乇ㄩㄒㄖ卩|卂 || Ep. 15. Perdono
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Le palpebre erano pesanti, sembravano di cemento, e gli ci volle un po' per aprire gli occhi del tutto e metter a fuoco. Si guardò attorno e non riconobbe l'ambiente nel quale si trovava.
La testa gli pesava, aveva il corpo indolenzito.
Cos'era successo? Dov'era?
«Ben svegliato.» Sobbalzò e si voltò. Vide Jones avvicinarsi e mettersi le mani in tasca. «Si... uhm... si sente meglio?»
Godric non ricordava bene cos'era accaduto, se non...
Si sentì gelare e fece scivolare le gambe giù dal divano. «Oh, no... n-non mi dica che...»
Dante respirò pesantemente. «Beh, c'è mancato poco. Più che altro era sul punto di sragionare sul serio e io ero ormai allo stremo, ma poi sono riusciti a liberare l'ascensore e lei è capitolato. Questa è la sala delle riunioni e ovviamente sono arrivato troppo tardi, anche se non sarei stato nelle condizioni di sostenere comunque un affare importante come quello di oggi pomeriggio.»
Quindi non è successo niente, pensò il ragazzo, un po' meno in ansia.
«Ha parlato a ruota libera e le risparmio gran parte dei dettagli perché non voglio che si suicidi per la vergogna» aggiunse Jones. «Dico solo che a un certo punto, mi sembra, ha iniziato a dire che le piacevo da morire e avrebbe tanto voluto me come futuro padre dei suoi figli non ancora nati e primo uomo in assoluto al quale donare la sua verginità.»
Godric emise un verso stridulo e seppellì il viso paonazzo fra le mani, frignando come un bambino isterico.
Voglio morire! Fatemi morire, vi prego!
«Già. Più o meno la mia reazione è stata analoga alla sua.» Dante pareva in parte divertito. «Di proposte scandalose me ne hanno fatte, ma così...!»
«Oh, la prego!» si lamentò il giovane.
«E ho un altro centinaio di aneddoti come questo.»
«Sono sazio, grazie.»
«Qualche ora fa non sembrava.»
«EH?»
Jones scoppiò a ridere. «Via, la sto solo prendendo in giro!» Alzò gli occhi al cielo, si sfilò un fazzoletto inamidato che spuntava con eleganza dalla giacca e lo porse a Ranson. «Non ne facciamo una tragedia. Non la caccerò dal mio ufficio per una cosa del genere. È la natura e non sempre possiamo farci qualcosa. Non era in sé e non parlava sul serio, non serve essere dei medici per capirlo.»
Questo lo dici tu, pensò Godric, tamponandosi le guance col fazzoletto sul quale erano ricamate due iniziali bordeaux, ovvero quelle dell'avvocato. Ahilui, si ritrovò senza volerlo a respirare anche il profumo dell'uomo col quale si era apertamente sputtanato.
Peggio di così le cose non sarebbero potute andare, altro che storie.
Dante recuperò dal lungo tavolo di acciaio un bicchiere con all'interno del whisky e se ne versò in gola un sorso. «Devo però dire che fra le tante cose che ha detto, una mi ha colpito.»
Il cuore di Ric perse un battito. Aveva capito bene?
«Quale?» incalzò, il fiato sospeso.
«Prima di sragionare completamente, per restare focalizzato ha scelto di spiegarmi la situazione delicata in cui versa la sua famiglia, specialmente suo padre. Mi ha proposto di rendere Connor socio e co-direttore dello studio legale per tentare di salvare il nome dei Ranson e anche le finanze. Ha aggiunto che in caso contrario avreste dovuto affidarvi agli Hammond e lei sarebbe stato costretto a sposare il loro rampollo. All'inizio ero sconvolto e pensavo fosse uno scherzo, ma poi... beh... ho preso in considerazione il darvi sul serio una mano.»
Godric, in parte deluso per aver creduto che si trattasse di ben altro, subito dopo sentì la speranza riaccendersi. «Perché solo dopo che ho nominato gli Hammond?»
Dante sorseggiò dell'altro whisky. «Non avrei voluto intromettermi, ma quando ho sentito dell'errore che i suoi genitori stavano per fare... beh, la coscienza mi ha imposto di parlare con loro e metterli da parte circa la reale natura di Jeffrey Hammond. Ammetto che mi sento ancora in colpa e... Connor è mio amico, non potevo permettere che suo figlio finisse nelle mani di un uomo del genere.»
Ranson si accigliò. «Non capisco.»
L'avvocato esitò. «Avevo all'incirca ventisette anni quando dovetti difendere per la prima volta Hammond da delle gravi e pesanti accuse. Fosse piaciuto agli dei che avessi dato invece ascolto alla ragione e al disgusto che provavo nei confronti di quel ragazzino viziato abituato a farla franca.» Era ovvio che quella storia aveva avuto un peso sulle sue scelte future e non solo. «Non ero ancora così famoso e rispettato, ma mi ero fatto un certo nome ed ero in costante ascesa. Sa per chi lavoravo all'epoca?»
Il ragazzo scosse la testa. Dante sorrise con una punta di nostalgia e di malinconia. «Per suo padre. Oh, sì! Lavoravo per il suo studio legale. Fra noi c'erano pochi anni di differenza, è vero, ma in un certo senso era un fratello maggiore e un padre al tempo stesso per me che, purtroppo, di figure come quelle non avevo mai avuto esempi decenti. Una volta mi invitò a casa vostra. Lei non era presente, credo... non so, era partito per andare in vacanza coi suoi amici del liceo, credo. Ad ogni modo, un giorno mi venne detto di difendere questo tale, Jeffrey Hammond, figlio del CEO di un'azienda molto importante, dall'accusa di violenza carnale. Ammetto di aver realmente pensato che fosse innocente. Il ragazzo che aveva sporto denuncia aveva bevuto parecchio a quella festa e pareva non essere proprio in bolla, avere tutti i motivi validi del mondo per voler ottenere un risarcimento in denaro per molestie mai avvenute. All'epoca fui fiero di me stesso, di come riuscii a smentire la testimonianza della vittima davanti a tutto il tribunale. Una vittoria schiacciante, Hammond non si fece neppure mezza giornata in galera. Tornò a casa e finì così.»
Jones finì il whisky e mise via il bicchiere. Sembrava reggere alla perfezione gli alcolici.
«Tre mesi dopo, alle due del mattino, venni svegliato dal telefono. Risposi e capii che mi stavano telefonando dal carcere: Hammond era spaventato, piangeva nella cornetta, mi pregava di aiutarlo perché lo avevano di nuovo accusato di violenza sessuale, stavolta si trattava di una giovane donna. Aveva vent'anni, ma mi parve un bambino terrorizzato. Contava su di me. Mi lasciai ingannare dalle emozioni e dai buoni propositi che all'epoca avevo. Concedevo a tutti il beneficio del dubbio, partivo dal presupposto che i miei clienti fossero davvero innocenti, mi fidavo di ciò che mi raccontavano in privato. Mi fidai di Jeffrey, avevo solo sette anni in più di lui e la fissa di lasciar prevalere sulla verità le emozioni e i miei giudizi personali. Ero un ingenuo avvocato e lui lo aveva capito benissimo. Era bravo a manipolare. La ragazza finì in carcere e... come la vittima precedente, scontò un anno di reclusione per aver sporto denuncia basandosi su false accuse e anche per danno d'immagine, eccetera eccetera. Mi dissi che era finita, che non ci sarebbero stati altri problemi, che poteva capitare, ma poi... due settimane dopo avvenne ancora. Tre maledette accuse di stupro mi servirono per capire che gli Hammond mi stavano prendendo per i fondelli e usando. Andai dal vecchio di Jeffrey e gli chiesi se per caso stessero cercando di fottermi. Usai queste parole, lo giuro sui miei figli che parlai così. Ero fuori di me dalla rabbia e non ragionavo più. Ne avevo abbastanza. Hammond allora mi rispose che o avrei fatto uscire di galera suo figlio e avrei tenuto la bocca chiusa, oppure davvero sarei stato fottuto. Ovviamente lo mandai a quel paese, ma quella sera, quando stavo per rincasare, vidi sulla porta di casa la lettera H tracciata col sangue. Capii che era un avvertimento, una minaccia: zitto e fai come diciamo o affronta le conseguenze. Corsi in casa, pensavo avessero fatto del male a mia moglie e alla mia bambina che era nata proprio in quello stesso anno. Quando vidi che stavano bene strinsi a me Lydia e Talia, piansi, senza lasciarle andare. Qualcuno aveva tormentato mia moglie per tutto il pomeriggio chiamando a casa nostra, ma ogni volta che era andata a rispondere, dall'altro capo c'era sempre stato il silenzio.»
Godric aveva quasi la nausea a quel racconto. Non aveva il coraggio di fiatare.
«Non sapevo cosa fare, ero in crisi. Chiamai Connor e in lacrime gli chiesi di darmi un consiglio, o almeno speranza. Lui mi disse di calmarmi e di fare ciò che dovevo. Gli feci notare che probabilmente il ragazzo era colpevole, ma Connor mi avvertì di non sfidare quella famiglia. Mi disse che uno sconosciuto non valeva quanto la vita e la sicurezza di Talia e Lydia. Ero un padre di famiglia, dovevo agire nell'interesse dei miei cari e ricordare che non era colpa mia, che ero sempre stato in buona fede. Che era il mondo a esser troppo pieno di bastardi. Feci come mi aveva detto. Non era solo il mio capo, era anche un mio caro amico, la mia guida. Avevo instaurato un rapporto d'empatia con Jeffrey perché... quando ero ragazzo, avrò avuto al massimo sedici anni, finii per un po' dietro le sbarre e fu lì, però, che mi accorsi di cosa stavo diventando e capii chi non volevo essere e chi invece volevo essere. Non volevo diventare un teppista, volevo stare dalla parte del giusto, della legge, aiutare le persone, specialmente chi non aveva voce in capitolo e subiva ingiustizie e soprusi per via della discriminazione. Misi la testa a posto, uscii per buona condotta e ricominciai a studiare e non mi fermai più finché non diventai avvocato. Mi rivedevo in Jeffrey: incompreso e ingiustamente incolpato per chi era e cosa dicevano avesse fatto.»
In effetti Godric vide che da sotto la manica arrotolata, sul braccio sinistro, l'uomo aveva un numero che era stato chiaramente impresso a fuoco nella pelle. Quello era stato il suo nome in carcere: una sequenza numerica, l'identità completamente annichilita.
«Riuscii a uscire prima proprio grazie alla buona volontà del mio avvocato. In lui vidi una specie di segno, un simbolo, un'ispirazione. Volevo essere come quell'uomo che tramite le parole era riuscito a convincere il tribunale a darmi una seconda possibilità per diventare un uomo migliore del ragazzo che ero. Jeffrey, però, era marcio dentro, lo è tuttora. La fece di nuovo franca grazie a me, ma poi mandai al diavolo lui e la sua famiglia. Per un po' smisi di lavorare, avevo il terrore di uscire, paura per la mia famiglia, e di nuovo fu suo padre, il buon Connor, a venire a casa mia, a tirarmi su con uno strattone energico e a ricordarmi che ero un uomo e dovevo non solo provvedere ai miei cari, ma anche continuare, perché ero un bravo avvocato e gli Hammond mi sarebbero serviti da lezione per il futuro. Avevo un bagaglio d'esperienza a ricordarmi che da quel giorno in avanti avrei dovuto sceglier meglio i miei clienti e non farmi più trarre in inganno dalle loro moine. Cercare solo la verità e dare il meglio davanti alla giuria.»
Dante sorrise di sbieco. I suoi occhi scuri luccicavano. «Perciò... come vede... non avevo scelta, se non aiutare Connor come lui ha fatto con me tante volte. In più avrei impedito al figlio di un mio caro amico di diventare la prossima vittima, il giocattolino di un delinquente che prima o poi riceverà quel che si merita. Mi scuso, anzi, per non aver mai voluto rivelare fino in fondo la verità a Connor. Lui non sapeva se Jeffrey fosse effettivamente innocente o meno, ma ormai aveva promesso la sua mano a lui e gli Hammond sono prepotenti, sono pericolosi. Tuttavia...», fece un bel respiro. «Faranno meglio ad accettare che lei, signor Ranson, non è un soprammobile costoso e ha il diritto di scegliere con chi stare. Detto fra noi: se Jeffrey non dovesse capire il concetto e mettersi in testa di fare scherzi o darle fastidio, ha l'ordine esplicito di chiamarmi immediatamente. Almeno saprò dove trovarlo e se buttargli giù i denti oppure ammazzarlo direttamente. Il figlio di Connor Ranson non si tocca. Per lui è off-limits, punto e basta.»
Godric cercò di celare il rossore sulle gote guardando verso il pavimento.
«Suppongo che ora lei non mi ammiri più così tanto, e non posso darle torto.»
Il ragazzo scosse il capo. «Non posso giudicarla. Aveva una pistola puntata alla testa non solo sua, ma della sua famiglia. Ha scelto la sua famiglia al posto di tutto il resto e credo sia più ammirevole questo, piuttosto al restare fedeli a pericolosi principi che mettono in pericolo degli innocenti. La verità è importante, ma cosa diventa quando si macchia col sangue di un innocente? A cosa serve?»
Non era arrabbiato e non ce l'aveva più nemmeno coi suoi genitori. Era un discorso complesso e controverso, ma di certo non erano Jones né Connor e Maddox i cattivi.
«Come... come farà mio padre a sdebitarsi? Cosa...»
«Non pretenderò niente da lui. È grazie a lui se sono riuscito a prendere e ristrutturare la casa che possiedo adesso. So bene com'è trovarsi in difficoltà e voler solo il meglio per chi si ama. Non è bello avere l'acqua alla gola e Connor è troppo orgoglioso per chiedere aiuto. Lei è stato umile e ha agito per il bene di tutti e scelto di rischiare. Non è da tutti e per questo la rispetto, signor Ranson.»
Godric sorrise appena e non disse niente. Se non altro era riuscito nell'intento che si era prefissato, e quella sì che era una vittoria grandiosa.
«Ora le chiamo un taxi, così può tornare a casa e riposare. Se vuole, le concederò qualche giorno per riassestarsi. Non è costretto a lavorare se non sta granché bene.»
Il ragazzo vide che Jones stava per andare sul serio e allora non resisté all'impulso di richiamarlo e dirgli di restare lì, che non se la sentiva ancora di tornare a casa.
Stava ancora in condizioni pietose, la verità era quella, e muoversi più di tanto sarebbe stato impossibile. Il calore che avvertiva nel basso ventre, quel costante e sordo pulsare fra le sue gambe, non erano spariti, come non era sparita la voglia che aveva dell'uomo a qualche metro di distanza dal divano.
Non aveva affatto straparlato, aveva solo sputato tutta la verità che il decoro gli aveva imposto di tener nascosta. Era stato più sincero in quelle ore che in cinque mesi di tirocinio e di vane speranze.
Possibile che Jones non lo capisse? Era così assurdo che qualcuno potesse desiderarlo?
Talmente era stufo di tenersi tutto dentro che Godric non si rese quasi conto di cosa poi chiese con voce spezzata: «Non le piaccio, vero? Non sono abbastanza. È per questo che non mi vuole?»
Era assurdo, poi, che Jones fosse riuscito a resistergli con tanta decisione. Invidiava sul serio il suo autocontrollo.
Dante era confuso. «Non è ancora del tutto in sé, dico bene?»
«Si sbaglia! Ho detto la verità dopo mesi in cui non ho fatto altro che nasconderla!» insisté il ragazzo, disperato e in lacrime.
L'uomo si passò una mano sulla nuca, costernato, spiazzato e incerto. Non sapeva più a cosa credere o come comportarsi. Non gli era mai piaciuto passare per il cattivo di turno, francamente. Alla fine si sedé sul divano accanto al giovane. «Va bene, va bene... mi stia a sentire» disse calmo. «Lei è giovane, ha ventitré anni e ha appena iniziato a vivere e a realizzarsi. Magari ora le sembrano sentimenti viscerali e importanti, questi, ma tra qualche anno, o magari persino qualche mese, si renderà conto che era solo un'infatuazione passeggera. Io... io le auguro davvero di trovare una persona alla sua altezza e che la ami, perché se lo merita, come tutti. Oltre al fatto che sono parecchio più grande di lei, io... non sono la persona che pensa, mi creda. Quel meglio non sono io, glielo assicuro. Ho tre figli, ho perso mia moglie da poco e la sola cosa che vorrei sarebbe di poter fare a cambio con la madre dei miei figli, se solo potessi. Mia moglie non meritava quella fine, io forse sì, invece. Ho... ho fatto delle cose non proprio belle, una in particolare... fu orribile. Non sacrifichi la vita che può avere solo per uno come me. Non ne vale la pena. Se vuole posso esserle amico, ne sarei onorato, ma non voglio correre il rischio di rovinare la persona splendida che sto guardando solo perché ora mi sento solo e sì, ho nostalgia di trovare il letto caldo quando torno dal lavoro. Sarei solo un egoista.»
Godric non ce la fece a dirgli che invece gli aveva solo spezzato il cuore. Non ebbe la forza di dirgli che vedeva un uomo come pochi ce n'erano, un uomo che sarebbe stato felice di avere al proprio fianco e solo per sé.
«L-Le chiedo solo... solo una cosa» singhiozzò. «P-Può abbracciarmi? S-Solo un pochino.»
Voleva solo averlo vicino. Solo per un momento. Si sarebbe accontentato delle sue braccia calde che lo stringevano.
Dante era combattuto, ma allo stesso tempo non riusciva a restare indifferente alle lacrime di quel ragazzo e poteva capire che forse, al momento, sentiva solo il bisogno di un po' di conforto e vicinanza, di essere compreso. Perciò non disse niente, gli cinse la schiena con un braccio e lo accostò delicatamente a sé. L'intensità con cui Godric gli avvolse le braccia attorno al torace gli fece mozzare il fiato. «Ehi, piano! Non sono imbottito di cotone» scherzò.
Lo inteneriva così tanto, però, che non resisté all'impulso di accarezzargli i capelli. Godric intanto, a occhi chiusi, ascoltava ipnotizzato il suo cuore battere, come se quel suono avesse un potere speciale di instillare in lui la calma e la serenità. Sarebbe rimasto per sempre ad ascoltarlo. Piangeva in silenzio e pregava che Dante avesse un ripensamento, come a volte accadeva nei film quando uno dei due protagonisti capiva di aver detto solo fesserie e alla fine baciava l'altro protagonista, mandando al diavolo tutto quanto.
Ci sperò intensamente, ma non avvenne niente di tutto questo.
Quando Layla entrò senza far rumore, vide l'avvocato seduto sul divano con il capo di Godric sulle ginocchia. Si scambiarono un lieve sorriso. «Sta meglio?» chiese lei a bassa voce.
Jones annuì. «Telefona ai suoi genitori. Di' loro che sta per tornare a casa e che lo accompagno io perché ha avuto un malore passeggero dopo un bel po' di ore di lavoro. Non serve allarmarli per niente.»
La donna fece un cenno e uscì. Dante piano piano scivolò via e recuperò la giacca da una seggiola su cui aveva posato l'indumento. Se la rimise addosso e poi, attento a non svegliare il ragazzo, prese fra le braccia quest'ultimo e uscì dalla sala.
Solo per un momento lo attraversò il flash fugace di un ricordo di anni prima. In quella rimembranza, però, non aveva trasportato il corpo di un giovane addormentato, ma di un uomo adulto dai vestiti incrostati di sangue e il cranio sì e no ridotto a brandelli a suon di pugni. Ricordò le proprie mani che per giorni avevano recato dei tagli e delle ferite sulle nocche. Ricordò il sangue invisibile che mai era riuscito a lavar via da quel giorno, se non tentando di punire altri criminali perché in fin dei conti non aveva avuto il coraggio di affrontare la propria, di punizione. Fra tanti mostri, forse lui era il peggiore di tutti.
Non aveva mentito a Godric quando aveva detto di aver fatto una cosa orribile. Era quello il suo scheletro nell'armadio e aveva sempre protetto Talia da quella verità, dalla realtà di avere per marito un assassino.
Godric meritava di meglio eccome e se solo avesse saputo tutto, gli avrebbe anche dato ragione e non avrebbe dormito così beatamente in braccio a lui.
«Perciò... hai appeso al chiodo il distintivo e d'ora in avanti insegnerai e basta?»
Sistemò meglio fra le braccia Rosie che, da quando era nata, finalmente aveva conosciuto il famigerato zio Dante. Doveva ammettere che la bimba era un piccolo raggio di sole e di essersi pentito sul serio di aver perso così tante cose importanti avvenute nella vita del fratello.
Tutto per cosa, poi? Per screzi di famiglia? Per essersi urlati contro a vicenda colpe mai affrontate?
La morte di Talia gli aveva aperto gli occhi e ricordato che era ancora in tempo per sistemare situazioni rimaste in sospeso. Aver visto Dario in punto di morte, in un letto d'ospedale, era equivalso a ricevere un ceffone che lo aveva fatto rinsavire.
Lo osservò adagiare con cura Esther nella culla e insieme uscirono dalla stanza dei neonati, Rosie sempre stretta a lui.
Dario si appoggiò alla porta. Dire che lui e Max non avevano avuto un attimo di pace da quando i gemelli erano arrivati in casa e Rosie era tornata, sarebbe stato riduttivo. Se tutto andava bene, dormivano in media quattro ore a notte e mai di fila. Lui al giorno restava coi bambini e si dava da fare con le faccende e Max andava a lavorare.
Per qualche ragione la vita che solo tempo addietro aveva sempre condannato e visto in negativo, era poi riuscito ad apprezzarla e ad accettarla al fianco di un ragazzo che si mostrava premuroso con tutti loro e specialmente con lui. Max non batteva la fiacca, quando era presente, e gli consentiva di riposare quand'era possibile. Si scambiavano i ruoli dove poteva esser fatto e andava bene in quel modo. Era giusto, era sano, era produttivo.
«Sì... però... ho deciso di aspettare finché i gemelli e Rosie non avranno almeno tre anni. Fino ad allora voglio godermeli un po' e far tesoro di ogni giorno. Il resto può attendere, e se non lo fa... beh, non è la fine del mondo. Restare a casa e prendermi cura della mia famiglia, con quello che ho passato e ho capito di non voler tornare a essere, è il dono più grande che potessi ricevere da parte della seconda possibilità che mi è stata data. Sono vivo, i miei figli sono al sicuro fra le mie braccia e nessuno può portarmeli via.»
Dante abbozzò un sorriso. «E Gareth? Che fine ha fatto?»
«Non lo so e non mi importa. Ha l'ex baby-sitter di Rosie da spupazzare. Se lo facesse bastare e avanzare. Rosie sta con me, com'è giusto che sia. Lui ci ha solo infilato uno spermatozoo e si è finto un padre esemplare che nel tempo libero si sbatteva un ragazzino che ha la metà dei suoi anni. Non merita neppure un altro secondo del mio tempo.»
L'altro sospirò. «Non per rigirare il coltello nella piaga, ma ricordi cosa ti dissi a un certo punto al funerale di zia Alba, quando lui non era presente?»
«Sì, lo ricordo, ma non puoi biasimarmi per non aver dato peso alle tue parole. Tu eri una testa di cazzo e io lo stesso. Parlavamo lingue troppo diverse.»
«E ora no?»
«Non mi dispiacerebbe ogni tanto strapazzarti, lo ammetto, ma siamo fratelli e questo d'ora in avanti dovrà essere sempre la cosa più importante fra di noi. Va bene?» Dario si staccò dalla porta e insieme al fratello avanzò nel corridoio. «Di Max che ne pensi, invece?»
«Beh, direi che hai fatto un notevole salto di qualità. Un medico fa sempre la sua porca figura e in famiglia torna assai utile.»
«Dico sul serio, dai!»
«È un bravo ragazzo, glielo si legge in faccia, e tu lo tieni al laccio, altro che storie. Che gli fai a 'sti uomini, si può sapere?»
«Se proprio vuoi saperlo, ci stiamo andando piano e non abbiamo fatto un bel niente. Al massimo crolliamo a dormire sul divano vicini, ma niente più di questo. Dopo un giorno intero passato a cambiare pannolini e a scandire le poppate il mio ultimo pensiero è fare sesso. Anche se ammetto che ne avrei un disperato bisogno.»
Alla fine aveva scelto di andare da uno psicologo e a un certo punto gli era stato detto che era sempre un bene tornare in confidenza con il proprio corpo e la propria vita sessuale, ma non era semplice per lui come lo era per altri. Gli abusi avevano contribuito ad accrescere il disagio con quell'argomento e quella delicata sfera personale. La sua mente spesso, anzi sempre, collegava il rapporto intimo a qualcosa di traumatico e di negativo, qualcosa che poteva solo arrecargli dolore e umiliazione.
In quanto al rifiuto nei confronti di Rosie, la depressione dopo il parto e così via, un motivo più profondo c'era stato sin dall'inizio, solo che mai aveva voluto ripensarci e soffermarvici. Era la stessa ragione per cui odiava a morte le violette, fiori che di per sé non avevano niente di orribile, ma lui li collegava automaticamente a una piccola fossa scavata proprio sotto un'aiuola con quei fiori. In quella fossa aveva visto sparire una parte di sé per sempre, oltre che alla propria innocenza e poca fiducia rimasta nei confronti del nucleo famigliare.
«Io... io devo dirti una cosa, ma devi promettere di non incazzarti e di non reagire male, specie perché hai in braccio Rosie.»
Sentiva di doverglielo dire. Era giusto che suo fratello sapesse.
Dante capì che era una questione seria. «Okay» replicò incerto.
«Lo zio Gabriel... lui...», il minore gesticolò. «S-Si prendeva con me delle libertà. Diciamo così. Lo ha fatto per anni. Poco dopo che te ne andasti di casa, io... s-scoprii che qualcosa in me non andava. all'inizio mi parve solo di aver messo su peso. Non mi rendevo conto di cosa significava, la mamma non era una che si metteva a parlare con uno dei suoi figli per spiegargli come funzionava un rapporto intimo e a quali conseguenze poteva portare. Non capivo, ma mi vergognavo di quello che pensavo essere un problema. Cercavo di nascondere tutto indossando degli abiti meno aderenti e inventavo scuse per non fare attività fisica. Vomitavo tutte le mattine. Poi, dopo sette mesi scarsi, la sera iniziai a star male. Non riuscivo a dormire, avevo dei forti dolori. Non ricordo bene quelle ore da incubo, ricordo solo di aver visto sulle lenzuola insanguinate quella piccola creatura morta. Non mi capacitavo di come una cosa del genere fosse potuta uscire da me. L'avevo ignorata per mesi, mi ero rifiutato di accettarla e di darle ascolto, ma... penso che accadde perché Gabriel, prima di cena, per un motivo che neppure ricordo mi trascinò in una stanza e mi picchiò, mi gettò a terra e caddi in avanti. Penso che l-lui sia... sia morto in quel momento. Non poteva sopravvivere dopo una caduta del genere e per questo mi sono spaventato a morte quando ho visto di nuovo il sangue, prima che i gemelli arrivassero. Credevo che sarebbe finita di nuovo in quel modo.»
Non aveva mai detto niente a nessuno, neppure all'ex-marito. Spaventato a morte, si era alzato dal letto, aveva messo in una federa il corpicino e l'aveva seppellito in quella dannata aiuola.
Si era liberato delle lenzuola nascondendole prima nell'armadio e poi, nel pomeriggio del giorno seguente, bruciandole nel bosco poco distante da casa, insieme anche al pigiama.
Non aveva voluto conservare niente di quella notte e aveva scelto di dimenticare, di fare come se si fosse solo trattato di un brutto sogno, come se tutti i giorni in cui era tornato a casa da scuola non ci fosse nessun cadavere di neonato sepolto sotto dei fiori viola in una misera federa. Mai aveva osato guardare in quella direzione, ripetendosi che là sotto non c'era niente di niente, che era tutto solo nella sua mente.
Ma non era così e insieme allo psicologo aveva affrontato quella notte orribile, l'aveva superata e dentro di sé aveva chiesto scusa e perdono a quel figlio nato morto e del quale aveva scelto di infischiarsene volutamente. Aveva perdonato un ragazzino ignorante che si era ritrovato a dover affrontare da solo una gravidanza di cui non era stato pienamente consapevole.
Ecco perché non aveva voluto vedere Rosie, abbracciarla e stare con lei. Ecco perché poi, con i gemelli, non aveva voluto ripetere l'errore e si era goduto ogni attimo dopo la loro nascita. Aveva dato un nome a quel bambino mai nato sul serio e poi lo aveva lasciato andare per sempre in modo che non lo perseguitasse mai più e potesse finalmente riposare in pace. L'aveva chiamato Daniel. Il suo piccolo Danny.
Dante era sconvolto e si sentiva anche in colpa, responsabile dell'accaduto, in qualche maniera. Lui avrebbe dovuto trovarsi lì a proteggere i suoi fratelli, specialmente Dario, ma non l'aveva fatto.
«Beh...» disse, la voce strozzata. Aveva lo sguardo lucido. «Direi che in un modo o nell'altro... il caro zio Gabriel abbia infine pagato per tutto quanto, compreso quel bambino che ha ammazzato di suo pugno.»
Dario sorrise amaramente. «È morto nel suo letto, nel sonno. Non direi proprio che sia andato in prigione come avrebbe invece meritato o pagato in qualsiasi altra maniera. Sono sempre gli innocenti a pagare.»
Dante accarezzò per un attimo il capo alla nipotina, poi: «Gabriel non è morto nel sonno. L'ho ucciso io».
Il minore quasi gli rise in faccia, non sapendo se fosse uno scherzo o simili. «No che non l'hai fatto! Ha avuto un infarto mentre dormiva! Me l'ha detto una mattina la...»
«La mamma, vero?» incalzò calmò l'altro, ma i suoi occhi parlavano, gridavano la verità. «Lo ha fatto solo per non renderti complice di un segreto del genere e dare a me un alibi solido nel caso le cose fossero andate male. Le ho detto io di farlo. Io ero lì mentre lei parlava con te al telefono. Avevo ancora gli abiti sporchi di sangue, le mani incrostate di rosso. Avevo addosso l'odore di morte perché la sera prima avevo ammazzato di botte Gabriel fino a ridurgli il cranio in poltiglia. L'ho sempre odiato, ma poi... quella sera aveva alzato davvero il gomito e aveva iniziato a dire delle cose strane su di te. Io ero lì che lo incoraggiavo e intanto in me cresceva la rabbia. Nella mia mente sapevo già cosa avrei fatto. Confessò tutti gli abusi ai quali ti aveva sottoposto, definendoti in modi che non oso ripetere davanti a te. Non ci vidi più, accadde tutto... non lo so, al massimo passarono dieci minuti, ma furono i più lunghi di tutta la mia vita. Lo presi a calci, poi a pugni. Smisi solo quando mi resi conto che stavo solo rimestando in quel che restava del suo cranio e del cervello. L'ho ammazzato io, Dario, e se solo tu fossi ancora un poliziotto... t-ti chiederei di arrestarmi e farmi avere finalmente la punizione che merito. Gabriel era un mostro, ma io lo sono diventato uccidendolo. Ho manipolato nostra madre perché sapevo che mi amava troppo per denunciarmi alla polizia. Volevo tornare da Talia e dimenticare tutto, dimenticare che avevo ucciso una persona e non ero migliore di quelli che facevo condannare alla pena capitale.»
Col senno di poi sapeva di aver fatto un errore. Nessuno aveva il diritto di stabilire quando la vita di un altro essere vivente dovesse giungere al termine. L'omicidio non era mai giustificabile né perdonabile.
Dario non disse niente. Era scombussolato e sconvolto. Prese delicatamente Rose dalle braccia del fratello, ma poi fece una cosa che quest'ultimo mai si sarebbe immaginato: gli pose una mano sulla spalla e lo guardò negli occhi. «Se tu me lo avessi detto... se io fossi stato lì quella sera... ti avrei solo aiutato ad ammazzarlo e mi sarei poi raccomandato con te di scavare una fossa abbastanza profonda. Non avrei mai consegnato alla giustizia mio fratello. Piuttosto mi sarei addossato la colpa.»
Forse era vero: non era mai stato un bravo poliziotto, ma a quel punto dei fatti poco gli importava.
Dante aveva fatto ciò che la giustizia e gli assistenti sociali non avevano avuto la voglia né il tempo di fare: punire chi aveva solo inflitto sofferenze e umiliazione alla propria famiglia.
Chi faceva del male a un ragazzino, a un bambino, era solo feccia della peggior specie e in tal modo andava trattato.
Strinse a sé il fratello con il braccio libero e lo sentì soffocare i singhiozzi sulla sua spalla. Sospirò e chiuse gli occhi. «Non sei un assassino. Non hai più ucciso nessun altro» lo rassicurò. «E ti ho perdonato per esser andato via quando ti ho visto al mio risveglio in ospedale. Ho ricordato che sei mio fratello e che il resto non conta.» Si scostò per guardarlo. «E per tornare al discorso di cui parlavamo quando sei arrivato, a mio parere dovresti vivere, finché ti è permesso di farlo. Talia se n'è andata, è vero, ma tu sei vivo, sei ancora qui, e lei vorrebbe vederti di nuovo felice. Non ti dico di tornare alla normalità dopo solo tre settimane di lutto, ma ora devi concentrarti sui tuoi figli, Dante, e prenderti cura anche di te stesso.»
L'altro annuì. «Mi sei mancato, comunque. Davvero.» Non che fossero mai andati d'accordo da ragazzi, ma pochi fratelli erano sempre in armonia gli uni con gli altri. Il bello stava proprio nei bisticci e nelle continue ripicche, nei dispetti e nelle tregue.
Dario sbuffò una risata. «Non me ne sono mai andato. Siamo gemelli, no?»
Non fecero in tempo a parlare oltre che dalla stanza dei bambini provenne un chiasso tipicamente infantile.
«Vado io. Finché sono qui posso rendermi utile, almeno quando si tratta di loro.» Dante andò nella cameretta e il fratello, curioso di vederlo in azione, lo seguì e vide fermarsi davanti alle culle.
Lo zio dei piccoli gemelli incrociò le braccia. «Allora, che è 'sto casino?» chiese serio, sapendo che potevano capirlo. I neonati sin da subito erano reattivi e percettivi, imparavano in fretta a interagire con il prossimo.
Mytra ed Esther si scambiarono uno sguardo in maniera buffa e poi la bambina, con un adorabile e capriccioso broncio, a tradimento lanciò il sonaglino dritto in un occhio dello zio.
L'uomo si tenne il punto colpito e si voltò a fissare il fratello. «Ma dico! 'Sti due li hanno clonati da te, per caso?!»
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