi, quando il rosso e il blu erano un solo colore, un solo dolore. Vidi di nuovo la luna piena luminosa e folgorante e percepii la lama premere contro la carne. La mia ferita iniziò a bruciare sotto la manica della felpa, come per dirmi: sono ancora qui, ti ricordi, Jungkook?
Non sentii il bacio che mi lasciò mia madre prima di uscire dalla mia stanza, né la porta chiudersi alle sue spalle e neppure i suoi passi leggeri lungo il corridoio.
No, stasera no. Non voglio pensare.
Fatemi smettere.
Mi afferrai i capelli, li strinsi con forza, li strattonai. Mi alzai dal letto, iniziai a camminare avanti e indietro, mi accesi un'altra sigaretta, presi una pillola. Tentai in tutti i modi di cancellare quell'immagine dalla mia mente. Il pensiero di togliermi la vita, gli innumerevoli modi in cui avrei potuto farlo, continuavano a torturarmi. Li sognavo, li immaginavo, quando dormivo e quando ero sveglio.
Anche in quel momento il ricordo era vivido nella mia mente. Anzi, era distorto. Non mi limitavo a ricordare, mi vedevo morto nella vasca, dissanguato, un cadavere nudo e bianco in una pozza di sangue stantio. Sentivo l'odore del mio corpo in decomposizione nelle narici. Ed era reale. Quella scena mi riempiva le iridi, impedendomi di distogliere lo sguardo. Non importava dove guardassi. Camminavo sul parquet della mia camera e tutto ciò che riuscivo a vedere era il mio sangue secco sulle piastrelle bianche del bagno.
Mi portai una mano alla bocca per reprimere un conato di vomito. Sentii la bile graffiarmi la gola e il sapore acido del ramen sulla lingua.
Sei malato, Jungkook. Sei malato, cazzo. Non sei una persona normale, continuavo a ripetermi. Maledissi me stesso, le pillole, la terapia. Maledissi casa mia.
Mi ci ero rintanato per sentirmi al sicuro, lontano dal mondo e lontano da mio padre. La mia camera aveva finto di proteggermi, mi aveva accolto tra le sue braccia fredde e aveva stretto forte, sempre più forte. Mi stava soffocando. Mi stava strangolando.
Uscire. Scappare. Evadere.
Mi avvicinai al comodino e afferrai il cellulare. Non mi fermai a riflettere neppure un secondo. Aprii la chat su Kakaotalk e digitai rapidamente un messaggio.
gregorsamsa:
Possiamo vederci? Portami fuori di qui.
Lo inviai e mi lasciai cadere sul materasso. Il mio respiro pesante riecheggiava nella stanza e rompeva il fragile silenzio di quella notte. Aspettai steso sul letto, con le braccia aperte ai miei fianchi e gli occhi rivolti al soffitto, per quelle che mi sembrarono ore. Contai i secondi, poi i minuti. Quando arrivò la risposta, mi misi a sedere di scatto e lessi.
kafkasullaspiaggia:
Sto arrivando.
They say we're
nothing but a
heartbeat ゖヨ卸依ルび生
a/n
In questi giorni scrivere è stato davvero difficile. Non sto tanto bene e la scrittura ne risente inevitabilmente. Mi sembra di non aver fatto un buon lavoro con questo capitolo, che sia sottotono rispetto agli altri. Forse il punto è che tengo troppo a Jungkook e Taehyung, ci tengo tanto a scrivere la loro storia e voglio farlo bene. Quindi, ecco, sono un po' spaventata.
Mi dispiace se vi faccio aspettare sempre.
Avevo detto aggiornamenti più frequenti e alla fine non ho mantenuto la parola. I'm sorry🥺
Spero che il capitolo vi piaccia e che vi tenga compagnia stasera.
Baci,
Maddie
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