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𝐂𝐚𝐩𝐢𝐭𝐨𝐥𝐨 𝐗𝐕. 𝐈𝐥 𝐦𝐢𝐨 𝐝𝐨𝐧𝐨 𝐩𝐞𝐫 𝐭𝐞


~ 𝟏𝟓𝟓𝟏 ~
𝐹𝑖𝑟𝑒𝑛𝑧𝑒, 𝐼𝑡𝑎𝑙𝑖𝑎

Era passata la mezzanotte quando Askan, finalmente, giunse presso la maestosa residenza dei De Piacentis. Nel cortile principale non c'era nessuno, ma ciò non lo stupiva, visto che era molto tardi, tuttavia percepiva qualcosa di strano nell'aria: troppa calma, troppo silenzio. Le finestre erano buie, salvo per una di esse dalla quale filtrava una fioca luce.

Spero che non sia successo nulla e di non esser arrivato troppo tardi. Quel ragazzo deve assolutamente allontanarsi da qui o rischia di mettere in pericolo se stesso e la sua famiglia.

Dopo esser sceso da cavallo, si fece coraggio, percorse il vasto e sontuoso piazzale ornato di aiuole e piante lussureggianti, così come di una grande fontana la cui protagonista era una ninfa dal dolce sorriso. Eppure, nelle tenebre della notte, complice anche la strana aria che tirava in quel luogo al momento, l'espressione della marmorea fanciulla sembrava assumere quasi connotati sinistri. Il vampiro si ripeté che stava andando tutto bene e che non c'era nulla di cui preoccuparsi, ma sapeva di star solo mentendo a se stesso.

Si avvicinò con un po' di esitazione alle porte e non ebbe difficoltà alcuna ad aprirle. Non per via delle proprie capacità, ma perché la serratura non era stata rinforzata da alcun giro di chiave. Era bizzarro che un maniero come quello fosse stato lasciato incustodito a quel modo.

Qualcosa non andava, altro che storie. Nell'ampio atrio tutto gli pareva nella norma, a parte un odore familiare che di certo non si percepiva spesso in un'abitazione. I sospetti di Askan trovarono fondamento quando egli, accigliatosi, si chinò e sfiorò il pavimento laddove esso era sporco di sangue. Non si trattava di una pozza, non del tutto. Era come se chiunque avesse riversato a terra il contenuto delle proprie vene fosse poi stato trascinato via, lasciandosi dietro una scia rosso scuro. Il vampiro, col cuore in gola, strofinò le dita le une sulle altre e dalla consistenza del sangue capì che era ancora piuttosto fresco, non si era ancora raggrumato né seccato, anche se era ovviamente freddo.

Ciò che era certo, era che di recente fosse accaduto qualcosa di orribile là dentro e lui, in parte, non voleva realmente scoprire di cosa si trattasse.

Accidenti, pensò angosciato, seguendo con lo sguardo la direzione della scia e notando che quest'ultima proseguiva dentro una stanza ben precisa, la stessa dalla quale proveniva la luce che poco fa Askan aveva visto al proprio arrivo. Si rimise in piedi e a passo lento, con prudenza, senza far rumore, avanzò fino a raggiungere le porte quasi del tutto aperte. Su di esse ebbe modo d'osservare altri schizzi di sangue, così come l'impronta strascicata di una mano che inutilmente aveva tentato di aggrapparsi al legno pur di sfuggire, invano, a un orrendo destino già segnato. Il vampiro, di istinto, essendo sempre stato, sin da prima di venir trasformato, animato da una solida credenza cristiana, portò una mano al minuscolo crocefisso appeso a una catenella che portava al collo. Strinse forte, implorò Dio di dargli il coraggio di esaminare la scena terrificante che si era appena presentata ai suoi occhi.

C'erano, infatti, tre corpi a terra e le loro gole parevano esser state dilaniate da zanne acuminate o, meglio ancora, da una belva feroce. Erano le inequivocabili tracce di un vampiro, seppur non di uno qualsiasi. Pochi di loro erano vittime di istinti fino a tal punto animaleschi e sanguinari, pochi si arrischiavano a sfiorare vette di ferocia così biecamente ambite. Se solo non avesse in parte già capito chi fosse stato l'artefice del delitto, Askan avrebbe forse pensato immediatamente al fratello, ma no... quella non era stata opera di Arwin, bensì, sicuramente, della sua vampiresca prole.

Eppure stentava a credere che un ragazzo come quello che aveva conosciuto in Normandia, nel castello di Arwin, si fosse potuto rivelare un predatore di tale calibro. Non che i vampiri creati da poco fossero per definizione tranquilli, molti erano continuamente affamati e stentavano a controllarsi, ma non era comune tanta violenza. Un immortale poteva rendersi capace di tali efferatezze solo dopo aver per anni sviluppato interamente i propri sensi e le proprie abilità di cacciatore. Dario era un vampiro giovanissimo, aveva appena un anno e mezzo di vita, non avrebbe potuto in alcun modo fare quelle cose, ma i fatti parlavano da soli e di fronte ad essi la buona volontà di Askan non poteva che annichilire e ridursi a un imbarazzato silenzio.

Con un enorme peso a gravargli sul cuore osservò i corpi senza vita delle tre vittime: uno di essi era irriconoscibile, era stato gravemente dilaniato e mutilato, ma a giudicare dagli abiti doveva trattarsi di un uomo; l'altro era un giovinetto dai capelli bruni e vitrei occhi nocciola spalancati in un'eterna espressione di sgomento e di terrore. A lui era stata squarciata la gola, ma era come se il lavoro non fosse stato portato a termine; tale caratteristica si rivelò analoga a quella della terza vittima, una giovane donna la cui chioma castana e ondulata si mescolava alla viscida pozza di sangue scuro che si era espansa sotto di lei. Una creatura magnifica, un fiore che era stato reciso troppo presto e senza un motivo valido. L'orrore e il dolore di Askan aumentarono quando egli si rese conto che la donna, quando era stata uccisa, aveva trascinato purtroppo con sé anche una vita che mai sarebbe venuta al mondo. Ciò che davvero straziò il vampiro fu il notare come la donna, in un ultimo spasmo prima della morte, si fosse portata una mano al ventre nell'atto primordiale e inutile di proteggere dalla fine il feto dentro di lei.

Era trascorso molto, molto tempo dall'ultima volta che Askan aveva visto uno spettacolo così orripilante e drammatico.

Sollevò gli occhi e vide accanto alla donna, inginocchiato e con il viso coperto dalle mani insanguinate, l'unico superstite del massacro, nonché l'artefice di esso. Piangeva sommessamente, le spalle erano curvate e tremavano per via dei singhiozzi. Askan non provò altro che umana pietà e compassione per il giovane non-morto. Si avvicinò, attento a non calpestare i cadaveri, poi si inginocchiò. «Dario» lo chiamò piano, avvicinando un po' alla volta una mano e posandola infine su di una spalla del ragazzo. Quest'ultimo sussultò e scoprì il viso striato di rosse lacrime. Askan non disse niente, perché non c'era nulla che potesse dire, anche se conosceva quel dolore. Non era stata colpa del giovane, ma di quell'irresponsabile sadico di Arwin che non avrebbe dovuto lasciar partire Dario da solo, bensì accompagnarlo, proprio come era stato lo stesso Askan a raccomandarsi con lui di fare.

Sapeva benissimo cosa sarebbe potuto accadere con un vampiro trasformato di recente, pensò furioso l'immortale più anziano. Era chiaro che suo fratello lo avesse fatto apposta, conscio delle conseguenze di una decisione così crudele.

Dario era immerso in un mare di panico, di pensieri febbrili e sconclusionati, di paura, dolore, rabbia verso se stesso. «P-Puoi aiutarli, vero?» singhiozzò, accennando ai tre cadaveri. «Ha funzionato con me, quando lo ha fatto Arwin, perciò... f-forse...»

Askan scosse la testa e gli accarezzò il retro del collo coperto da una folta e lunga cascata di capelli castano-ramati. Lo guardò negli occhi. «È troppo tardi, ormai. Neppure il sangue di vampiro può richiamare dalla morte una persona. Non c'è niente che si possa fare.»

C'erano cose che andavano oltre persino l'autorità quasi semi-divina dei vampiri.

«N-Non volevo farlo» continuò il vampiro più giovane, non appena capì che Askan non stava mentendo. «I-Io... non so cosa mi sia preso... è come s-se avessi perso la testa!»

«Non è stata colpa tua» cercò di tranquillizzarlo l'altro. Non sopportando di vedere Dario soffrire a quel modo, lo attirò delicatamente a sé e lo strinse fra le braccia come avrebbe fatto un padre. «Adesso è tutto finito. Ricorda solo questo: non è stata colpa tua. Non saresti dovuto venire fin qui da solo e questo Arwin lo sapeva molto bene.»

Aveva cercato in ogni maniera di proteggere quel ragazzo dalla crudeltà di Arwin, ma vedendo le conseguenze delle azioni di quello scellerato doveva ammettere di esser stato di nuovo sconfitto. Capì di aver fatto male a credere alle parole di suo fratello quando egli si era confidato e gli aveva detto di volere che le cose, almeno con Dario, potessero andare per il meglio e funzionare. Askan avrebbe dovuto capire le sue reali intenzioni sin da subito, gli sarebbe stato sufficiente ricordare che Arwin, malgrado quelle parole, avesse tenuto il ragazzo segregato nel castello per un anno e mezzo, impedendogli di uscire, di rivolgere la parola ai servitori, sottoponendolo a punizioni, alla reclusione forzata e a privazioni per via del rifiuto che Dario aveva sin dal principio provato nei confronti della propria condizione di non-morte. Se Arwin avesse davvero tenuto a lui, mai sarebbe stato poi tanto crudele e sadico. Probabilmente, anzi, pensava di aver fatto al poveretto un favore inducendolo a liberarsi fino in fondo della famiglia, qualcosa che agli occhi del suo Creatore corrispondeva a una zavorra, a un legame inutile ed effimero, una debolezza.

«Non è stata colpa tua» ripeté, cercando di ricacciare indietro il pianto. Non poteva permettersi di piangere, non davanti al ragazzo, non in quella situazione. Doveva essere forte per entrambi e prendere in mano la situazione. Lasciò dunque che si sfogasse, che piangesse tutte le lacrime che c'erano da versare, consapevole che Dario si sarebbe portato dietro quel fardello per sempre.

Arwin lo ha fatto apposta. Nessuno riuscirà mai a convincermi del contrario.

Forse il suo scopo era di rendere il ragazzo a sua immagine e somiglianza, ma non tutti sterminavano la propria famiglia senza batter ciglio né senza provare il minimo rimorso. Arwin lo aveva fatto, si era preso le vite di tutti i loro cari e aveva rifilato a Dario quella stessa medicina.

«Ora dobbiamo allontanarci subito da qui.» Askan si alzò e aiutò l'altro a fare lo stesso. Non potevano restare, non dopo quello che era successo, e Dario aveva bisogno di allontanarsi da lì, perché in caso contrario sarebbe finito per impazzire, per perdere la testa di fronte allo scempio che aveva causato, pur senza volerlo.

«N-Non posso! Non posso lasciarli qui, non così!» singhiozzò il vampiro più giovane, guardando ancora una volta i cadaveri del fratello, della sorella e del padre. Era chiaro che non volesse saperne di arrendersi, di affrontare la realtà.

Reger, a quel punto, si vide costretto a ricorrere a metodi più estremi: sospirò e afferrò uno dei due candelieri che si trovavano sull'imponente caminetto, poi chiuse gli occhi; si concentrò e non appena riaprì le palpebre, soffiò delicatamente, ma con decisione, sulle piccole fiamme. Una scia di fuoco prese a serpeggiare per la sala e poco a poco tutto cominciò a bruciare, divorato da lingue fiammeggianti che andavano espandendosi e facendosi sempre più grandi e roventi. «Nessuno saprà mai cosa è successo qui dentro. Tutti penseranno che si è trattato di un incendio, di un tragico incidente. È così che la tua famiglia è purtroppo venuta a mancare ed è sempre ciò che tu dovrai dire a chiunque, in futuro, dovesse farti delle domande sulla tua vita precedente alla trasformazione. Non dire mai a nessuno cos'è successo qua dentro, perché ben pochi saranno abbastanza umili, comprensivi e caritatevoli da ammettere che simili sventure accadono e sono accadute a tanti vampiri. La nostra è una razza di pescecani, tienilo sempre a mente» disse a Dario, facendogli intendere che da quel momento in avanti la versione dei fatti sarebbe stata solo ed esclusivamente quella e, soprattutto, di evitare di fidarsi ancora, in futuro, di un altro vampiro. Forse neanche di lui, visto e considerato cos'era successo quando aveva provato a dare una mano. «Nessun altro sapeva che eri tornato a Firenze, per fortuna.» Gli afferrò un braccio e fu costretto a trascinarlo pur di fargli abbandonare l'abitazione nel minor tempo possibile. Sapeva di esser stato forse troppo precipitoso, ma quello era il solo modo con cui cancellare ogni traccia del passaggio di un vampiro.

Il fuoco cancellava tutto, metteva a tacere i segreti più orrendi.

Giunti alla scuderia, lasciarono in libertà gli equini all'interno e recuperarono quello con il quale il ragazzo si era recato fin laggiù. Si trattava di una possente giumenta dal manto scuro.

Mentre la grande villa continuava a bruciare davanti a loro come un'enorme torcia che risplendeva nella notte, Askan si fece coraggio e disse: «Arwin aveva il dovere di avvertirti e di impedirti di correre così tanti rischi. Ci sono molti tipi di Creatori a questo mondo, Dario, e lui rientra nella categoria più abietta e indesiderabile. So che ora sei convinto che sia stata colpa tua, ma un giorno ti renderai conto di esser stato solo una vittima del malato gioco di mio fratello. A lui non importa niente, se non di alimentare la sua sete di dolore e morte. Non permettergli più di condizionarti, di farti precipitare nel buio. Tu non sei un mostro, mi senti? Non sei un mostro».

Silenziose lacrime color rosso sbiadito striavano le guance del giovane vampiro. «Che cosa dovrei fare, allora?» chiese questi con voce quasi atona. Pareva svuotato d'ogni emozione e sentimento, e non lo si poteva biasimare di certo per questo.

Askan si avvicinò e gli strinse una spalla, guardandolo dritto negli occhi: «Scappa, Dario. Scappa lontano e non osare guardarti indietro. Scappa e lasciati Arwin alle spalle per sempre. Ne va non solo del tuo benessere fisico e mentale, ma anche della tua sopravvivenza. Lui ormai ha capito che non seguirai mai i suoi insegnamenti e ti vede come qualcosa di difettoso, qualcosa di cui sbarazzarsi. Se rimarrai con lui, prima o poi ti eliminerà come ha già fatto con tanti prima di te. Non sei il primo al quale rovina la vita, ricordalo sempre».

Dario ammutolì di fronte alle parole del vampiro più anziano e alla sua espressione così seria che non lasciava spazio a dubbi o incertezze. Parve finalmente riscuotersi dall'apatia e nei suoi occhi si fece strada l'orrore. «M-Ma perché dovrebbe uccidermi? È stato lui a riportarmi indietro! Che senso avrebbe avuto farlo se...»

«Niente di quello che mio fratello fa ha un senso» lo interruppe funereo Reger. «Molte delle sue azioni sono spinte solo  da questo: ha il potere di commetterle. È capace di portare via tutto a una persona, di ridurre chiunque a un niente, se lo vuole. Io in te vedo ancora tanta luce, è come se tu fossi un flebile faro di speranza e per questo non voglio che lui spenga quella fiamma che scorgo nei tuoi occhi.» Si permise di scacciare le lacrime dal suo viso, come avrebbe fatto un padre amorevole e protettivo, un padre attento alle emozioni del figlio, il padre che Dario mai aveva avuto. «Un giorno avrai la tua rivincita. Magari ci vorrà tanto tempo, forse addirittura secoli, ma il male prima o poi si rivolta contro coloro che gli permettono di dilagare. Nessun malvagio resta impunito, Dario. Mai.»

L'altro lanciò un addolorato sguardo verso la casa in cui era cresciuto e che ormai era ridotta a una gigantesca pira. Non credeva che una rivincita sarebbe stata capace di lavar via dalle sue mani il sangue di coloro che aveva massacrato. I fatti parlavano e fino prova contraria lui restava un assassino, un parricida, l'uccisore della sua famiglia. Niente avrebbe mai cambiato tale realtà, neppure vedere Arwin pagare per cos'aveva fatto.

Osservò le proprie mani. Erano ancora sporche di sangue e scheletriche. Le mani di un autentico mostro, di una creatura abominevole risputata dall'inferno che, come tutte le aberrazioni, si era riversata con furia e cieca ferocia sugli innocenti, sui vivi. Vedeva solo un mostro, qualcosa che non sarebbe dovuto esistere, tutte le volte che si arrischiava a guardarsi allo specchio. Avrebbe sempre visto solo un mostro.

«Io non voglio la vendetta» mormorò. «Rivorrei solo indietro la mia famiglia, la mia vita, tutto quello che ho perso e che so non mi verrà mai restituito. Che senso può avere la vendetta, ormai? Non ho più niente da perdere, nulla per cui continuare a vivere. Persino scappare mi sembra inutile e stupido.»

Askan deglutì. «Non dargli la soddisfazione di vederti annientato e non prendere decisioni avventate» lo ammonì, quasi come se avesse percepito le sue reali intenzioni. «Io sono convinto, sento che il tuo ritorno fra di noi non è avvenuto solo per volontà di mio fratello, ma per un motivo diverso, forse addirittura nobile. Una ragione che deve ancora rivelarsi.»

Dario, suo malgrado, stirò le labbra in un tremulo e forzato sorriso pregno di sarcasmo. «E quale? Sterminare la mia famiglia al completo? Diventare un mostro costretto a uccidere pur di sopravvivere? Il mondo ha bisogno di angeli, non di altri demoni. Di quelli ve ne sono già fin troppi, non credi?»

«Siamo noi a decidere da quale parte stare. Persino un vampiro può stare dalla parte del bene, se è ciò che il suo cuore desidera.»

«Quale cuore, di grazia? Quello che anche adesso non sento battere? Quello che ora si è tramutato in cenere, proprio come loro?» sibilò in risposta il più giovane, accennando alla casa dentro la quale i corpi dei suoi famigliari erano ridotti a scheletri carbonizzati. «Allora sì che mi sento meglio, adesso! Davvero confortante! Che grande avvenire, sul serio!»

«Un giorno, forse, ti renderai conto che a volte persino il cuore di un vampiro può tornare a battere» replicò sibillino Askan. «Fino ad allora cerca di non fare pazzie, di non agire in preda alla rabbia e allo sconforto. Tieniti stretta l'umanità che ti rimane, è quella a ricordarti chi sei veramente, a impedirti di diventare come Arwin. Finché rimarrai umano dentro, non sarai mai un mostro.»

«Non so più cosa farmene dell'umanità» replicò laconico Dario, montando poi in sella. «Se vuoi seguirmi, ti consiglio di sbrigarti. Ho delle questioni da chiarire con tuo fratello.»

~ 𝟏𝟗𝟖𝟖 ~

Non appena Dario ebbe terminato di raccontare a Max dal proprio punto di vista ogni cosa sul massacro della sua famiglia, fra di loro calò il silenzio. Max era avvilito e iniziava a pentirsi di avergli chiesto di spingersi fino a quel punto con i ricordi, perché lo vedeva che stava sì e no peggio di prima, che stava soffrendo.

Non avrei dovuto chiederti di ricordare.

«Dopo che Askan mi ebbe convinto ad abbandonare per sempre quella casa, tornai da Arwin e solo per dirgli che se mai fosse tornato a cercarmi, lo avrei ucciso con le mie mani. Non volevo più avere niente a che fare con altri della mia specie. Dopo quella storia... sprofondai in quella che oggi so per certo fosse autentica depressione. Per un bel po' girai il mondo, ovviamente nei limiti consentiti all'epoca. Viaggiavo, viaggiavo... vagavo alla ricerca di un posto dove sentirmi a casa e magari meno solo, ma niente riusciva a distogliermi dai sensi di colpa, dalla voce che mi ripeteva che era meglio tornare nella tomba e smetterla con quello strazio. Più di una volta pensai di voler farla finita, ma alla fine non ce la facevo mai, avevo troppa paura di cosa ci sarebbe stato dopo la morte, paura della probabile punizione per il mio crimine e sì... di rivedere i miei cari, perché a quel punto non avrei saputo cosa dire per giustificare ciò che avevo fatto.»

Max deglutì. «Non trovasti mai altri vampiri che magari la pensavano come te?»

«Il punto è che non ne incrociai chissà quanti ed erano quasi sempre schivi, di quel genere che preferisce di gran lunga stare per i fatti propri. Alla fine diventai poco a poco come loro, imparai a stare da solo e a fare a meno della compagnia. Prima di lasciare il Paese in cui ero nato, però, cedetti alla tentazione e riuscii a trovare Jacopo, solo per scoprire che era in fin di vita. La tubercolosi aveva preso anche lui e... scelsi di restargli accanto fino alla fine, gli rimasi vicino per assisterlo. Lui sapeva che ero morto e si convinse che ero una specie di spettro, qualcosa frutto della sua mente affetta dalla febbre. Credeva di vedermi perché sapeva di essere vicino alla morte, pensava che... che fossi tornato da lui per portarlo con me nell'Aldilà e... glielo lasciai credere. Mai provai anche solo a spiegargli cos'ero diventato, perché di certo non mi avrebbe creduto e se anche lo avesse fatto, la verità non avrebbe comunque alleviato la sua sofferenza fisica e il dolore che provava da quando mi aveva visto privo di vita nel letto che un tempo avevamo condiviso.»

Lo sguardo di Rio era perso nei ricordi degli ultimi istanti di vita del suo primo amore, dell'uomo che in un certo senso lo aveva reso libero e gli aveva dato il coraggio di lasciare il nido paterno e affrontare il mondo reale. Jacopo era stato il primo in ogni campo, era come se prima di lui non avesse mai realmente vissuto.

«La sua agonia non ebbe vita lunga. Jacopo morì appena pochi giorni dopo il mio ritorno e con lui si infranse quel sottile filamento che mi aveva sempre impedito di lasciare l'Italia. Voltai le spalle al mio Paese per tanto tempo e scelsi di recarmi proprio qui, in Inghilterra. Credimi, non fu semplice viaggiare per nave, e scelsi saggiamente di essere un passeggero clandestino. Avrei destato troppi sospetti presentandomi agli altri solo dopo il calar del sole e non volevo che quanto accaduto con la mia famiglia si ripetesse. Comunque... all'epoca la regina Elisabetta I era da poco salita al trono, ma non seguii più di tanto gli eventi di quel periodo. Ovviamente non ero consapevole di quanta risonanza il periodo elisabettiano avrebbe avuto nei secoli successivi e un po' mi pento di esser stato così noncurante e distratto. Preferivo restare in disparte e poche volte mi recai a Londra, senza mai restarvi troppo. Per me era molto meglio frequentare le campagne e bearmi della loro tranquillità, ammirarne i suggestivi paesaggi, specialmente la brughiera. Fu lì che incontrai per la prima volta in assoluto l'uomo che mi avrebbe poi coinvolto in tutta questa faccenda di Obyria, ma a quel tempo era poco più che un bambino. Non sapevo che molti anni più tardi sarebbe diventato il primo Principe della Notte e che un giorno mi sarei dovuto rivolgere a lui chiamandolo Vostra Altezza. Col senno di poi sembra davvero imbarazzante.»

Quelli erano ricordi pregni di amarezza, ma anche tenerezza. Benché non avesse parole gentili per descrivere l'uomo che Richard Esper era stato, aveva invece un'affettuosa opinione del bambino che aveva conosciuto ancor prima.

«Sua madre era ancora viva, così come suo padre. Non credo di aver mai visto una famiglia più felice di quella. Non erano solo questo, ma anche persone stupende e di buon cuore. Trattavano la servitù come se fossero stati tutti del medesimo nucleo famigliare. In casa Esper non esistevano cose come la superbia e la supremazia dei ricchi sugli indigenti.»

Una delle poche cose positive era stata proprio incontrare Sir Elyas Esper e sua moglie Dervilia, la bella irlandese, la Guardiana che per proteggere il figlioletto dalla crudeltà degli uomini si era consegnata al suo posto e aveva accettato la condanna per stregoneria.

«Quando rividi Richard molti anni più tardi, lui non ricordava nulla di quella volta.» Dario sorrise tra sé teneramente. «Che tu ci creda o meno, a un certo punto aveva persino preteso di farsi prendere in braccio, e a esser sincero non sono mai stato un asso coi bambini. Non che non mi piacciano, ma... non so mai come comportarmi con loro. So solo che Richard fece non poche bizze quando capì che sarei ripartito alla volta dell'ignoto. Non so perché, ma si affezionò a me.»

Max sghignazzò appena. «Sai che imbarazzo aver dovuto poi servire uno che conoscevi sin dalla culla, più o meno!»

«Sì, in effetti agli inizi fu abbastanza traumatico» concesse divertito l'altro. «Credo che un altro glielo avrebbe rinfacciato a vita, ma per il tipo che Richard era credo che solo un pazzo lo avrebbe provocato. Non che di tanto in tanto io non lo facessi. A volte compii l'imprudenza di sfidare la sua autorità o di metter in discussione i suoi metodi e le sue convinzioni, e a lui non piaceva che gli si facesse la paternale.»

«Non era uno zuccherino, dunque?»

«Mio caro Max, quell'uomo era un demonio» rispose con schiettezza Dario. «Ne ho passate di tutti i colori per colpa dei suoi piani machiavellici e sì, anche per via dei suoi capricci e delle sue scelleratezze. Spesso per me non significava altro che guai con la "g" maiuscola.»

Rio a quel punto per alcuni istanti rimase in silenzio, finché: «C'è una cosa che non perdonai mai a quell'uomo, anche se fino alla fine continuai a servirlo lealmente, salvo un periodo di pausa in cui cedetti alla tentazione e decisi, per un po', di mandarlo a quel paese».

«Ovvero?»

«Accadde prima della sconfitta dei Licantropi e dei Lupi Mannari, durante una delle guerre più sanguinose che Obyria fu costretta a conoscere. Dopo questo episodio... non lo so, persi quasi la testa e, come ti ho detto poco fa, per un periodo mandai al diavolo Richard e tutto quello che lo riguardava, almeno finché non fu lui in persona a venire da me e a chiedermi di tornare a palazzo. Mi pregò di tornare perché il capo della polizia con il quale mi aveva sostituito si era rivelato un inetto. Quella volta... per un attimo, uno soltanto, provai il desiderio di ucciderlo. Non era mai successo né avvenne più in seguito, ma lo pensai. Una brama viscerale e cieca, furibonda. Ricordo ancora che feci scattare le dita verso la spada che portavo al fianco e strinsi con forza l'elsa. Sentivo l'ira attraversarmi come scariche di elettricità, tremavo, volevo... volevo davvero ucciderlo, fargli del male. Sapevo che potevo farlo, di averne il potere e tutti i motivi sacrosanti. Ad oggi non so ancora cosa fermò la mia mano, ma in fin dei conti ringrazio di non aver dato ascolto alla rabbia.» Il vampiro dalla chioma scura sospirò.«Prima che la guerra iniziasse, il Principe Lupo era più o meno in rapporti decenti con Richard e il resto della famiglia Imperiale, specie con Arian. Non era raro che venissero organizzati ricevimenti o feste e durante quelle occasioni era normale che i regnanti stranieri si recassero all'evento con una scorta al seguito. Lì conobbi il capo dei Lycos, questo è il nome ufficiale delle guardie incaricate di proteggere il Principe di Castel di Luna. Dopo Jacopo lui fu il secondo del quale mi innamorai, ma ancora una volta le cose non erano affatto destinate ad andare bene.»

Max lo guardò rattristato. Come si poteva soffrire in continuazione a quel modo e nonostante tutto trovare la forza di continuare? Lui al suo posto sarebbe uscito di testa, avrebbe fatto forse qualche pazzia colossale. Perdere ciò che si amava sempre e comunque, malgrado gli sforzi e la continua lotta per remare contro il fato, era semplicemente orribile, inconcepibile.

«Quella sera ci ritrovammo a bere tutti assieme e a chiacchierare sulle follie dei nostri rispettivi signori. Non ci era permesso prender parte ai festeggiamenti in quelle grandi e sfarzose sale, avevamo il dovere di tenerci in disparte altrove e di intervenire solo in casi di emergenza. Quasi mai accadeva qualcosa che richiedeva il nostro intervento e quindi per noi quelle feste rappresentavano una scusa per riposarci e svagarci. Fu una serata davvero splendida quella in particolare, serena e spensierata, nulla che avrebbe mai potuto far pensare al disastro che di lì a poco sarebbe scoppiato. La guerra colpì tutti noi come un fulmine a ciel sereno. Io, per primo, non me l'aspettavo.»

«Lui come si chiamava?» chiese incuriosito Max, il quale ormai aveva imparato a non provare gelosia nei confronti degli amanti passati dell'altro. In fin dei conti tutti avevano delle vecchie fiamme nel cassetto dei ricordi.

«Si presentò come il Capitano Herrick, ma in seguito lo avrei chiamato Gareth. Non mi vergogno ad ammettere che all'epoca ero convinto che niente sarebbe potuto andare storto e che quello che c'era tra di noi sarebbe durato per sempre. Ovviamente non fu così, altrimenti... beh, forse avrei trascorso molti anni in sua compagnia e di lui avrei conservato ricordi ben più lieti. Progettavamo addirittura di congedarci dal servizio presso i nostri relativi signori e andare a vivere altrove per vivere il sogno che avevamo assieme. Io... io, all'epoca, ci credevo sul serio, Max, e fu quella speranza a distruggermi in seguito, quando il sogno finì bruscamente.»

Ricordava molto bene Gareth, l'affascinante Capitano dei Lycos, il secondo che era riuscito a rubargli il cuore e a portare con sé nella tomba parte di esso per sempre.

«In segreto cominciammo a frequentarci. Gareth mi piaceva da impazzire e non era raro che mi facessi dare il cambio con qualcun altro pur di poterlo incontrare e stare insieme a lui qualche ora. Le mattine seguenti mi beccavo sempre una strigliata di quelle epocali da parte di Richard, ma in quei momenti neanche lo ascoltavo. Avrebbe potuto insultare tutti i miei avi senza che battessi ciglio. Pensavo a Gareth e al suo sorriso impertinente, nient'altro aveva importanza, poi però i rapporti fra i regni si inasprirono e Castel di Luna fece intendere di volere l'indipendenza dal resto dell'Impero. I Figli della Luna si intestardirono nel voler ribellarsi al dominio degli Esper e come al solito Arian e Reida assegnarono a Richard il compito di riportare all'obbedienza i ribelli. Lui, allora...», Dario faticava a continuare. Troppi gli orrori cui aveva assistito durante quella guerra sanguinosa. Troppi i morti, i feriti, le vedove e gli orfani. Il sangue aveva tinto di rosso ogni singolo granello di polvere dei due regni; Licantropi e Lupi Mannari avevano massacrato eserciti di vampiri e viceversa; la guerra non aveva risparmiato nessuno, neppure gli innocenti più indifesi, neanche il Principe Lupo in persona e la famiglia di quest'ultimo.

Mai avrebbe dimenticato il momento in cui Richard, in un impeto di estrema crudeltà, dopo aver imprigionato in seguito all'ennesima battaglia il Signore dei Lupi, aveva fatto giustiziare tutti i prigionieri e dato l'ordine di riempire le catapulte con le loro teste, usandole al posto dei massi. Il capo mozzato del Principe di Castel di Luna, tuttavia, era stato il suo rivale in assoluto a lanciarlo, servendosi solamente della forza micidiale propria dei vampiri; presa la mira, l'aveva scagliato con tutta la potenza possibile in direzione dei bastioni dai quali aveva intravisto la moglie del defunto. Dopo quell'atto a dir poco disgustoso e disumano un grido straziante era risuonato nell'aria, l'urlo di una moglie persa nel dolore e nell'orrore.

Dario, in quel momento, non aveva potuto non pensare di aver sempre e solo servito un mostro sotto mentite spoglie. In quell'attimo erano riemerse le tenebre dell'ex-pupillo di Arwin Reger. Quel farabutto, infatti, dopo la delusione avuta con lui si era rifatto prendendosi la vita e l'intero futuro di Richard, un ragazzo di animo buono che alla fine si era tramutato in una belva sconsiderata e assetata di sangue.

«Richard fu crudele oltre ogni limite possibile e immaginabile. Per la prima volta ebbi modo di vedere il suo lato oscuro, quello peggiore di tutti. Non si risparmiò nel voler punire il Principe di Castel di Luna, era diventata quasi una questione personale. Io e Gareth continuammo a incontrarci lo stesso, con molta difficoltà, ma per noi era impensabile lasciarci influenzare dalla pazzia dei nostri popoli in guerra. Volevamo solo stare insieme, solo questo, lo volemmo fino all'ultimo istante.»

«Morì in guerra?» chiese Max.

«No. Non proprio, almeno» rispose Dario con la voce che minacciava di spezzarsi. «Una sera... un gruppo di soldati nemici riuscì a superare le difese del Regno della Notte e a entrare nella reggia. Come sempre toccò a me stare al comando dei soldati incaricati di respingere l'attacco. I nostri nemici indossavano una maschera nera, tutti loro, così da non farsi riconoscere. Suppongo fossero lì per loro volontà, per saldare il sanguinoso debito che i vampiri avevano col loro popolo. Ci eravamo presi la famiglia reale al completo e probabilmente desideravano ripagarci con la stessa moneta. Mi battei con tutti loro, finché a un certo punto io e uno di quegli uomini mascherati non ingaggiammo una lotta all'ultimo sangue. Era bravo, terribilmente bravo, ma in lui c'era qualcosa che non mi convinceva. Più di una volta ebbi la chiara impressione che voleva evitare di ferirmi gravemente, ma in quel momento non riflettei e vidi la mia occasione. Ero comunque il Capo delle Guardie, avevo un dovere preciso e colsi al volo l'opportunità: lo trafissi e quando finalmente calò il silenzio e la schermaglia terminò, per curiosità tolsi la maschera all'avversario che con tanto fegato mi aveva tenuto testa fino all'ultimo. Mi ci volle un po' per realizzare chi avevo appena ucciso, prima di passare dal sollievo all'orrore e alla disperazione.»

Wildbrook si sentì male a quel racconto e guardò il fidanzato a occhi spalancati. «Era... era Gareth?»

«Sì, era lui. Compresi finalmente tutto, il perché fino alla fine avesse tentato di non colpirmi, di non nuocere gravemente al sottoscritto. Lui aveva cercato di proteggermi senza badare alla propria sopravvivenza, incapace di farmi del male, davvero del male. Si era preoccupato per me fino in fondo e io avevo frainteso le sue intenzioni. Talmente ero stato ansioso di metter fine allo scontro, da non cogliere i suoi segnali.»

«Ma... di solito i Licantropi hanno un odore particolare che distingue ognuno di loro. Come hai fatto a non riconoscerlo almeno tramite quello? Per il naso di un vampiro l'odore di un Licantropo è un sentore opprimente e forte, tipo... cane bagnato misto a terriccio, muschio e foglie morte!»

Dario deglutì. «Ci eravamo scambiati a vicenda alcune gocce del nostro sangue. Pochi sanno che solo così due della nostra specie possono stare insieme senza che le loro nature opposte finiscano per mettere i bastoni fra le ruote. Io e lui lo scoprimmo grazie a sua nonna: era una specie di guaritrice, possedeva antichi manoscritti e una sapienza che poi è andata perdendosi nel tempo; lei sapeva che c'era un modo per aggirare il problema che io e Gareth avevamo avuto sin dagli inizi della relazione e... beh, lo mettemmo in pratica. Sbaglia chi afferma che vampiri e licantropi non possono coesistere e in un certo senso era come se ci fossimo sposati, ma ci risultò fatale: non riuscimmo a riconoscerci a vicenda e io non potevo pensare in un momento come quello al fatto che non sentivo provenire dal mio aggressore il tipico odore di Licantropo. Scioccamente credevo si trattasse di un aggressore persino della mia specie, di un disertore passato dalla parte del nemico, ce n'erano stati alcuni durante la guerra.
Lottavamo tutti e due in nome dei nostri superiori, di una guerra che non comprendevamo, che non avremmo mai voluto se solo fosse dipesa da noi. Solo la notte prima lui mi aveva persino convinto ad abbandonare tutto e a fuggire lontano dalla guerra, così che potessimo vivere in tranquillità e lasciare che fossero altri a sbrogliarsela con quel disastro. Onestamente per lui avrei voltato le spalle a Richard senza troppi rimorsi. Mi ero ritrovato spesso a pensare che per quell'uomo crudele avevo sacrificato tanti anni in cui magari avrei potuto fare altro, ma lui cos'aveva fatto per me, in fin dei conti? Parlava e diceva di ritenermi un amico, prima ancora che un sottoposto, eppure dal modo in cui si comportava lasciava intendere l'esatto contrario. Troppe erano state le volte in cui avevo pensato di non esser nient'altro se non una delle sue tante pedine.»

Si passò il dorso della mano sulle guance.

«Odiavo Richard e tutti quelli che avevano dato inizio a quella stupida guerra, fino al punto che quando tutto finì mi presentai da lui e gli dissi che avrei ceduto l'incarico a un altro; dissi di non voler saperne più niente, di essere stanco e di voler finalmente pensare alla mia vita. Credici o meno, ma all'epoca nell'ordine dei cavalieri del Principe della Notte, perché tali eravamo, non era consentito né a me né ai miei uomini di sposarci o chissà cos'altro. Comunque... in quel momento non mi importava di star dicendo al Principe in persona di andare a farsi fottere, vedevo solo il responsabile di tutte quelle morti, della mia stessa sofferenza. Non aspettai neanche la sua risposta, voltai le spalle e me ne andai. Ignorai la sua voce che mi imponeva di fermarmi e sottovoce gli augurai di marcire all'inferno. Maledissi il giorno in cui avevo acconsentito a servire lui, Arian e Reida.»

Max, il quale ancora si sentiva sottosopra dopo quel racconto quasi del tutto privo di risvolti positivi, sussultò appena udendo il proprio ragazzo mormorare una scusa sbrigativa, alzarsi e raggiungere la toilette degli uomini.

Strinse i pugni sul tavolo e non poté che provare odio per se stesso, per non aver fermato Dario e aver permesso alla propria curiosità di avere la meglio su tutto il resto. Pur senza volerlo, lo aveva fatto soffrire, e la cosa non gli piaceva affatto. Il suo unico desiderio, a quel punto, era di riuscire ad allontanare per sempre quegli spettri che continuavano ad angosciare la persona che amava, ma era un'aspirazione sciocca e infantile, lo sapeva bene. Cose come quelle non si dimenticavano neppure dopo mille anni, restavano impresse a vita. La sola strada che poteva percorrere era di tentare di alleviare tutto quel dolore, fare del proprio meglio perché il futuro di Rio fosse più roseo e luminoso del passato.

Raccolse il coraggio e lo seguì, bloccandosi sulla soglia solo quando catturò con le attente orecchie il suono debole e sommesso di qualcuno che stava piangendo. Riconobbe subito quella sorta di straziante melodia priva di parole e note musicali. Lo vide appoggiato con le mani tremanti al lavandino, illuminato dalla fredda luce che brillava dal soffitto, le guance striate di cremisi e le labbra contratte, gli occhi serrati, il corpo scosso da un tremore incontrollabile.

Non era un bello spettacolo e per Max era a dir poco logorante.

Il giovane vampiro deglutì e s'avvicinò. Bell'anniversario ti ho fatto trascorrere, pensò amareggiato, assumendosi pienamente la responsabilità di quell'escalation di rivelazioni che avevano solo fatto affiorare sofferenze passate. Sono davvero un bastardo.

Lo raggiunse e lo fece voltare delicatamente. «Ehi, ehi» sussurrò. «Va tutto bene. Tranquillo. Fai un bel respiro.»

Dario scosse la testa, mormorò che al momento gli era impossibile fare come gli era stato detto. Pareva, in un certo senso, nel bel mezzo di un attacco di panico molto simile a quello che aveva avuto l'anno addietro. Possibile fosse fino a tal punto fragile? Dunque il suo stesso passato era la sua debolezza più grande?

«Senti... non devi dirmi nient'altro e... dal canto mio, ti prometto che non dirò mai niente a nessuno, neanche sotto tortura. Quello che mi hai raccontato resterà fra di noi e per quel che mi riguarda, non ti giudico e non ti disprezzo. Onestamente ti ammiro per la forza di volontà che hai anche adesso, sai?»

Se pensava a tutto quello che aveva dovuto sopportare in tutti quei secoli di esistenza, quello che lui aveva passato sbiadiva a confronto e perdeva ogni significato e importanza. Certo, non era una gara a chi soffriva di più, ma si rendeva lo stesso conto di aver forse un bel po' di cose da imparare dall'uomo che aveva di fronte, quello che proprio in quel momento guardava piangere come un bambino.

Lo attirò a sé e lo strinse forte fra le braccia.

Finché ci sarò io, quelle tenebre faranno meglio a restare lontane da te.

Si scostò solo quanto bastava a posare un bacio sulle sue labbra, un contatto che trasferì il sapore delle dense e fredde lacrime del moro sulle sue labbra.

Il mondo continuava inesorabilmente a cambiare e loro stavano facendo lo stesso. Non erano più gli stessi dell'anno precedente né i vampiri che si erano incontrati una sera e avevano segnato l'uno il destino dell'altro, in qualche maniera.

Max ringraziò di esser stato testardo, di non aver mollato la presa e di non essersi lasciato scoraggiare dalle apparenze; ringraziò di aver avuto la caparbietà di restare e cercare di comprendere Dario. Era contento di averlo fatto perché la creatura splendida tra le sue braccia valeva tutta la fatica, sempre sarebbe valsa ogni singolo sforzo.

Ormai ne era sicuro: lo amava, era innamorato di lui oltre ogni immaginazione e tale certezza lo spinse finalmente a pronunciare le parole che ore prima si era prefissato di comunicare. Passando delicatamente i pollici sulle sue guance, disse a bassa voce: «Io... uhm... pensavo... vorresti abitare insieme a me? Intendo una convivenza vera e propria». In passato aveva accennato un altro paio di volte all'argomento, ma Dario si era sempre mostrato piuttosto reticente e insicuro in merito a tale discorso e allora Max aveva deciso di non parlarne più per un po', di aspettare ancora, di attendere sviluppi ulteriori in quella montagna russa che era la loro relazione.

Si morse il labbro inferiore e attese, in ansia più che mai dato che non poteva guardarlo negli occhi, visto che Rio aveva posato la fronte sulla sua spalla, quasi come se privarsi di quei tanti pesi lo avesse prosciugato delle forze. Il movimento che Maximilian percepì, tuttavia, fu un inequivocabile cenno di assenso.

«Ne sarei felice» rispose alla fine Dario, sollevando il capo e incontrando lo sguardo del fidanzato.

Max sogghignò. «Fosse per me ti chiederei pure di sposarmi!»

Rio alzò gli occhi al cielo e gli rifilò una leggera schicchera sul viso. «Sempre il solito cretino!»

L'altro rise appena ed evitò di dire che se la società nella quale vivevano fosse stata diversa, gli avrebbe chiesto sul serio di sposarlo. Non smise di sorridere mentre lo guardava e passava in rassegna il suo adorabile cipiglio di rimprovero, finché non si ricordò che in effetti si era portato dietro qualcosa di speciale in occasione della proposta altrettanto esclusiva. «Uhm, credo di aver dimenticato di farti vedere questo, prima di proporti la convivenza» disse, vergognandosi non poco per tale gaffe. Fra una cosa e l'altra si era scordato il discorso che avrebbe voluto fare per accompagnare la consegna del dono.
Frugò nella tasca della giacca e finalmente trovò la piccola scatola di velluto blu scuro; con dita tremanti la mostrò al fidanzato, poi aprì il coperchio e ne rivelò il contenuto: un anello d'argento dalla montatura talmente sottile da sembrare fragile, al centro una piccola pietra preziosa dal bianco bagliore.

Dario spalancò gli occhi. «Ma che diavolo...»

Max strinse le spalle e sorrise di sbieco. «Il lavoro alla fine ha dato qualche frutto e... beh, appena ho visto questo bel gingillino... non ho resistito.»

Quel tipo di anello pareva più adatto a una donna, ma ormai conosceva abbastanza bene il fidanzato da sapere che lui stesso non badava a certi dettagli, anzi...! E gli piaceva anche per quello, perché se ne fregava dei limiti imposti dalla società, dei luoghi comuni e tanto altro ancora.

Ad ogni modo, si era potuto permettere l'anello solo dopo aver faticato un bel po' a furia di lavorare a Obyria come semplice impiegato in un locale che però pagava bene i propri dipendenti.

Si era deciso a rimettersi in carreggiata e ad affrontare la vita attivamente, non più come un pezzo di legno in balia della corrente. Stare insieme a Rio, fra tante altre cose, lo aveva portato anche a essere più responsabile e obiettivo, a voler mettere la testa a posto ed elevarsi. Non si sentiva più in una specie di competizione con lui, inferiore, ma al suo passo, malgrado le differenze tra di loro fossero ancora presenti e ben definite.

Fosse stato per lui, se solo avesse avuto molti più mezzi a disposizione, avrebbe trascorso il resto dell'eternità a viziare e coccolare Rio.

Dario strabuzzò gli occhi e lo fissò a bocca aperta: «M-Ma io... io non ho niente per te, i-insomma...», biascicò.

In effetti si erano sempre detti non regalarsi nulla, non andando matti per quel genere di cose, però Max aveva scelto di venir meno a tale regola perché considerava quell'occasione davvero unica. Gli stava proponendo un vero e autentico fidanzamento, non era roba da niente. «Non importa, io ci tenevo a darti questo» lo rassicurò. «Se non te la senti, non devi...»

«N-Non è questo» balbettò Rio, «è solo che...»

«Quel che mi è costato non deve preoccuparti in alcun modo» replicò Max, capendo al volo. «Questo è il mio dono per te, amore mio.» Prese tra le dita l'anello, poi la mano sinistra del fidanzato e gli fece indossare il prezioso ninnolo. Inutile dire che su quell'anulare affusolato il gioiello fosse una vera meraviglia. Quando fu sul punto di sentirsi in colpa nel veder piangere di nuovo Dario, quest'ultimo non gli diede il tempo di fare niente e lo baciò con slancio. Max, allora, percepì all'istante la sua felicità sincera e di riflesso si sentì a propria volta felice, contento come mai era stato prima d'allora.

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