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𝐗𝐗𝐈𝐈𝐈. 𝐈𝐧𝐜𝐮𝐛𝐨

E vieni, vieni che ti porto nel mio passato
Tra i fantasmi dell'infanzia e gli scheletri nell'armadio
Il giorno in cui tutto è cominciato
MS, siamo tornati, solo per bere il sangue versato
Perdona tutti i miei peccati, padre
Prima di vedere il sole tramontare
Prima che il mio cuore cominci a gelare
Noi siamo l'origine del male
Perdona tutti i miei peccati, padre
Prima di vedere il sole tramontare
Prima che il mio cuore cominci a gelare
Noi siamo l'origine del male
Il sangue macchia il pentagramma
L'obiettivo che mi tiene vivo
Scrivo la tua condanna, innovativo



𝐀𝐭𝐥𝐚𝐬

Riprese improvvisamente conoscenza. Ricordava poco di ciò che era successo poco prima. Le braccia gli dolevano e in pochi istanti capì di essere in piedi, incatenato. Le braccia aperte e allargate verso l'esterno. Le catene stringevano i polsi ed erano tirate fino agli angoli della stanza. Si lasciò sfuggire un rantolo di dolore. Aveva i muscoli indolenziti. Avrebbe voluto che gli urlassero che fosse finita, che lo zittissero per sempre, almeno avrebbe smesso di soffrire tanto. Il clangore delle catene risuonò nel silenzio.

«Hai deciso di svegliarti, Jeremiah.»

Atlas storse il naso. Alzò lo sguardo verso Perez e sentì il sangue ribollirgli nelle vene. «Credo tu mi abbia quasi scambiato per Gesù Cristo, psicopatico del cazzo.»

«Ho fatto un piccolo cambio di programma, dato la tua predisposizione ad attaccare tutti i miei umili infermieri, pecore del mio gregge-»

«O anche altri poveri disgraziati che credono davvero che tu possa essere il Salvatore del nuovo mondo.» Atlas si mosse nervosamente, ma le catene gli impedivano di muoversi. I muscoli erano indolenziti e si ostinava ad ignorare il fatto che non avesse alcun maglione addosso, nemmeno una canotta. Le sue cicatrici, le ustioni, erano esposte come quando era un ragazzino e avrebbe voluto soltanto scomparire. Socchiuse gli occhi, stanco.

L'uomo avanzò nella sua direzione. «C'è bisogno che a questo mondo, tutti quelli come te o che ti somiglino, i tuoi piccoli "eredi" vengano rieducati. Sto solo aiutando le famiglie di quei poveri ragazzini...» Si portò le mani avanti, dondolando appena sui piedi.

Atlas non riusciva nemmeno a guardarlo negli occhi, si sentiva come inghiottito da un turbine di ricordi, che non voleva risvegliare. Era sopraffatto anche dal suo sguardo. Gli occhi scuri come il petrolio lo osservavano come fosse finalmente l'oggetto più prezioso, che gli era stato confiscato dalle mani. I capelli erano ormai grigi. Aveva avuto l'aiuto di diverse persone, ne era certo. Aveva fondato una piccola setta, tutti credenti infervorati che credevano alle sue parole. Atlas, per Perez, era come l'anticristo, era convinto che eliminandolo, secondo le sue assurde concezioni e procedure malate, avrebbe tolto il seme del male dal mondo. Le gambe erano deboli per sferrare qualche calcio, facendosi forza sulle braccia, già di per sé così indolenzite, che sembrava lo avesse colpito com aghi invisibili nei punti più nevralgici. Tirò su il capo. Le gocce di sudore imperlavano la sua fronte, scivolando lungo il mento e cadendo poi a terra. «Come fai ad essere ancora vivo?»

«Oh una domanda interessante.» Perez giocherellò con l'accendino e Atlas deglutì. Troppi ricordi. Non era pronto ancora una volta a quel genere di trattamenti. Quando era un ragazzino accettava passivamente quegli abusi o purificazione del suo animo, così come gli piaceva raccontarlo. Adesso, da adulto, si sarebbe di certo ribellato, magari spaccandogli il volto. Per questo lo aveva incatenato. «Quel giorno, quando tuo padre decise di interrompere il tuo cammino sulla retta via, ero venuto con un mio collaboratore, ma tu ormai stavi scappando, non potevi saperlo.»
Atlas corrugò la fronte. Scosse il capo. Così impegnato a manomettere il gas, quasi in modo smanioso, non si era accorto di una voce in più. Ricordava la sensazione delle orecchie ovattate, l'eccitazione che solo la libertà poteva dare. «Così, dallo sguardo di tuo padre, capii che qualcosa non andasse. Abbiamo discusso e sono uscito subito fuori, a prendere una boccata d'aria, mentre il mio collaboratore cercava di farlo ragionare. Ti ho visto mentre scappavi a gambe levate e ho capito fosse una trappola. Ti ho imitato e sapevo che in un'esplosione i corpi sarebbero stati irriconoscibili.» Si passò una mano in volto, poi gli sorrise, facendogli raggelare il sangue nelle vene. «Seguii il tuo interrogatorio, tramite un vecchio amico, e scoprii che dicesti che non eri in casa, ma che ci fossimo io e tuo padre. Hai raccontato tutto quello che ti succedeva e la polizia voleva chiudere presto il caso. Hanno dato per scontato che io fossi l'altro morto. Quel poliziotto condivideva le mie idee, mi ha permesso di ricominciare lontano.»

Atlas sentiva il cuore battere con violenza nel petto. Poteva percepirne i rimbombi, i tonfi. Scosse il capo nervoso, si agitò. Avrebbe voluto distruggere quelle catene, se solo ne avesse avuto la forza. Si sentiva paralizzato ed era una sensazione che non provava più da anni. Non era mai stato libero davvero. La gola era secca, non riusciva a parlare. I suoi occhi guizzavano per la stanza, alla ricerca di una soluzione, sebbene non ce ne fossero.

Perez gli camminava attorno, disegnando cerchi e abbassando e rialzando il cappuccio dell'accendino. Come a provocare riflessi in lui. Si chiese quando avrebbe cominciato con la sua opera, il solito trattamento. «Sai, ti devo ringraziare. Mi hai permesso di nascondermi e conoscere altre persone che condividono i miei ideali. Il male dev'essere scacciato via Jeremiah, e tu ne sei un lampante esempio. Non è un caso se il nostro Signore ha fatto incrociare le nostre strade, figliolo

Atlas non riusciva a sentire nulla. Il fiato era corto e le orecchie gli fischiavano. Aveva l'opprimente sensazione che la stanza si stesse restringendo. Le pareti erano sempre più vicine. Stava soffocando.

«Ho accolto il mio gregge, avevano bisogno di me. E quando mi parlavano di bambini problematici almeno in parte quanto lo eri tu, non potevo starmene fermo a guardare... dovevo agire, lo capisci, no?»

Atlas prese fiato. Provò a prendere un grosso respiro, ma la voce si liberò debolmente dalle sue labbra, forse tremolante. «Tieni anche loro qui?»

Perez si posizionò alle sue spalle. Sapeva bene cosa sarebbe successo, ma non era pronto. Non ancora. Fece per ribellarsi, ma le catene lo tenevano bloccato. Boccheggiava. Socchiuse gli occhi, non avrebbe urlato, non avrebbe mai dato la soddisfazione a quell'uomo di avere ancora così tanto potere su di lui e sulla sua mente. «Certo che no. Dopo aver concluso con te, in questi giorni, tornerò da loro. Saranno finalmente liberi. Nel frattempo stanno studiando bene la Bibbia. Hanno bisogno di sapere cosa sia davvero il bene e cosa il male.»

Sentì la schiena riscaldarsi. Poteva percepire il fuoco bruciargli la carne e si morse un labbro, così forte da spaccarlo. «E-» Rabbrividì nervoso. Odiava le reazioni incontrollate del suo corpo. «E credi di sapere davvero quale sia la differenza?»

«Jeremiah, tu sei stato il mio unico peccato. Con te, avrò eliminato qualsiasi parassita del male nel mio corpo.» Sentì la schiena bruciare, ancora. Si sentiva quasi marchiato a fuoco, le vecchie cicatrici e ustioni sembravano ardere ancora più forte di prima. Era doloroso. Non era solo un accendino, non aveva idea di cosa stesse usando e non aveva intenzione di volerlo sapere. Sentiva solo la pelle lacerarsi e avrebbe voluto spegnere qualsiasi sensazione per non provare ancora quel dolore.
Dopo un tempo che, avrebbe definito infinito, sentì il proprio corpo cedere alla stanchezza, provato e sfinito da tutto quello.

Atlas aveva sempre creduto che la Morte poteva soltanto essergli lieve e che le fiamme dell'Inferno -qualora esistesse davvero- sarebbero state nulla in confronto a ciò che aveva vissuto per anni. Aveva imparato bene a sopportare il dolore soprattutto quello fisico. Quello spirituale, invece, a stento lo toccava, era consapevole che il mondo non gli avrebbe mai riservato nulla di buono, vista la sua natura, e si era semplicemente abituato a quell'idea, se n'era rassegnato. Non provava senso di colpa per quello che faceva, né se ne vergognava. Ne aveva bisogno, era cresciuto con la violenza e sarebbe vissuto sempre con quella. Si era dato solo delle regole, forse per non impazzire del tutto o per rispettare un padre che alla fine l'aveva perdonato e salvato.
Suo padre gli aveva insegnato a uccidere, poco dopo che aveva eliminato il gatto dei vicini. Azione che, tra l'altro, ancora lui stesso non riusciva a perdonarsi. Gli aveva insegnato come tenere un'arma in mano, come mirare e chi uccidere.
Eppure, non aveva mai ucciso nessuno fino ai quindici anni. Il primo era stato nel periodo dell'orfanotrofio, quando ormai non riusciva più a tenere tutto dentro.

Lo ricordava ancora, lucidamente. Era nella sua camerata. Guardava fuori dalla finestra. La Notte era tranquilla quella sera e le stelle erano ottime compagne, circondando e dipingendo il cielo.
Era un venerdì, avevano la serata libera. Erano costretti a ritornare dopo un certo orario o le cavigliere elettroniche avrebbero suonato e li avrebbero individuati. Avsva provato già abbastanza i colpi del guardiano, eppure sentiva una voglia irrefrenabile di uscire fuori e creare scompiglio. Negli ultimi tempi non poteva far a meno di studiare e leggere interi libri di anatomia. Adesso che non aveva più quelle torture da un anno, sentiva di dover dare sfogo a tutta la propria rabbia. Era un'esigenza, forse anche un po' di curiosità.

«Allora, che facciamo? Mi annoio e Nat e Pam stanno guardando quei soliti programmi demenziali alla televisione in salotto.» Killian, il suo amico di camerata si tirò in piedi. Era magro, ma impossibile da destabilizzare. Non riusciva mai a farlo cadere a terra o a fargli perdere l'equilibrio. Era l'unico, insieme a una sola ragazza, Natalia, di una decina d'anni più piccola di loro, con cui parlava.

«Vorrei uscire.»

«A fare?»

«Vuoi davvero saperlo?»

Killian ghignò. Uno strano luccichio gli illuminò lo sguardo scuro. Una volta gli aveva detto che un punto molto sensibile al dolore erano i polpastrelli. «Vuoi andare a divertirti?»

Atlas inclinò il capo. «Vuoi venire con me?»

«No, ti coprirò nel caso la vecchia pazza voglia sapere dove sei. Dirò che sei chiuso in bagno per il mal di pancia, ha sempre paura delle puzze...» Si abbassò sotto il letto e tirò fuori il piccolo set da chimico che era riuscito a farsi regalare lo scorso Natale. Gli lanciò dei guanti. «Questi ti torneranno utili, hai idee?»

Atlas si tirò in piedi, tranquillo. Era eccitato, non sapeva come spiegarlo. Finalmente aveva modo di mettersi alla prova. «Il vecchio barbone della stazione. Quello che prova sempre ad abusare di tutti noi ragazzini quando prendiamo il treno.»

«Uhm.» Killian scrollò le spalle. «Nobile da parte tua. Ha sempre con sé una mazza da baseball, puoi usare quella.»

«So cavarmela, Kill.»

L'amico gli aprì la finestra. Indicandogli di percorrere il cornicione e saltare poi sui sacchi della spazzatura ammucchiati. Avrebbero retto il peso e l'urto. «Oh, ma non ne ho dubbi, amico.» Allungò lo sguardo sulla balaustra e sorrise. «Ci sono anche i corvi questa sera. È di buon auspicio.»
Atlas lo trovava strano quando si fermava a guardare quei volatili, ma d'altronde chi di loro in quel posto non aveva qualche ossessione un po' particolare. Killian a volte lo spaventava, quel ragazzino era inquietante e indifferente, per avere solo tredici anni.

Ricordava quella sensazione, mentre scappava dall'orfanotrofio, dirigendosi verso la metro, senza paura della notte e del mondo. Quel posto era abbandonato e sudicio. Mentre seguiva le scale che portavano al piano inferiore, la puzza di piscio gli fece storcere il naso e contorcere le viscere.
Teneva un passamontagna in volto, sempre gentilmente offerto dal suo amico Killian e aveva alzato il colletto del capotto, riparandosi meglio dal freddo. Le mani, rinchiuse nei guanti di pelle, erano nascoste nelle tasche del cappotto nero.
A volte rimuginava sul fatto che la sua vita non fosse affatto cambiata, si era soltanto evoluta. Probabilmente era una storia già scritta e adesso aveva la possibilità di essere se stesso, portare avanti la propria etica e le proprie idee. Era ben lontano dalle urla e dal dolore di casa, eppure ne portava sempre una parte con sé, completava l'opera. Di fatto, eliminava davvero il marcio dal mondo.
Atlas non avrebbe mai dimenticato quella notte, quella bramosia. Aveva sfilato la mazza da baseball e colpito alle gambe quel barbone, più volte. Un colpo dopo l'altro. Aveva avuto la sensazione che le sue gambe si stessero disintegrando sotto le sue mani. Aveva indossato i guanti ed era fortunato che in quella metropolitana abbandonata non ci fosse nemmeno una telecamera o controllo.
Nei giorni successivi ne installarono molte, dopo che la notizia si diffuse senza aver trovato alcun colpevole. Eppure, le persone raccontavano ai notiziari di sentirsi sollevati. Molti non scendevano a quella fermata a causa di quell'uomo.
Quando lo aveva colpito alle spalle stava urlando a squarciagola, forse dopo una dose di troppo. Quando aveva percorso le scale aveva visto come nessuno era uscito dal treno a quella fermata, così come i volti inorriditi e spaventati di molte persone.
Era rimasto, poi, per qualche istante a fissare il suo corpo senza vita. Gli occhi erano ancora sgranati in un'espressione malefica e quasi crudele. «Almeno adesso non darai fastidio più a nessuno, vero?» Gli aveva dato le spalle ed era corso via. Era stato appagante.
Aveva sentito finalmente di essere se stesso. Si era poi arrampicato fino al balcone della loro camerata e ne aveva parlato col suo amico.
Avevano diverse idee assieme.

Al suo risveglio, la schiena gli doleva. Non riusciva a muoversi sul letto e avrebbe voluto urlare dal dolore. Si sentiva andare a fuoco e tutti i muscoli erano intorpiditi. Avrebbe voluto svegliarsi morto. Aprì con lentezza gli occhi. Era di nuovo in quella stanza isolata, con una camicia di forza a bloccargli le mani e a togliere ossigeno sia a lui sia alla pelle ustionata e bruciata. Non si sarebbe sorpreso se fosse anche completamente sporca di sangue. Si mosse per spostarsi sul fianco e un rantolo addolorato si liberò dalle sue labbra. Sentì i conati di vomito salire lungo la gola e si trattenne. Gli sembrava di star vivendo in un Inferno. Forse sarebbe stato più semplice se tutto si fosse fermato lì, niente sarebbe stato più come prima.

«Finalmente ti sei svegliato, reggevi meglio da bambino.» Perez trascinò una sedia, accomodandosi di fronte a lui e studiandolo come fosse il proprio agnello sacrificale, il suo preferito.

Atlas avrebbe voluto ricordargli che era stato lasciato a penzolare alle catene per chissà quanto tempo e aveva assunto una dose piuttosto alta di tranquillanti. Le sue forze erano sempre più basse ed era stanco. Era facile crollasse prima e, inoltre, era certo non si fosse limitato all'uso dell'accendino, ma a qualche fiamma più alta. «Che cazzo vuoi ancora?»

Perez sorrise, sadico. «Mi odi tanto, Jeremiah, ma siamo più simili di quanto tu possa pensare, credimi.»

Atlas avrebbe voluto urlare e ridere assieme. Forse l'avrebbero preso davvero per pazzo. Maledisse la stanchezza del proprio corpo o gli avrebbe mollato una testata sul naso come aveva fatto con quell'idiota di un medico. Non vedeva l'ora di uscire vivo da lì solo per poterlo uccidere con le proprie mani. «E illuminami, come credi che possa essere vero quello che dici?»

Con la coda dell'occhio lo vide scrollare semplicemente le spalle, in un gesto un po' annoiato. «Tu non uccidi gli innocenti, solo chi credi lo meriti e che rappresenti il marcio. Io faccio lo stesso con te. Non vedo perché dovresti odiarmi.»

Atlas avrebbe voluto stringere i pugni, alzarsi e urlare. Fissò, invece, il soffitto bianco e serrò la mandibola. «Io sono solo il mostro che tu e mio padre avete creato.»

Perez si tirò in piedi e scosse il capo, deluso. «Quando ho dato un'opportunità di salvarsi a quella puttana di tua madre, credevo mi avrebbe dato un figlio utile a qualcosa. Invece, è scappata da me e mi sono ritrovato ad avere un demonio come erede. Ti estirperò da questo mondo. Sei solo un seme piantato male.»

Si allontanò, richiudendosi la porta alle spalle. E Atlas sentì per la prima volta il dolore della verità cadere su di sé come un macigno. Per una volta, non era più sicuro di poter reggere ancora tutto quel peso sulle spalle.








Angolino
Ed ecco il colpo di scena di questa storia.
Perez è il padre naturale di Atlas💀
È l'uomo (se possiamo chiamarlo così) che ha violentato sua madre.
Ve l'aspettavate?
Spero che almeno sta volta sono riuscita a tenervelo nascosto.
Alla prossima 💕

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