[jū shi] yerin
dark mode: ON/OFF
nei media: angela - flower face
But I swear you
were real in my
hands 花苛ゝぐフ 宛ゑ 代む
YERIN
[the night-blooming flower]
La nebbia quella notte era fitta come fumo e inghiottiva nel suo grigiore le strade di Busan, squarciata soltanto dalla fioca luce della luna. Era novembre, i ciliegi erano spogli e il freddo ci penetrava nelle ossa. Taehyung camminava al mio fianco, stringendosi il più possibile nella sua felpa nera. Il labbro inferiore tremava e la punta del suo naso si era arrossata. Gli chiesi di passare a casa sua per indossare qualcosa di più pesante. È tardi, mi aveva risposto, non c'è tempo, dobbiamo andare.
Così mi sfilai la sciarpa e gliela porsi. Non si aspettava quel gesto da parte mia, lo capii dal suo sguardo sorpreso e un po' esitante.
«Mettila tu, è calda. Io ho il cappotto» mormorai. Le sue dita gelide sfiorarono le mie quando l'afferrò. Avrei voluto non dover arrossire ogni volta che mi toccava, soprattutto quando accadeva per caso, come in quel momento. Avevo paura che lui lo notasse; temevo che nel rossore delle mie guance scorgesse il colore della fiamma che lentamente si era accesa in me, e che adesso divampava e bruciava, facendomi aggrovigliare le viscere.
Rosso. Mi fai diventare rosso.
Gli lanciai una rapida occhiata e lo vidi avvolgersi la sciarpa intorno al collo. Il cashmere color avorio sembrava fatto della stessa sostanza delle nuvole accostato ai suoi capelli azzurro cielo. La annodò sul davanti e ci nascose il mento e la bocca. Presi a contare i nostri passi pur di non pensare al fatto che stava respirando il mio profumo. Decisi in quel momento di non riprendermela più, quella sciarpa.
Arrivati sul ciglio della strada di casa mia, Taehyung si fermò davanti a una macchina nera e fece scattare la sicura. Quando si voltò per guardarsi intorno, lo imitai. Non me ne ero accorto, distratto com'ero da lui e dalla mia sciarpa appoggiata sulla sua bocca, ma c'era più gente dell'ultima volta. Una coppietta si era appartata sulla stessa panchina su cui ci eravamo seduti quella notte, io con il mio latte alla fragola e lui con i suoi onigiri al salmone. Dalla vetrata del konbini si intravedevano le sagome di altre persone intente a fare gli ultimi acquisti della giornata. Alla fermata del pullman un'ajumma sembrava aspettare l'amore della sua vita, stretta in un consunto cappotto di tweed.
«Aspettami in macchina. Mi fermo un attimo al konbini e torno» disse porgendomi le chiavi della macchina. «Ci metterò due minuti, promesso» aggiunse poi, scrutando nei miei occhi come se stesse aspettando un cenno da parte mia. Probabilmente ero sbiancato alla vista di quelle persone. Dovevo sembrargli patetico, un patetico ragazzino spaventato da persone che non gli hanno neppure rivolto uno sguardo. Odiavo che mi trattasse come un bambino, eppure ero io a comportarmi da tale. Così gli rivolsi un sorriso, il più rassicurante che riuscii a trovare, nascondendo le mani nelle tasche. Avrei voluto digli di non lasciarmi neppure per cinque secondi, ma mi costrinsi a voltarmi ed entrare in macchina. Taehyung mi lanciò un'ultima rapida occhiata, prima di avviarsi a passi svelti verso il negozio.
Lo vidi entrare dallo specchietto retrovisore.
Mi sistemai meglio sul sedile e accesi l'aria calda, lasciando che quel tepore rilassasse in miei nervi a fior di pelle. La macchina di Taehyung aveva un vago odore di cloro, colonia maschile e tabacco, lo stesso odore che avevo sentito sul suo maglione la prima volta che era venuto a casa mia. Mi guardai intorno e scoprii che sul sedile posteriore c'era un borsone sportivo con un grande logo ricamato, che pensai fosse quello della piscina. Se i ricordi che avevo delle competizioni scolastiche non mi tradivano, quello era il logo di un'importante associazione sportiva. Taehyung doveva fare nuoto agonistico per farne parte.
Pensai al suo fisico asciutto, al modo in cui i vestiti comodi che indossava lo facevano sembrare persino più magro. Non era il tipo di magrezza che vedevo sul mio corpo da adolescente. Taehyung non sembrava mai esile, e non c'era modo di pensare a lui come a un ragazzino, tranne quando sorrideva.
E quando lo vidi tornare, con una piccola torta preconfezionata in una mano e una busta di plastica nell'altra, non c'era nemmeno l'ombra di un sorriso sul suo viso. Camminava veloce e il vento gli aveva scoperto la fronte. Lo guardai di nascosto con il cuore che mi batteva forte.
Non capivo se volessi di più lui, o essere lui.
Entrò in macchina e mi rivolse un rapido sorriso. «È morbidissima questa sciarpa».
Fece per toglierla, ma lo fermai tirandogli leggermente la manica della felpa.
«Tienila. Per favore, tienila» mormorai.
Sta meglio a te, comunque.
Non riuscii a guardarlo in quel momento. Non riuscivo mai a guardarlo in momenti come quello, e la confusione che intravedevo nel suo sguardo mi feriva ogni volta. Taehyung non mi vedeva in quel modo. Non mi vedeva e basta. Non sapeva che io quella sciarpa avrei voluto bruciarla, perché le era spettato il posto che le mie braccia bramavano da tempo.
Lasciò la torta e la busta sul sedile posteriore, mise in moto e partì per le grigie strade di Busan. Poco dopo mi chiese di scegliere un disco. Ne aveva tantissimi stipati nel cruscotto, di ogni genere: jazz, pop, soul, e tanta, tanta musica indie. Accarezzai con le dita le custodie e cercai di memorizzare tutti i titoli che non conoscevo. Alla fine, scelsi OK Computer dei Radiohead, o la colonna sonora della mia vita.
Quando glielo porsi, notai che stava tentando di trattenere un sorriso.
«Sai, non per dire che sei prevedibile, ma ci avrei scommesso che ti piacessero i Radiohead. Ci avrei messo la mano sul fuoco» disse con una risata, facendo partire la prima canzone.
«Mi sembra assurdo che ci piacciono le stesse cose» risposi arrossendo un po', mentre guardavo i neon e i fari delle auto sfrecciare al di là del finestrino. Taehyung superò la mia scuola superiore: era deserta e immersa nel buio, un lontano ricordo che sembrava appartenere a un'altra vita. Le betulle del cortile tremolavano come flebili fiamme di candela sotto la brezza gelida di quella sera.
«In verità, una parte di quei cd non è mia. Alcuni erano di Yerin, ma adesso non li ascolta più». Stavolta mi voltai a guardarlo. Perché il suo tono di voce diventava malinconico ogni volta che nominava quella ragazza?
Yerin.
Lee Yerin.
Mi chiesi che aspetto avesse e che cosa lo legasse a lei. Una domanda silenziosa riecheggiava nella mia mente da quando avevo letto il suo nome sullo schermo del cellulare.
E se fosse la sua ragazza?
Se anche lo fosse, non ti riguarderebbe.
Taehyung mi aveva detto che era una sua amica, e io non avevo alcun diritto di chiedergli altre spiegazioni. Tenni le mani strette in grembo e mi lasciai cullare dalla voce ipnotica di Thom Yorke per non dare ascolto ai miei pensieri.
Il mare di notte era di un nero asfissiante. L'acqua era densa come inchiostro e non aveva abisso. La linea dell'orizzonte era inghiottita dal buio: il cielo sembrava fatto d'acqua e il mare d'aria e di stelle, che fioche e morenti si riflettevano timide su quello specchio d'ossidiana. Il ponte di Gwangan era affollato anche a quell'ora della sera, ma nessuno rallentava la propria corsa per ammirare lo spettacolo. Nessuno, tranne Taehyung. Abbassò entrambi i finestrini, senza curarsi più del vento, del freddo, e del tempo che scorreva inesorabile.
Taehyung osservava il mare con due occhi scurissimi, lustri nascosti sotto le ciglia. Batteva le palpebre per proteggersi dalla brezza pungente, e io lo sentivo pensare, pensare, pensare... C'era una calma ultraterrena sul suo volto, che lo faceva sembrare immobile e freddo come il marmo. Mi rivolse un sorriso che scomparì in un istante. Poi, tornò a guardare dritto davanti a sé. Premette un po' di più sull'acceleratore e imboccò le vie luminose e colorate del distretto di Gwangan, lasciandosi alle spalle il nero infinito del mare di Busan.
Non parlammo molto. Taehyung sussurrava a fior di labbra le parole di qualche canzone, di tanto in tanto si voltava verso di me e quando cambiava le marce mi sfiorava la gamba, ma non fu bravo a nascondere la tensione che lo faceva ingoiare a vuoto. Superò le strade del centro e si diresse verso i quartieri periferici, accostando al margine di una via strettissima, avvolta nella nebbia e poco illuminata. L'intonaco che rivestiva le abitazioni era sporco e costellato di crepe, in alcune era del tutto scollato e lasciava scoperto il cemento nudo. Le lamiere facevano da copertura a cortili piccoli come sgabuzzini. Mi guardai intorno, e vidi un mondo completamente diverso da quello a cui ero abituato.
«È qui?» gli chiesi flebilmente.
Taehyung annuì, ma non scese dalla macchina. Al buio non riuscivo a vedere la sua espressione, ma anche uno stupido avrebbe capito che nell'aria non c'era l'atmosfera allegra di un compleanno. Si sfregò le mani sulla faccia e sospirò rumorosamente.
«Mi dispiace di averti trascinato qui. Sono stato egoista» mi disse con voce improvvisamente stanchissima. «Hai paura? Hai paura, adesso?».
Scossi la testa e gli dissi che no, non avevo paura. Era una bugia soltanto in parte, perché non ero spaventato per le motivazioni che si sarebbe aspettato. La verità era che dal momento in cui eravamo scesi da casa mia avevo notato le persone intorno a me soltanto in quei brevi minuti in cui mi aveva lasciato da solo. Avevo guardato lui, pensato a lui, per tutto il tempo. E adesso avevo paura, perché non sapevo cosa gli passasse per la mente, perché non potevo chiederglielo, e la voglia di abbracciarlo di nuovo era insopportabile.
Il suo telefono squillò di nuovo. Stavolta era un messaggio. Taehyung digitò in fretta una risposta e mi chiese di scendere. Prese dal sedile posteriore la torta e la busta, e mi incitò a seguirlo. La sciarpa gli era scivolata dalla bocca, riuscivo a vedere i suoi respiri materializzarsi nell'aria gelida davanti al viso. Allungai una mano e gliela sistemai di nuovo sulle labbra, stando attento a non sfiorarle. Taehyung mormorò un grazie un po' imbarazzato, ma sembrava che stesse sorridendo sotto il cashmere bianco come la neve.
Ci fermammo sull'uscio dell'ultima casa della strada. Era minuscola, somigliava quasi a un vecchio scantinato, e malmessa, persino più delle altre. Nessun nome era inciso accanto al campanello. Quando Taehyung bussò, battendo le nocche sulla porta, venne ad aprire una ragazza.
Yerin era piccola, esile e magra come un chiodo. La forma del suo viso ricordava quella di un cuore, con il mento delicato e appuntito e la fronte morbida incorniciata da una cascata di capelli scuri. La sua pelle era lattea, ma rosata sulle gote, come i fiori di ciliegio a primavera. Indossava soltanto un ampio maglione nero da uomo, che le copriva per metà le cosce nude, ma non sembrava infreddolita. Guardò prima Taehyung e poi me; i suoi grandi occhi neri erano vispi e curiosi, mentre mi scrutava con la testa un po' inclinata.
«E lui chi è?» chiese con voce squillante.
«Ciao anche a te» rispose Taehyung con tono esasperato e un po' divertito. «Dai, spostati. Fa un freddo cane qui fuori».
Yerin gli sorrise strafottente e si fece da parte per farci entrare. Quando le passai accanto, chinai un po' il capo, come richiedeva la tradizione, e mormorai: «Mi chiamo Jungkook, piacere di conoscerti». Lei mi guardò sorpresa per un istante, prima di scoppiare in una risata cristallina.
«Tae-tae, dovresti imparare le buone maniere dal tuo amico» esclamò, togliendomi il cappotto con movimenti rapidi e decisi. Il suo modo di fare era profondamente diverso da quello delle altre ragazze coreane. Era sfacciata, solare, tanto delicata quanto vivace, e non abbassava mai lo sguardo per prima. Si avvicinò a Taehyung per togliergli la sciarpa e non si preoccupò di toccare la sua bocca con le dita, a differenza mia. La gettò nel piccolo armadio all'ingresso e sentii una morsa d'acciaio stringermi lo stomaco.
Ci disse di fare come a casa nostra e di sederci dove più ci piaceva, ma in verità, superato il corridoio, quella casa aveva soltanto una stanza sufficientemente grande per starci comodamente in tre, ed era la cucina. Seguii Taehyung in silenzio e mi sedetti a gambe incrociate sul tappeto, perché il divano era sommerso da coperte, cuscini e vestiti. Lui poggiò la torta che aveva comprato sul piccolo tavolo di legno di fronte a me. Poi tolse dalla busta un pacco di candeline colorate e un cartone di birra. Yerin lo raggiunse con l'apribottiglie e ne stapparono tre, una a testa. Prese la sua e lo ringraziò, lasciandogli un rapido bacio sulla guancia, e io abbassai lo sguardo sulle mie mani.
Qualche minuto dopo eravamo seduti tutti e tre sul pavimento, dallo stesso lato del tavolo, anche se in quel modo si stava più stretti. La mia birra era ancora a metà, ma era meno amara a ogni sorso e mi faceva sorridere di più. Taehyung sembrava un po' più rilassato adesso, anche se era sempre Yerin a parlare per prima, gesticolando e sorridendo di continuo. Gli chiese di me, e lui le raccontò brevemente del gruppo e della terapia.
«Sei in terapia da suo padre? Perché?» mi chiese subito, facendo saettare i suoi grandi occhi su di me.
Quella domanda invadente mi colse di sorpresa, ma fu Taehyung a rispondere al posto mio. «Yerin, di solito le persone normali non fanno questo tipo di domande alle persone conoscono appena».
Lei lo fulminò con lo sguardo e rispose piccata: «E chi ha detto che io sono una persona normale?».
Taehyung si massaggiò la tempia con una mano e decise di lasciar perdere. Mi guardò con aria di scuse e non mi piacque la preoccupazione che lessi nei suoi occhi.
«Io non esco di casa, mai» le dissi.
Yerin si accigliò. «In che senso?».
«Nel senso che non ho messo piede fuori dalla mia camera per sei mesi» mormorai, sforzandomi di sorriderle. Lei mi guardò un po' sorpresa, ma non quanto mi sarei aspettato. Non sembrò giudicarmi o provare pena per me. Taehyung, invece, che era seduto al mio fianco, mi stava fissando.
«Il mondo fa schifo a tanta gente, a quanto pare» esclamò Yerin con una risata amara. «Com'è che vi chiamano? Hikikomori, giusto? Beh, mentirei se ti dicessi che non ci ho mai pensato. Anzi, a dire il vero, ci ho anche provato, ma con la vita di merda che mi ritrovo devo lavorare, se voglio tenermi stretta questa bettola. Mia mamma non mi paga neppure gli assorbenti». Bevve un sorso di birra senza smettere di guardarmi e poi, come se mi stesse rivelando un segreto, sussurrò tra le labbra: è una puttana.
Trattenni il fiato, e Yerin scoppiò a ridere così forte che si tenne la pancia con le mani. «Oh, andiamo, scherzo. Cos'è quella faccia? Ho forse rubato un po' della tua innocenza, Kookie?» disse sporgendosi verso di me con un sorrisetto allegro. I suoi occhi erano taglienti come lame affilate.
«Yerin, smettila adesso».
Taehyung la tirò indietro per un braccio e il sorriso le morì sulle labbra. Si guardarono, e mi sembrò che stessero parlando in una lingua tutta loro, una lingua che io non avrei mai potuto capire. E mi dava fastidio, dal modo in cui lo toccava - come se fosse la cosa più naturale del mondo - alla complicità che vedevo nei loro occhi. Taehyung le scoccò un'occhiata grave e lei fece un sospiro un po' tremante.
«Scusami, sono sempre stronza il giorno del mio compleanno. Lo odio. Ma tu mi piaci, Kookie. È la tua tenerezza che mi rende nostalgica» disse sinceramente.
Taehyung si alzò il cappuccio della felpa sulla testa. Avevo notato che lo faceva ogni volta che era nervoso, e pensai che fosse perché si preoccupava per me, per il modo in cui reagivo allo strano modo di fare di Yerin. Così buttai giù l'ultimo sorso di birra e provai a dire qualcosa, la prima cosa che mi venne in mente: «Anche a te piace leggere?».
Yerin alzò un sopracciglio con aria interrogativa e io mi affrettai a spiegarmi meglio. «Ho visto che hai una piccola libreria all'ingresso, è molto carina» mormorai sentendo le guance avvampare, un po' per l'alcol e un po' per l'imbarazzo.
«Grazie» disse, sorridendomi gentile. «Ma in verità non leggo tanto, la maggior parte dei libri che vedi mi sono stati regalati».
«Da Taehyung?» chiesi d'istinto.
Yerin si voltò a guardarlo con un'espressione indecifrabile, ma lui la ignorò.
«No, non da lui» rispose con gli angoli delle labbra che fremevano. «Tu cosa leggi? Anche se è da tanto che non leggo, un tempo mi piaceva farlo».
«Haruki Murakami è il mio scrittore preferito, ma mi piacciono anche Salinger, Sartre ... e Kafka. Mi piace molto Kafka». Non lo dissi di proposito, ma mi resi conto in un istante che in quella frase c'era più verità di quanto mi sarebbe piaciuto ammettere. E avrei fatto meglio a tacere, perché quel gioco di parole era chiaro soltanto alle mie orecchie. Eppure, alla fine, aggiunsi un'altra frase accanto a quella equivoca che già avevo pronunciato. Lo feci anche se era stupido, infantile e senza senso. «Mi piacciono tantissimo le sue lettere. Amore è il fatto che tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me stesso - è da sempre la mia frase preferita, e probabilmente non cambierà mai».
Taehyung non sembrò notare il rossore sulle mie guance. In realtà, sembrava che non avesse ascoltato neppure una parola; si alzò in piedi e si mise una sigaretta tra le labbra, lanciando un'occhiata all'orologio. Mi parve improvvisamente molto stanco.
Yerin, invece, l'aveva notato di sicuro.
«Che tenero!» esclamò mettendosi le mani sulle guance. Mi rivolse un sorriso di miele che non riuscii a ricambiare, e poi il suo sguardo si spense. L'umore di Yerin cambiò tanto repentinamente da farmi sussultare. Il suo viso dolce adesso era una maschera priva di espressione; quegli occhi da cerbiatto mi scrutarono con più insistenza. «Oh, Kookie, maledico quel coltello ogni giorno. È stato un errore tenerlo piantato nel cuore per così tanto tempo, ma mio è il coltello, e mio è il cuore».
Taehyung, che era in piedi a fumare appoggiato allo stipite della finestra, si voltò verso di lei e il cipiglio sulla sua fronte si fece più profondo. «È quasi ora, mancano cinque minuti alla mezzanotte» disse espirando una nuvola di fumo. La stanza era così piccola che ne sentii l'odore nelle narici. Ancora con la sigaretta accesa, ci raggiunse e si accovacciò accanto al tavolo per sistemare diciotto candeline sulla torta. Poi, con lo stesso accendino, lentamente le accese tutte, facendo attenzione a non far sciogliere la cera. Quando finì, lasciò un bacio tra i capelli di Yerin e le sussurrò: «Adesso. Soffia, esprimi un desiderio».
Lei chiuse gli occhi e soffiò con devozione, speranza e disperazione, come se credesse più in quel desiderio che in qualsiasi altra cosa al mondo. Non mi ero mai sentito tanto fuori luogo come in quel momento, con il petto che scoppiava di un sentimento a cui non sapevo neppure dare un nome, ma che in seguito riconobbi come gelosia.
E per quel sentimento, ancora adesso, vorrei chiederle scusa. Perché Yerin, Taehyung, non lo amava nemmeno.
I'm stuck in this
ghost town,
Your softness still
haunts me づ奥づま位コドゐ威
a/n
non sono sicura di come percepirete
questo capitolo, ma questa doveva essere
la sua forma. forse adesso sarete un po' confus*, però presto le cose saranno un
pochino più chiare. o almeno me lo auguro.
per adesso, cosa pensate di Yerin? la scorsa volta era solo una comparsa, adesso
avete qualche idea in più su di lei ?
spero che rapsodia in blu vi stia piacendo,
lo spero tanto, perché io vorrei scriverla sempre. lo dimostrano sia il capitolo più
lungo del solito che l'aggiornamento
parecchio in anticipo.
fatemi sapere con un commento cosa
ne pensate del capitolo, di Jungkook, di Taehyung, o di entrambi, insieme 🥺
io leggo sempre tutti i vostri commenti,
mi spronano a scrivere sempre di più.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro