𝐂𝐚𝐩𝐢𝐭𝐨𝐥𝐨 𝐗𝐈𝐕.𝐔𝐧𝐨 𝐬𝐪𝐮𝐚𝐫𝐜𝐢𝐨 𝐧𝐞𝐥 𝐩𝐚𝐬𝐬𝐚𝐭𝐨
~ 𝟏𝟓𝟒𝟎 ~
𝐹𝑖𝑟𝑒𝑛𝑧𝑒, 𝐼𝑡𝑎𝑙𝑖𝑎
Non ci credo che stia per fare una cosa del genere.
Deglutì e cercò di restare calmo. Provò a non mostrare in alcun modo il nervosismo mentre si sbottonava lentamente la casacca di stoffa leggera color azzurro pallido. I suoi occhi castani e grandi da giovane uomo corsero alle finestre semi-aperte. Fuori dallo studio nel quale Arrighi era solito dipingere e lavorare regnava un caldo soffocante, era estate inoltrata, le prime ore del pomeriggio.
Meno male che almeno mio padre per qualche giorno rimarrà lontano da Firenze.
Gli tremavano le dita, eppure aveva compiuto azioni molto più sciocche e avventate di quella. Non aveva tremato neppure per un istante di fronte a un intero esercito, si era gettato in picchiata nella battaglia come un falco. A vent'anni suonati non avrebbe dovuto temere niente e nessuno, ma con Arrighi succedeva tutte le volte in cui restavano insieme, specialmente da soli.
Da un lato sapeva benissimo che era sbagliato, lo sapeva sin da quando si erano scambiati quel bacio di sfuggita, poco lontano dalle fontane che la sua defunta madre aveva insistito per far costruire. A distanza di un anno c'erano stati solo altri baci, carezze, lettere spedite in gran segreto e recapitate solo tramite persone di fiducia. Per lui stava diventando sempre più difficile portare avanti gli studi, fingere di avere un'aspirazione, una vocazione che in realtà si era spenta per sempre da quando Jacopo era piombato nella sua vita.
La prima volta che lo aveva visto era accaduto nella casa di suo padre, il quale aveva commissionato al pittore un lavoro di estrema importanza, ovvero ritrarre suo fratello Filippo e la consorte di quest'ultimo.
Dopo aver parlato casualmente, avevano capito tutti e due di voler passare più tempo assieme, che potevano dare qualcosa in più l'uno all'altro. Gli anni erano trascorsi e il trentatreenne Jacopo era più affascinante e abile che mai, mentre lui invece sentiva dentro di sé una confusione senza precedenti. Si chiedeva che diamine stesse facendo e cosa gli stesse passando per la testa. Non andava dimenticato che Arrighi avesse una certa fama già ben radicata e alimentata, soprattutto, dai pettegolezzi circa la sua vita privata. Il pittore gli aveva confidato che sì, in effetti alcune dicerie erano vere. Aveva realmente avuto degli amanti maschi, quasi sempre si era trattato dei modelli che aveva scelto per alcuni dipinti.
Non è mai successo nulla di simile con nessun altro. Perché con Jacopo sì, invece?
Una parte di lui gli sussurrava che non c'era nulla di male e che non stavano nuocendo a nessuno, ma l'altra invece lo metteva in guardia, gli urlava di tornare sui propri passi finché era ancora in tempo, di non correre un rischio che avrebbe potuto comportare anche la morte di tutti e due. Suo padre non gli avrebbe perdonato una cosa del genere, specie dopo quel che era successo con Elena. Lo avrebbe ucciso, era fuor di ogni dubbio. Avrebbe ucciso entrambi.
Ormai è troppo tardi. Non voglio tornare indietro.
Lasciò cadere a terra la casacca e il resto degli abiti. Per ultima lasciò la camicia: ne sciolse lentamente il fiocco che la sigillava all'altezza del torace, poi allargò lo scollo e consentì all'indumento di scivolare pian piano giù dalle spalle, poi lungo la schiena, sui fianchi, infine sul legno, proprio sopra i piedi nudi. Lo studio era fresco all'interno, cosa che gli procurò la pelle d'oca inizialmente. Non c'era più niente fra lui e il mondo intero, fra lui e Arrighi, se non forse quel po' di pudore che aveva scelto di conservare. Filippo una volta lo aveva scherzosamente definito una verginella pudica mancata.
Ripensare a suo fratello, però, lo rattristò. Gli mancava, ma se qualcosa fosse andato storto e tutto fosse venuto allo scoperto, almeno lui non avrebbe sofferto nell'avere un familiare simile. Chissà cosa avrebbe pensato, altrimenti, del suo caro fratellino che invece di correr dietro alle ragazze si era invaghito di un pittore, di un altro uomo. Probabilmente ne sarebbe rimasto deluso o peggio.
Si fece coraggio, sfiorandosi un braccio, leggermente curvato in avanti. Un vano e infantile tentativo di celare la nudità del proprio giovane e flessuoso corpo da ventenne. «Dove... dove devo mettermi?» chiese rauco, senza osare voltarsi. Sentiva le guance ardere. Non era mai arrossito fino a tal punto prima di allora. Si diede dello sciocco nel rendersi conto che ciò di cui davvero aveva paura era il non piacere magari a Jacopo, piuttosto delle probabili conseguenze che sarebbero scaturite se qualcuno fosse venuto a risapere che un ragazzo di buona famiglia come lui si era lasciato ritrarre come un popolano qualsiasi o una donna di malaffare. Non era raro che le modelle dei pittori fossero delle prostitute e la stessa cosa valeva, di tanto in tanto, anche per i fanciulli e i giovanotti che in cambio di un compenso posavano per gli artisti.
Non era esattamente ciò che facevano i bravi ragazzi che tenevano all'onore della famiglia.
Udì i passi dell'artista farsi vicini, poi le sue dita affusolate, scure a confronto con la propria pelle nivea, posarsi sulle spalle. Trattenne il fiato e chiuse gli occhi, quasi in estasi. Inutile negarlo: gli piaceva esser toccato da lui, percepire il suo tocco, quelle mani ruvide su di sé. Le mani di un uomo molto più maturo, dall'ingegno divino. Un uomo dalla voce raspante, certo, ma calda e gentile.
Un po' lo infastidiva che ci fossero stati altri prima di lui, visto che fino a poco tempo addietro si era convinto di essere speciale. Possibile che fosse veramente geloso?
«Sicuro di volerlo fare?»
L'orgoglio dentro di lui ruggì e lo spinse a rispondere subito in maniera affermativa. Era pronto. La vita era troppo breve per non lasciarsi andare e non fare qualche pazzia.
«Stenditi sulla cassapanca. Se vuoi... uhm... puoi coprirti con questo.» Il pittore gli consegnò della stoffa bianca che gli parve seta, tanto era morbida e leggera.
Se lo faccio... penserà che mi vergogno, che ho paura.
Non farlo avrebbe tuttavia simboleggiato sfacciataggine. Non voleva che lo vedesse come uno di facili costumi.
Come se la mia reputazione non fosse già abbastanza compromessa, ricordò a se stesso, sarcastico.
Obbedì e si distese sul mobile, sopra i morbidi cuscini rossi che lo decoravano e rendevano la superficie più comoda. Posò il capo su uno di essi e cercò di assumere una posa naturale, simile a quella di qualcuno che si era appena svegliato. Fece risalire la mano fino al lato della testa, le dita chiuse rivolte verso l'alto. Dopo un bel po' di lotta interiore, scelse di metter via il panno e mostrarsi così com'era, senza velo alcuno, come Dio lo aveva creato.
Le guance gli ardevano più che mai; il cuore batteva velocemente nel petto, al galoppo, come un cavallo impazzito, ma qualcosa lo spingeva a non distogliere lo sguardo dagli occhi attenti e scrutatori di Jacopo. Occhi chiari, la luce del sole che filtrava dalla finestra più vicina li faceva sembrare quasi verdi; illuminava i suoi tratti sottili e spigolosi, il naso diritto, le labbra non molto carnose e i capelli castano chiaro che sulle tempie cominciavano a ingrigire.
È bello, fu un pensiero fugace, spontaneo e diretto. Se ne vergognò quasi subito.
Il disagio, dopo un po', forse gli diede alla testa, perché non poté far a meno di sorridere sotto i baffi.
«Ah-ah, non si ride» lo ammonì Jacopo, ma anche lui stava sorridendo, per quanto cercasse di celarlo.
«Farò uno sforzo» replicò il giovane Dario, mentre faceva di tutto per non socchiudere gli occhi a causa della luce del sole che lo investiva a dir poco in pieno. Cercò di sistemare meglio il busto e la schiena, curvandosi un pochino, quasi come a voler sedurre l'uomo a pochi metri da lui e mettere in risalto le armoniche forme da Adone.
Si perse nell'osservare gli occhi chiari dell'artista fare la spola da lui alla tela sulla quale stava abbozzando la base dell'opera, quella che poi avrebbe sviluppato con i colori, le sfumature, luci e ombre. Per un attimo quasi ebbe la sensazione che quel pennello stesse in realtà sfiorando direttamente la sua pelle. Riusciva a immaginarne il lieve solletico.
Respirò profondamente, ipnotizzato dalla mano che dipingeva l'abbozzo e cercava di ricreare ogni singola parte del suo corpo. Prima che potesse rendersene conto, gli sfuggì un involontario gemito che parve, in realtà, molto di più un sospiro languido e spontaneo. Mai aveva provato un'attrazione così forte, quasi animalesca.
Adoro i suoi occhi, sento che potrei perdermici.
Tutto ciò era... sconvolgente. Una volta era quasi successo, erano stati sul punto di fare ciò che tutto il mondo condannava a priori, ma Jacopo poi si era fermato e aveva ammesso di non voler sottrargli quella specie di purezza che vedeva nei suoi occhi e di voler anzi immortalarla per sempre in modo da bearsene.
‟Ho paura che se ti prendessi, quella luce poi svanirebbe. Non saresti più lo stesso. Voglio proteggerla. Preferisco fare questo, anziché rischiare di rovinarti."
Rovinarlo...! A lui non importava di essere rovinato, di cose in merito al giacere con un'altra persona ormai ne sapeva molte, gli era già capitato più volte, ma solo con delle donne. Non gli interessava di essere rovinato o meno, non quando si rendeva conto di desiderarlo con tutto se stesso, di voler superare il famoso limite e scoprire cosa si provava nel fare qualcosa di così proibito e imperdonabile. Non gli importava della dannazione eterna, del peccato che desiderava commettere. Voleva solo lui.
Si decise a rischiare. Al diavolo il mondo intero. «Voglio il tuo corpo sul mio. Ti prego.»
Arrighi si bloccò con il pennello a mezz'aria, una posa che in una situazione differente Dario avrebbe ritenuto buffa, ma non in quel momento. Era serio come non mai, deciso, spudorato. Con lo sguardo, coi suoi grandi occhi scuri, cercava di tentarlo, di fare in modo che cedesse.
«Cosa?» esalò rauco Jacopo, sbattendo le palpebre un paio di volte.
Il giovane mosse la mascella in una posa coraggiosa e impertinente. «Fai con me quello che hai già fatto con gli altri. Voglio che tu lo faccia ancora e ancora.» Anche da quella distanza vide il respiro dell'uomo accelerare. Poteva quasi sentirne il cuore battere furiosamente come il suo.
Fallo con me e con nessun altro.
Il battito si fece più veloce quando vide l'artista alzarsi dalla postazione e avvicinarsi lentamente. Le mani ruvide e scure di Arrighi gli presero delicatamente il mento e gli fecero sollevare il viso, così che potessero guardarsi negli occhi.
«Non credo tu sappia cosa stai chiedendo. È qualcosa da cui non puoi tornare indietro e credimi... non è piacevole come potresti pensare. Davvero vuoi cedermi te stesso così? Mi ritieni degno di una cosa del genere?»
«Ti sbagli, Jacopo. Lo so benissimo e non ho paura» lo corresse Dario. «Sei degno di questo e di tanto altro ancora.»
Era come se insieme ai vestiti avesse abbandonato anche il pudore, la reticenza, tutto quanto. C'era solo un giovane di vent'anni ansioso di riscoprire un piacere diverso e proibito, quello che univa due uomini e li faceva gridare assieme. Quello che Dio stesso aveva condannato. Quello che se fosse venuto allo scoperto, gli sarebbe costato la vita. Tuttavia ne valeva la pena, se il risultato era quell'inebriante torpore. Non aveva altre brame se non compiacere Arrighi e far sì che fosse appagato da ogni punto di vista. Non voleva che facesse violenza su se stesso e i propri desideri solo perché riteneva lui troppo innocente o chissà cos'altro. Poteva essere all'altezza, anzi lo era sicuramente, non doveva far altro che metterlo alla prova e far di lui ciò che voleva.
Jacopo lo fissò con intensità. «Come puoi somigliare a un angelo e saper tentare un uomo come il Diavolo in persona?» chiese, più a se stesso che al ragazzo.
Dario piegò verso l'alto un angolo della bocca, lo sguardo che non abbandonava quello dell'uomo. Crescendo aveva smesso di essere timido, aveva imparato a non rifuggire gli occhi altrui, bensì quasi a sfidarli. «Non lo so. Scopriamolo insieme, ti va?» Si decise a fare la prima mossa: si tirò su e gli cinse il viso con le pallide dita, poi unì le loro labbra. Il bacio inizialmente fu leggero, come quelli che tante volte si erano scambiati in segreto, poi però divenne più avido; il giovane dischiuse la bocca, accolse il sapore dell'artista, si lasciò divorare dal pittore con le fiamme nello sguardo. Nel frattempo gli tolse alla cieca i vestiti, allentò poi la cintura e si decise a esplorare, ad assaporare anche la novità che le sue dita stavano sfiorando con prepotente decisione. Ansimò e sogghignò percependo che era irrorato dallo stesso fuoco che ardeva dentro di lui, di più al pensiero di cosa avrebbe fatto un simile fuoco del suo corpo vergine che mai aveva conosciuto la carne di un altro uomo.
Jacopo perse tutto l'autocontrollo che gli era rimasto e lo spinse di nuovo giù, denudandosi completamente. Lo raggiunse, gravandogli addosso. Il suo torace mascolino, villoso, scurito dal sole e robusto contrastava con quello magro, glabro, pallido e quasi femmineo del giovane che tanto adorava soprannominare ‟angelo".
Dario respirò a fondo il suo profumo, il sentore dei colori che l'uomo utilizzava, del sudore provocato dal caldo e dalla passione che li divorava, e ancora tante altre piccole sfumature che le sue narici catturarono con avidità.
Era una sensazione strana e nuova avere qualcuno addosso, ma gli piaceva da impazzire e annichiliva le sue esperienze passate facendole sembrare insignificanti, persino uno spreco.
I fianchi di Jacopo spinsero avanti, il sesso di entrambi per la prima volta ebbe un incontro e il ragazzo sorrise; i suoi erano occhi liquidi per via dell'eccitazione e di tante altre cose. Accolse i baci famelici del suo amante, gli stuzzicò il labbro inferiore coi denti, senza fargli male. «Sono tuo. Divorami pure» gemette, ormai privo di ragione e ripensamenti. «Rendimi tuo. È solo a te che desidero appartenere.»
L'artista sorrise con sincera dolcezza, sfiorandogli lo zigomo. «Il mio piccolo angelo. Davvero vuoi essere mio?»
«Sì, più di tutto al mondo» rispose schietto il giovane, baciandogli le dita una ad una. Un gesto di devozione, di affetto, forse provocatorio. «Tuo e di nessun altro. Voglio esser tuo finché avrò vita.»
L'uomo allora annuì, anche se di colpo sembrava incerto e timoroso. La sua unica paura era di far male al ragazzo, tanto pareva delicato, malgrado quegli occhi scuri a mandorla e grandi come quelli dei cerbiatti racchiudessero una gran forza d'animo.
Fece un bel respiro e rilasciò fuori l'aria attraverso le labbra dischiuse come qualcuno che si stava preparando a tuffarsi in mare. Sotto di lui, intanto, il nobile giovanotto si distese meglio sui morbidi cuscini e sollevò di poco il bacino per permettere all'amante di porne uno sotto di esso, in modo da rendere quanto stava per seguire meno scomodo. Divaricò maggiormente le gambe e per una manciata di istanti ripercorse con la punta delle dita il torace e il plesso solare di Arrighi. Vedere i muscoli contrarsi sotto la sua mano era per qualche ragione afrodisiaco, dal suo punto di vista.
Sentì la mano di Jacopo frapporsi fra di loro, poi qualcosa con delicatezza, lentamente, violò il suo corpo. Qualcosa che pur provando a essere gentile, risultava comunque prepotente e invasivo. Ebbe subito un sussulto e spalancò lo sguardo, sapendo che probabilmente quello era solo l'ingresso iniziale. La spada non aveva trafitto che la superficie della carne, non era ancora penetrata completamente, ma Dio se faceva male.
Si agitò sul posto, tremante come una foglia, il fiato trattenuto. Con il braccio sinistro vagò alla cieca e serrò le dita sul cuscino che gli sosteneva il capo.
Perché doveva far così male?
Non riuscì a frenare delle lacrime spontanee e preferì chiudere gli occhi mentre la virilità del pittore cercava di entrare dentro di lui, lo tagliava in due, con decisione plasmava le sue viscere inesperte ridotte a dolore pulsante e sordo. Il ragazzo affondò le unghie nelle spalle del proprio amante per cercare un sostegno, qualunque cosa potesse annichilire la sofferenza. «Mio Dio» singhiozzò, la voce flebile e spezzata. Si vergognava a piangere come un bambino, a mostrare debolezza quando fino a poco fa aveva spergiurato di essere all'altezza della situazione, di non aver paura. Si coprì la bocca col dorso di una mano e soffocò un lamento, tenne lo sguardo lontano da quello di Jacopo perché la vergogna era troppa. Quello era forse il momento più intenso che avesse mai attraversato in vent'anni di esistenza ed era in quel modo che stava scegliendo di viverlo? Piagnucolando come una ragazzina?
La tentazione di serrare le gambe era molta, aumentava di secondo in secondo, ma la ricacciò indietro.
Arrighi tornò a baciarlo, cercò di distoglierlo e di farlo calmare. «Non opporre resistenza» gli sussurrò all'orecchio, il caldo fiato che solleticava la pelle del giovane. «Lasciati andare e rilassati.»
Dario annuì e non resse oltre: si strinse a lui, al maestro che gli avrebbe insegnato l'arte dell'amore proibito. Cercò ancora una volta quelle labbra, i baci lo aiutavano a distrarsi, gli ricordavano che voleva tutto ciò, che Jacopo lo amava e non aveva alcuna intenzione di fargli del male. «N-Non smettere di baciarmi, ti prego» sussurrò fra le lacrime mentre il pittore continuava ad avanzare, a stravolgere il suo corpo e a riplasmarlo. In un modo o nell'altro le loro spoglie mortali finalmente si intersecarono fino al limite loro concesso.
Jacopo tremava, pareva faticare molto a trattenersi e a rispettare i tempi del ragazzo che stava reclamando. Lo vedeva che provava dolore e faticava a mascherarlo, e iniziava a chiedersi se non sarebbe stato meglio, almeno per quel giorno, fermarsi lì. Fargli del male era l'ultimo dei suoi desideri, sarebbe stato ripugnante.
«Se è troppo, dimmelo» gli disse. «Non devi dimostrarmi niente, capito? Le mie esigenze non contano più delle tue.»
Il ragazzo lottò per riacquistare un minimo di contegno e forza d'animo. «N-Non sono una ragazzina spaventata» disse rauco. «Sono abbastanza forte per questo.» La presenza dell'uomo dentro di lui era soverchiante, estranea. Era come avere in casa un intruso molto sgradito che stava occupando fin troppo spazio in una dimora di ridotte dimensioni. Doveva ammettere che quando aveva visto il membro di Arrighi si era chiesto come avrebbe fatto quell'arnese a entrare nel suo corpo, eppure c'era riuscito, pur in modo sofferto. Il primo passo era stato compiuto, perciò non c'era ragione di smettere. Odiava da sempre le cose lasciate in sospeso. «Continua» gli disse.
Il pittore gli afferrò il fianco destro, con l'altra mano invece gli prese gentilmente la gamba sinistra e se la pose adagio sulla spalla, cosa che fece avanzare ancora la sua virilità nelle viscere del giovane nobile, il quale reclinò indietro il collo, forzando il capo sui cuscini e spalancando le labbra in un grido senza voce. Ricordava un'esperienza molto simile, anche se non del tutto uguale: una volta era caduto da cavallo e si era storto piuttosto seriamente una caviglia, e per giorni anche il più piccolo movimento gli aveva causato un gran malessere.
Fa male... così male...
Non era servito a granché tentare di addolcire l'ingresso con la saliva, i fatti parlavano chiaro.
Jacopo si ritrasse, poi si fece di nuovo avanti, ancora più in profondità. Dario non era certo se la lentezza di quei passi di danza profana stesse migliorando o peggiorando la situazione. Sapeva solo che presto il Cielo avrebbe dovuto perdonarlo, perché aveva una gran voglia di bestemmiare come neppure il peggior briccone esistente a Firenze. Non sapendo cosa fare, se non giacere lì e sperare di sopravvivere a quella che pareva più una tortura, anziché esser un momento di piacere, tenne entrambe le mani contro il torace mentre non osava abbandonare gli occhi dell'uomo per trovare conforto e riparo. Si era sentito altrettanto inerme solo quando aveva partecipato alla prima battaglia della propria vita, quattro anni prima, anche se dopo un istinto feroce e fiammeggiante aveva preso il sopravvento sulla paura e gli aveva permesso di sopravvivere, di farsi valere e tornare a casa nelle vesti di vincitore, non di uno che l'aveva scampata per semplice miracolo.
Quasi quasi preferivo la guerra, pensò, vergognandosi immediatamente dopo per un tale accesso di infantile codardia.
«Più vicino» ansimò. «Ti voglio più vicino.»
Quel desiderio venne esaudito: Jacopo si chinò in avanti, gravando di nuovo su di lui e sottoponendo il suo busto a una flessione che gli tolse il fiato e fece tendere i muscoli delle gambe in modo fastidioso. Il ragazzo incrociò le caviglie sul retro del collo dell'uomo, non potendo fare diversamente, tanto l'adesione dei loro corpi era profonda. Il sudore imperlava la pallida fronte di Dario, così come quella di Arrighi. Il respiro di entrambi andava mescolandosi in un matrimonio di ansiti e gemiti mentre di nuovo il più anziano concedeva al più giovane una pausa per riprender fiato e sicurezza. L'artista sorrise debolmente. «Il Diavolo non potrebbe mai piangere così. Dilemma risolto» sussurrò scherzoso, baciandolo non solo sulle labbra, ma su ogni centimetro del bel viso simile a porcellana, sul collo flessuoso. Scese ancora e concentrò l'attenzione sulle rosee areole che parevano tentarlo e in silenzio sembravano pregarlo di essere baciate, morse con dolcezza e succhiate. A tali premure il giovane si contorse e inarcò la schiena; i suoi occhi socchiusi e rivolti verso il soffitto versarono altre lacrime e le sue labbra dischiuse, turgide per i tanti baci, sprigionarono un gemito incrinato.
Il dolore c'era ancora, ma quel che Jacopo stava facendo pareva riuscire progressivamente a distoglierlo dal malessere. Dentro di sé il ragazzo sentiva crescere, come una marea, una sorta di smania, di frenesia.
Jacopo gli chiese se gli era piaciuta la variazione e lui poté solo far cenno di sì con la testa, perché parlare gli era impossibile, e lo fu ancora di più non appena si accorse che il pittore era scivolato ancor più sotto. Arrighi serrò le dita sull'interno delle sue cosce e poi...
Dario spalancò gli occhi e fu costretto a coprirsi le labbra per non gridare. Il suo corpo ebbe uno spasmo involontario, si contrasse e fremette sin nelle ossa quando l'uomo usò la bocca per fare una cosa che nessun altro aveva mai fatto per lui fino a quel giorno. Il fastidio era sparito, visto che il pittore aveva scelto di dedicarsi al suo di piacere, piuttosto che al proprio.
Il ragazzo non resisté all'impulso di serrare le dita prima sulle spalle dell'amante, poi sui suoi capelli. Voleva solo che continuasse, perché ciò che stava provando era meraviglioso, la sensazione di quella umida e calda bocca impegnata a stimolarlo non era paragonabile ad altro, se non forse all'estasi.
Si rese conto che di lì a poco avrebbe raggiunto il limite e allora recuperò quel po' di decenza rimastagli per tentare di allontanare Jacopo, ma quest'ultimo gli accarezzò il plesso solare per rassicurarlo e mandò giù tutto quanto non appena il giovane venne. Si tirò su, aiutandosi con i gomiti, e per qualche istante rimase ad osservare, in preda a una specie di rapita ipnosi, la sua musa maschile ricambiare lo sguardo attraverso le palpebre socchiuse per via del piacere appena sperimentato. Aveva il viso accaldato, sembrava intontito, come se avesse ecceduto con il vino, e ansimava. Il ritratto spudorato e spontaneo dell'abbandono e della lascivia.
Alcune volute dei capelli color mogano scuro ricadevano sul torace, celavano in parte alla vista del pittore i capezzoli, solleticavano lo stomaco piatto. «Sono pronto» ansimò Dario. «Prendimi.» Anche se il primo tentativo aveva fatto male, voleva riprovarci. Sentiva, in maniera contorta e forse perversa, la mancanza di quel dolore. Lo voleva di nuovo dentro di sé e non dovette implorare oltre per essere accontentato. Jacopo lo considerava a quel punto irresistibile, glielo si leggeva negli occhi.
Arrighi si puntellò sulle ginocchia e di nuovo si spinse nelle carni del ragazzo. Lo fece in un colpo solo e ottenne in risposta un grido strozzato. Dario capì che qualcosa in lui era stato sollecitato e aveva acceso delle scintille di genuino piacere. Scivolò più in basso col bacino e riportò le caviglie sulle spalle dell'artista, aggrappandosi nel frattempo al cuscino dove poggiava la testa. «D-Di nuovo» lo pregò, il timbro di voce fattosi stridulo e impaziente. «Lì mi piace! Fallo ancora!»
Neppure ebbe il tempo di terminare, visto che Jacopo aveva già iniziato a ritrarsi e ad affondare nel suo corpo con un ritmo che andava facendosi sempre più serrato, quasi brutale.
«Dio, sì» gemette l'altro, sull'orlo del pianto. «Più forte!» Forse aveva perso la ragione e forse era ignobile da parte sua urlare come una battona o un gatto in calore, ma non gli importava. Gli pareva quasi di sentirlo nel basso ventre mentre si spingeva sempre più lontano, sempre più a fondo. Chiuse gli occhi e si lasciò irradiare, anzi consumare, da quell'esplosione di piacere sensoriale misto a dolore. Un tipo di sofferenza che anziché spaventarlo lo irretiva.
Era il perfetto sposalizio di agonia ed estasi. Una danza frenetica che lo faceva piangere e lo indusse a soffocare le grida mordendosi con forza un avambraccio mentre la ragione andava perduta, forse per sempre.
In maniera perversa e contorta quel dolore sublime lo faceva sentire vivo come non mai. Lo amava e odiava, ne voleva ancora, eppure quando tornava ecco che altre lacrime gli bagnavano il viso accaldato e imperlato di sudore. Il sentore dell'uomo sopra di lui, la sua essenza più intima, invadeva le sue narici; il sole che continuava a splendere gli faceva sentire ancora più caldo; dentro era in fiamme, le fiamme lo avvolgevano e divoravano, per un attimo ebbe il timore che si sarebbe presto tramutato in cenere.
Il suo udito catturò il suono dei fianchi di Arrighi che cozzavano contro di lui; i loro corpi che frizionavano e diventavano un tutt'uno fondendosi come due leghe nella fucina di un fabbro; quelle spinte così intense da far male, Lui che reclamava ogni oncia della sua carne.
Trasse di più a sé Jacopo e sfiorò con le dita il suo fondoschiena, seguendone i movimenti ripetitivi e ipnotici.
Ormai sapeva di appartenergli, di aver ceduto per sempre una parte che sarebbe dovuta restare inviolata e sacra, ma non gli importava.
Inebriato da tutto quanto, dal matrimonio profano di piacere e dolore, da tutti quei suoni sporchi e animaleschi, sorrise tra le lacrime, sentendosi felice senza una ragione precisa.
«Ti amo» esalò. In risposta l'artista gli pose una mano sul basso ventre e continuò a spingere, così tanto che a un certo punto Dario perse del tutto il senno e arcuò la schiena sino al limite consentito dalle vertebre, gli occhi serrati e le labbra spalancate in un grido senza voce. Quel punto speciale dentro di lui era stato ancora una volta sollecitato, stavolta con forza. Dal verso quasi animalesco che Arrighi fece capì che erano venuti nel medesimo istante.
Nei minuti che seguirono, giacquero abbracciati e ansanti sui cuscini, poi Jacopo, ripresosi un po' dal torpore, scivolò fuori dal ragazzo con delicatezza e si lasciò cadere accanto a lui. Lo strinse a sé e gli baciò la fronte. Il giovane sorrise con abbandono, negli occhi un amore incondizionato per quell'uomo splendido e geniale che gli aveva rubato il cuore, forse la stessa anima. «Possano esserci mille altri giorni come questo» sussurrò, posando degli amorevoli baci sui pettorali e lo sterno del pittore. «E possa il nostro amore vivere per sempre, anche quando entrambi saremo cenere.»
~ 𝟏𝟗𝟖𝟖 ~
Dopo esser rimontati in auto, si erano recati in un bar abbastanza tranquillo e lì, di fronte a un caffè bollente e immersi nel sommesso chiacchiericcio che offriva un piacevole sottofondo, Max si era deciso a fargli una domanda che da tanto tempo lo assillava. «Quando siamo stati insieme per la prima volta, due anni fa, hai detto che quei sentimenti che ho provato appartenevano a qualcuno. Di chi si trattava?»
Dario, dopo un lungo e interminabile silenzio, finalmente aveva ceduto, scegliendo di raccontare al fidanzato tutto quanto partendo dal principio. Era stato doloroso ripercorrere quegli antichi sentieri, eppure in parte si sentiva finalmente liberato di un grande peso. E poi, in fondo in fondo, rivivere l'attimo in cui aveva incontrato per la prima volta Jacopo e, anni dopo, si era concesso a lui, gli aveva fatto provare una nostalgia dolce-amara, come quando si guardava una vecchia fotografia di tempi ormai trascorsi, ma mai dimenticati.
Prese un sorso della calda bevanda, poi: «Morale della favola: quel dipinto rimase sempre incompiuto. Ogni volta che cercavamo di finirlo, ecco che facevamo ben altro e alla fine ce ne dimenticammo del tutto». Strinse le spalle e abbozzò un sorriso nostalgico. Non se la sentiva di ammettere che poi, in seguito, avesse di nuovo posato molte volte per Arrighi, diventandone la musa più celebre e acclamata dall'opinione pubblica dell'epoca, malgrado Jacopo lo avesse ritratto, su suo stesso consiglio, facendolo passare per una fanciulla, ovvero rendendo i suoi fianchi più larghi e a clessidra, aggiungendo un accenno di seno e addolcendo di pochissimo i contorni del viso. Che gli piacesse o meno, era opinione più o meno comune che il suo volto avesse un qualcosa sia di maschile che di femminile, cosa che un paio di volte aveva prodotto gaffe esilaranti nelle quali aveva dato tela a chi aveva commesso l'errore, anziché arrabbiarsi. Non c'era niente di male, dopotutto.
«Lui mi fece capire per la prima volta cosa fosse il vero amore, avere qualcuno di speciale nel cuore, io invece fui capace di ripagarlo contagiandolo con la tubercolosi. I miei ultimi mesi di vita gli sottrassero tempo prezioso che avrebbe potuto impiegare dipingendo, cercando di rinvigorire le magre finanze di cui disponevamo a quel punto. Proprio quando cominciavo a pensare di essere per lui un peso e a pregare di morire presto, così da restituire a Jacopo il tempo che gli avevo portato via, ecco che...», come a voler farsi coraggio, si versò in gola dell'altro caffè. «Arrivò lui. Il mostro che mi trasformò in questa... cosa.»
Max gli strinse una mano. «Cosa accadde, di preciso?»
«Lui...», Dario si sforzò per ricordare. «Ancora oggi non mi è molto chiaro cosa avvenne, a essere sincero. Ero divorato dalla febbre, rifiutavo di mangiare, non riuscivo a riposare e credo fossero insorte altre complicazioni interne gravi. Credo fosse in corso un'infezione, forse... persino un'emorragia interna. Ero messo davvero male. Era sera inoltrata quando Jacopo entrò nella stanza seguito da lui, Arwin. Una cosa la ricordo bene: inizialmente fui felice di vedere un viso familiare che apparteneva al mio passato, a quando non ero ancora stato cacciato di casa e diseredato. Jacopo era sollevato, come me pensava che ci fosse una cura. Arwin gli disse di lasciarci da soli, poi si avvicinò. Riuscivo a tenere a malapena gli occhi aperti e a restare cosciente. Se ci ripenso e chiudo gli occhi, sento di nuovo il mio stesso respiro ormai ridotto a un rantolio affaticato. Non riuscivo quasi a respirare. Credo... credo che in ogni caso sarei morto nel giro di qualche ora. Non potevo più andare avanti a quelle condizioni.»
Maximilian notò che le mani del fidanzato tremavano e allora le strinse entrambe.
«Mi sembra che si recise un polso e raccolse il proprio sangue in un calice. Ricordo, però, che aggiunse qualcos'altro, una specie di polvere molto sottile. Col senno di poi, suppongo che si trattasse di veleno. Non saprei come altro spiegare, altrimenti, che morii di colpo, neanche un'ora dopo. Il veleno provocò una reazione e chiuse completamente le vie respiratorie. Dei miei ultimi istanti da umano ricordo solo che soffocavo. Fu come annegare nel più profondo degli abissi senza mai più risalire. Soffocai mentre Jacopo era al mio capezzale e mi stringeva la mano, convinto che quello fosse solo una conseguenza passeggera della cura e che presto sarei stato meglio. Invece, da che ne so, smisi di respirare e tutto finì in quel modo. Ricordo che negli ultimi istanti, prima di perdere conoscenza e sprofondare nell'oblio, piangevo, avevo paura. Avrei solo voluto chiedere all'uomo che amavo di stringermi mentre stavo cadendo in un abisso dove lui non avrebbe potuto seguirmi.»
Che morte orribile, pensò Max, senza riuscire a immaginare a come dovesse essersi sentito Dario in quegli ultimi fatali attimi.
«Morii dopo aver assunto il sangue di un vampiro e, come da prassi, dopo un po' tornai indietro. Hai presente la sensazione di cadere nel sonno? Più o meno fu così. Qualcosa mi scaraventò nuovamente nel mio corpo, senza neppure chissà quanta grazia. Riaprii gli occhi e quando la mia vista si ristabilì, capii che non mi trovavo più nella mia casa, ma in quella di Arwin, il mio Creatore. Lui era lì, accanto al letto, e... mi spiegò senza tanti fronzoli la situazione, mi disse che non ero più un essere umano, ma qualcosa di diverso, qualcosa che sarebbe vissuto in eterno e avrebbe dovuto nutrirsi di sangue per sopravvivere. Lì per lì pensai fosse uno scherzo ben orchestrato e di pessimo gusto, ma no, nessuno scherzo. Era la realtà, anche se faticai per molto tempo ad accettarla.»
«Era un vero sadico» commentò Max. «Invece di tranquillizzarti, ti traumatizzò.»
«Sì, ha sempre provato piacere nel mettermi alle strette. Comunque, mi rifiutai di uscire da quella stanza per giorni e giorni, finché non fu qualcosa a spingermi a uscire. La sete mi divorava, mi faceva impazzire, provavo l'istinto di dovermi nutrire anche a costo di uccidere. Pensavo solo al sangue. Che tu ci creda o meno, la mia prima vittima fu un topo. Ricordo che lo vidi in cucina far capolino da un buco nella parete e io, come un gatto, scattai e lo catturai subito. Arwin si sbellicò dalle risate e... fu davvero umiliante. Mi lasciò fare. Il sangue dei topi non è un granché, nel caso te lo stessi domandando, e la dose è misera. Meglio un essere umano, a quel punto. Non mi è mai piaciuto attingere dagli animali, a esser onesto.»
Dall'espressione, era chiaro che presto avrebbe affrontato il discorso sulla propria famiglia.
Max non sapeva se si sentiva pronto ad ascoltare. Non perché non ne avesse il coraggio, ma perché non osava immaginare quale tortura sarebbe stata per Dario.
«Nella sua crudeltà, penso che Arwin ci mise tutto l'impegno di cui disponeva per trasmettermi la propria conoscenza in merito al vampirismo, ma i risultati furono scarsi. Se lui considerava gli esseri umani qualcosa al di sotto di noi, io ero ancora profondamente legato alla mia umanità e rifiutavo quel nuovo modo di vivere, la prospettiva di uccidere le persone per sostentarmi. Arwin alla fine si stancò di me e mi disse che potevo pure tornare dalla mia famiglia, se ci tenevo così tanto. Non mi avvertì di alcunché, non mi mise in guardia dalla natura animalesca che tutti i vampiri possiedono. Mi illusi di essere finalmente libero e partii per tornare a Firenze. Fu un viaggio più lungo del previsto. Non mi trovavo più in Italia, bensì oltre i suoi confini, da qualche parte in Francia, e potevo spostarmi solo di notte. Per giorni interi tirai avanti col sangue di animali che catturavo e prosciugavo, e subito dopo mi odiavo per averli uccisi, ma ero troppo spaventato all'idea di aggredire una persona, un altro essere umano. Come ho già detto, Max, non mi ero rassegnato. Credevo di essere ancora lo stesso Dario che si era addormentato e poi risvegliato in un corpo che non riconosceva più negli istinti e nelle sensazioni, neppure nell'aspetto, in parte. Consideriamo che morii non solo di tubercolosi, ma anche di denutrizione e disidratazione, e come vedi... insomma, non ho tuttora un aspetto sano, anche se per qualche motivo è migliorato nel tempo. All'inizio ero scheletrico e quando mi guardai allo specchio per la prima volta da quando mi ero trasformato, mi spaventai a morte. Mi chiesi cosa ne fosse stato dell'uomo che il mio amato pittore aveva adorato e venerato come un dio pagano. Piuttosto mi ero trasformato nella personificazione della miseria.»
Dario si fermò e a fatica sollevò lo sguardo per incrociare quello di Max.
«I-Io amavo la mia famiglia, compreso mio padre, anche se per lui fino all'ultimo non fui mai altro, se non la brutta copia di mio fratello. Per lui c'era sempre stato solo Filippo, il figlio prediletto e perfetto. L'ultima volta che avevamo parlato, prima che morissi, stavo per abbandonare quella casa per sempre e mi decisi a parlare con lui schiettamente. Lessi attraverso le sue azioni passate, le parole che per anni mi aveva rivolto e alla fine... purtroppo capii, così come poi compresi che in quella famiglia, secondo mio padre, non ci fosse mai stato realmente spazio per me.»
‟Avreste preferito che fossi stato io a morire, a venir stroncato da quella malattia al posto di Filippo. Ditemi la verità, padre. Per una volta siate sincero."
Ricordava ancora lo sguardo deluso e sprezzante che quell'uomo rigido e autoritario gli aveva rivolto. In lui non aveva mai visto nulla, se non un blando rimpiazzo del figlio che aveva purtroppo perduto precocemente, quello nel quale aveva riversato tutte le speranze e le aspettative.
Mai lo aveva sentito parlar male di Filippo o rimproverarlo per qualcosa, perché in fin dei conti si era dimostrato sul serio un figlio perfetto, uno di quelli sempre a modo, intelligente, carismatico, umile.
Il contrario del figlio scalmanato e poco capace di nome Dario, quello che sarebbe potuto anche non nascere, la cui esistenza in fin dei conti solo nel triste epilogo di famiglia aveva fatto la differenza. Un'orrenda differenza.
Se Filippo era stato il collante che sempre aveva tenuto insieme la famiglia, Dario era invece il distruttore che l'aveva fatta a brandelli e portata all'estinzione totale. Era un dato di fatto comune che tutti i De Piacentis fossero periti quella lontana notte. Non era sopravvissuto nessuno, tanto che non erano neppure ricordati dalla stessa storia.
‟Vuoi davvero la verità, ingrato che non sei altro? Sì, vorrei che Dio quella volta si fosse preso te, invece di Filippo. Vorrei che lui fosse ancora vivo. Se solo potessi baratterei con gioia la tua vita con la sua, sacrificherei te pur di riavere indietro lui. Tu sei stato capace sempre e solo di spezzarmi il cuore e deludermi. Di tre figli maschi, uno è morto, l'altro è troppo piccolo e malaticcio, e l'altro ancora si è rivelato essere un sodomita degno della forca!"
Si era solo limitato a dirgli addio. Come altro si poteva rispondere all'odio del proprio padre, se non con il silenzio e con un'ultima parola di rispettoso commiato? Un genitore restava pur sempre tale e si era privi di difese persino di fronte all'odio e al disprezzo.
Nonostante le preferenze che il padre mai si era disturbato a celare, Dario mai aveva detestato il fratello, anzi l'esatto contrario: l'affetto che aveva provato per Filippo era stato sincero fino alla fine, in fin dei conti per lui e lui soltanto era scappato di casa, si era spacciato per il primogenito di famiglia ed era sceso in battaglia, consapevole che sarebbe potuto morire. Tutto solo per mantenere intatto l'onore e la fama di Filippo, e dimostrare anche a se stesso di essere capace di fare qualcosa di realmente grande, all'altezza delle aspettative.
Mai aveva sofferto come quando, di ritorno dalla guerra, invano aveva chiamato il fratello maggiore, convinto che si fosse ripreso, che avesse superato la malattia e avesse vinto, come al solito. Lo avevano accolto suo padre e le sue sorelle, ed era stata la più grande, Rebecca, a dirgli che purtroppo Filippo aveva perso l'ultima battaglia, quella contro la morte.
Non aveva voluto ascoltare, aveva rifiutato quella realtà a priori, continuato a chiamarlo, ignorato le lacrime dei presenti e chiamato a squarciagola il fratello, ma di fronte alla sua stanza vuota e fredda, al gelo dell'assenza, anche lui aveva perso, travolto dalla verità e stretto in un abbraccio dall'altra sorella, Beatrice, che aveva pianto con lui e nel frattempo l'aveva pregato di calmarsi.
Pochi erano stati i momenti nei quali aveva sofferto davvero, ma venire a sapere della scomparsa di Filippo era stato fra i traumi peggiori di tutti. Il muro che giocosamente sempre aveva provato a superare, di colpo era stato ridotto in macerie e a quel punto tutte le responsabilità erano state riversate su di lui, senza che lo avesse mai desiderato o chiesto. A lui era stato affidato il compito, un giorno, di far ereditare a un'eventuale discendenza il cognome e il casato, ma checché ne sapesse, era morto senza avere figli, né illegittimi né concepiti nel sacro vincolo del matrimonio cui si era sottratto con forza fino al giorno in cui era stato cacciato di casa.
«Più il tempo passava e più mi rendevo conto che mai sarei riuscito a reggere il confronto. Mi vergogno ad ammetterlo, ma da ragazzo raramente mi sono comportato da persona responsabile. Mi importava solo di divertirmi, di avere il mondo ai miei piedi perché sapevo di averne il potere: ero di bell'aspetto, ero forte e sano, ricco, conosciuto e apprezzato dall'alta società di Firenze. Il piccolo principe di un regno altrettanto piccolo. Onestamente ho commesso tanti di quei sbagli da averne perso il conto.»
Max lo ascoltava col cuor in gola. Un conto era che Askan fosse a raccontare tutto, un altro invece era sapere una storia del genere direttamente dalla fonte di quelle rimembranze.
«Perché tornasti da loro? Voglio dire... vada per il resto della famiglia, ma tuo padre? Tornare da lui dopo che ti aveva detto quelle cose orribili non fu troppo, considerando cos'avevi passato di recente?»
«Magari non te ne sei accorto,» rispose Dario, con una nota di ironica amarezza nella voce, «ma sono tra i più grandi masochisti che siano mai esistiti, e comunque restava mio padre. Quella era la sola famiglia che mi restasse e quando siamo in difficoltà torniamo a ripararci sotto la sua ombra, sperando di essere riaccolti. Che tu ci creda o meno, Max, anche se all'inizio non parve molto felice di rivedermi, mio padre poco dopo pianse e mi abbracciò. Fu l'unica volta in cui lo fece. Non mi aveva mai stretto a sé prima di allora, mai un gesto d'affetto o una semplice carezza. Per me fu sufficiente a cancellare tutto quello che mi aveva detto, perché vederlo ancora vivo, sapere che non se n'era andato come invece aveva fatto Filippo, mi riempì di gioia e sollievo. Fui persino grato ad Arwin, anche se col senno di poi mi vergogno ad ammetterlo.»
Max non si sentiva pronto per ascoltare il resto. Percepiva la sofferenza del fidanzato con chiarezza, era forte, un pugno nello stomaco. Non poté ripensare per un attimo a cosa sarebbe accaduto se lui, tanti anni prima, avesse scelto di andare fino in fondo, di tornare dalla propria di famiglia. Probabilmente si sarebbe verificato quel che era accaduto a Dario, perché in fin dei conti i vampiri erano predatori solitari, inadatti a restare in gruppo, a comprendere il concetto di famiglia che dopo la rinascita perdeva ogni significato.
Erano l'anello che univa il regno animale a quello umano, una regressione o forse una spietata e perversa evoluzione dell'umanità, ma come tutti i grandi e temibili predatori erano abituati a cacciare in solitudine. Il legame familiare non era previsto e guai a chi provava a dimostrare il contrario.
Io e lui, però, stiamo insieme.
Certo, stavano insieme, eppure non era raro che Dario spesso tornasse a cercare un minimo di intimità, di spazio personale dal quale Max era sì e no bandito. Non era raro che preferisse andare a procacciarsi il sangue fresco da solo, da quando era tornato a nutrirsi e aveva smesso con i Fiori del Buio. Aveva accettato il passo del fidanzamento, eppure non aveva mai rinunciato fino in fondo alla libertà individuale.
La solitudine e l'individualismo erano nella natura di tutti loro. Forse quella era la cruda realtà.
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